Le cronache politico-congressuali che giungono dagli Stati Uniti non costituiscono una sorpresa per le istituzioni americane. Non è sorprendente, infatti, che si denudino, anche sui temi di politica economica, le tre declinazioni fondamentali del Partito Repubblicano: una corrente populista (che oggi sembra rappresentata soprattutto dai Tea Parties), intenzionalmente propensa a ogni forma di ostruzionismo verso i Democratici, una corrente marcatamente liberista, che però, nel rispetto della tavola comune delle libertà economiche costituzionali, è pronta a negoziare il proprio sostegno ad interventi ad hoc, una parte di ispirazione solidaristica, tendenzialmente conservatrice, gelosa dei primati dell’economia nazionale e non ostile ad idee protezionistiche. Dietro la crisi del debito statunitense non si vedono i rivoli di una Destra repubblicana lacerata, né le mille facce di un Partito Democratico che perde smalto lontano dalle scadenze elettorali, ma, probabilmente, le conseguenze di un riassetto del mondo economico che travolge le categorie del mondo politico. La “spartizione” del mondo, tra blocco atlantico e blocco sovietico, dopo quarant’anni tumultuosi, non s’era, in verità, frantumata col Muro di Berlino: ne sta accelerando una crisi estrema il quadro delle trasformazioni economiche. Per gli Usa la posizione cinese è preoccupante, quanto lo era, e di più, quella russa di trent’anni orsono: il concorrente principale non è un rivale ideologico e militare; è un soggetto in grossa ascesa produttiva, che detiene partecipazioni, risorse, obbligazioni. È un gigante la cui poderosa crescita, ai limiti dell’esplosione, è stata a lungo sottovalutata: ora gran parte delle dinamiche import-export mondiali sono legate a quel miliardo e oltre di nuovi consumatori e di produttori in evidente sviluppo. Da forza emergente a soglia critica di ogni pretesa stabilità. La vera novità di questi anni è che, dietro a un antagonista/alleato, non si cela più soltanto un pugile di carta, le cui pecche sono enfatizzate ogni oltre misura; ma un partner da accettare, perché, dietro a questo, serrano le fila alleanze inedite, che coinvolgono Stati di media e medio-grande capacità produttiva (basti pensare al Brasile, all’India, al Sudafrica, alla stessa Russia, ormai coerente con un assetto strategico che, del liberismo economico, ha preso soprattutto le sperequazioni sociali e l’espansione delle lobbies energetiche). In altre parole, negli Usa non si gioca la partita solo sul piano del bilancio, della quadratura del cerchio, dell’armonizzazione delle misure fiscali. Si gioca l’ultima possibilità rimasta per continuare ad avere una posizione egemone nel quadro di un mercato multipolare che si rivolge, ormai, senza alcuna pregiudiziale ideologica, a qualunque attore sia in grado di battere cassa. Un esito imprevisto, per i teorici di ogni risma del primato americano.
Domenico Bilotti