Il capitalismo del malaugurio

di Vittorio Lussana

Le recenti speculazioni finanziarie dirette contro la Borsa italiana avevano precisi interessi e obiettivi: l’Italia è stata attaccata perché un suo tracollo rappresenterebbe il colpo definitivo all’euro, quindi a quel processo di unificazione politica dell’Unione europea che, purtroppo, non è ancora stato portato del tutto a compimento. Questa rimane, infatti, una delle questioni principali: la mancanza di una visione complessiva della nuova struttura politica sovranazionale e la mancata identificazione dei precisi passaggi programmatici in grado di guidare l’Ue sul sentiero di una più celere uniformazione giuridica, culturale e sociale. Si tratta di un tema che non sembra appassionare più di tanto: quello della creazione di un’effettiva cittadinanza europea. Ne ho parlato di recente con un amico preparato e intelligente come Claudio Martelli, che in passato ha anche ricoperto la carica di autorevole membro del parlamento di Bruxelles, ma oltre a qualche ponderato ‘silenzio riflessivo’ non sono riuscito a ottenere, quasi presentassi argomentazioni valide solamente su un piano teorico. Eppure, ogni possibile visione politico-sociale dei rapporti economici continentali rischia di essere seppellita proprio dalle speculazioni del capitalismo finanziario, nonché dai nuovi ‘statalismi’ come quello cinese o quelli asiatici più in generale. Il potere che il sistema della finanza ‘globale’ ha acquisito attraverso la capacità di destabilizzare interi Stati dipende da una premessa fondamentale, accettata stupidamente da tutti. Mi sto riferendo al concetto ‘neoclassico’ dell’economia capitalistica, basato sull’esistenza di meccanismi autoregolatori del mercato, quelli tra domanda e offerta, applicato al settore dei capitali finanziari, nonostante esso costituisca da tempo uno dei presupposti più errati di tutta l’intera storia dell’economia politica. Nella microeconomia neoclassica, infatti, quella che viene ancora oggi spiegata in tutte le università alle ‘matricole’ di Economia e commercio, l’interpretazione del rapporto fra domanda e offerta sostiene che, all’aumento del prezzo marginale di un bene, i produttori ne accrescano la produzione in vista di maggiori ricavi, mentre i consumatori a loro volta ridurrebbero la domanda stessa determinando una funzione di riequilibrio che si riflette positivamente sul prezzo. Ebbene: le cose non stanno affatto così. O, per lo meno, non siamo di fronte a un meccanismo pienamente automatico come tutti quanti abbiamo sempre pensato, soprattutto sui mercati dei titoli azionari. Questa ‘legge economica’ è un’evidente semplificazione di un meccanismo più complesso. Lo si può notare con piena evidenza proprio sui mercati ‘borsistici’ poiché, quando i prezzi delle obbligazioni e delle azioni nominali crescono, ciò che regolarmente accade è un conseguente e continuo aumento della domanda in senso direttamente proporzionale e non in senso ‘inverso’. In sostanza, a prezzi crescenti corrispondono più alti profitti per coloro che possiedono azioni a motivo dell’incremento di valore del capitale investito. E’ proprio l’ascesa dei prezzi azionari, in pratica, ad attrarre nuovi acquirenti, andando a rafforzare la tendenza iniziale all’aumento, mentre l’aspettativa di dividendi spinge i vari soggetti presenti sul mercato a incrementare i movimenti di capitale. Tuttavia, questa tendenza non può essere continua, unidirezionale, assoluta: essa ‘regge’ fino a quando non si verifica una ‘ricaduta’, ovvero fino al ‘collasso’ azionario. Questo, a sua volta, finisce col determinare un’inversione delle aspettative e un ‘contraccolpo’ che, alla fine, conduce verso una condizione assai peggiore rispetto a quella di partenza. Ed è esattamente questo l’andamento delle ‘bolle’ speculative: un aumento cumulativo dei prezzi che non produce effettiva convenienza, generando sperequazione. Chi vi scrive, continua a ribadire il medesimo concetto ormai da alcuni anni: l’idea di un mercato finanziario governato da una ‘mano invisibile’, regolatrice degli assetti economici, finisce col conferire proprio alle forze speculative la possibilità di esercitare un enorme potere di condizionamento economico, finanziario e persino politico. Un potere proveniente da queste ormai tristemente famose ‘agenzie di rating’, che a livello planetario esercitano un monopolio di fatto sull’intero sistema capitalistico-finanziario. Sono infatti le loro ‘previsioni’ a fornire, di volta in volta, i pretesti per colpire un Paese anziché un altro, il Portogallo invece della Grecia, l’Irlanda piuttosto che l’Italia. La fonte del loro potere sta semplicemente nel fatto di essere emanazione di società finanziarie internazionali che ne possiedono interamente il capitale societario, ovvero le medesime di cui queste agenzie dovrebbero valutare affidabilità e stabilità economica. Insomma, sui mercati dei titoli finanziari tutti sono soggetti alle analisi e ai giudizi di valore di queste agenzie del ‘malaugurio terroristico’ che proprio da tali valutazioni traggono profitti e che, oltretutto, appartengono a quelle società finanziarie che possono a loro volta trarre fortissimi vantaggi da determinate stime. Quale affidabilità possono avere tali agenzie? Nessuna: esse sono totalmente fuori controllo. La stima di valore di un prodotto finanziario non è la misurazione di una grandezza ‘oggettiva’, bensì un ‘titolo’ su un guadagno futuro attorno al quale, al fine di valutare questo ricavo, si stabilisce in anticipo quale sarà quello più possibile o più probabile. Stiamo parlando, in estrema sintesi, di un pronostico, di una scommessa, non di una misurazione certa. Il prezzo di un prodotto finanziario è appunto il risultato di una valutazione, di una mera ‘opinione’. E si spera vivamente che la paura di questi giorni sia per lo meno servita a chiarire a tutti quanti questa semplicissima verità. Non vi sono garanzie che certe valutazioni dei mercati siano in alcun modo superiori a qualsiasi altra forma di giudizio. E, infatti, tali ‘opinioni finanziarie’ non sempre sono ‘neutrali’ o equilibrate, ma, al contrario, siccome influiscono pienamente sull’oggetto che si intende valutare, possono ‘direzionare’ il futuro che esse stesse auspicano. In pratica, le agenzie di rating svolgono un ruolo importante nel determinare il tasso di interesse sui mercati dei ‘bond’ assegnando ‘pagelle’ che, tuttavia, spesso e volentieri risultano altamente ‘soggettive’, se non addirittura ‘pilotate’ dal desiderio di accrescere l’instabilità interna dei Paesi più deboli o ad alto debito, poiché ciò si traduce facilmente in grandi profitti speculativi. Quando queste agenzie tagliano il rating di uno Stato, accrescono il tasso di interesse richiesto dagli attori finanziari per acquistare i titoli del debito pubblico di quel Paese, moltiplicando, in questo modo, proprio quel rischio di ‘default’ che esse stesse hanno annunciato. Sono questi due elementi quelli che rischiano di distruggere quanto costruito sino a oggi sul cammino di una effettiva unificazione europea: un presupposto ideologico totalmente sbagliato, soprattutto al di fuori del ‘territorio’ dei beni di consumo – quello di un mercato regolato in forme ‘divinatorie’ da una sorta di ‘banditore invisibile’ che ne determinerebbe l’andamento dei prezzi – e la mancanza di controlli legali e giuridici sulle agenzie di rating, che in pratica fanno quello che vogliono sull’intero sistema globalizzato. Tutto questo, francamente, non poteva più di tanto essere previsto ai tempi del Trattato di Maastricht. A ogni modo, ciò non significa che non sia il caso, oggi, da parte delle principali istituzioni europee, di mettere a questa situazione una bella ‘pezza’. Anche ‘a colori’, se necessario. (Laici.it)

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