Cultura ambientale, non ideologia

di Ilaria Cordì

Nel corso degli anni ’90, abbiamo vissuto una fase di acculturamento sotto l’aspetto ambientale: si approfondirono concetti quali lo sviluppo sostenibile, ovvero un processo finalizzato a un miglioramento ambientale e non solo a livello mondiale, la gestione del territorio e la protezione di questo dall’inquinamento, improntata sul miglioramento della qualità della vita e gli effetti climatici. Nel 1997 l’Italia ha cambiato il suo approccio culturale nella gestione dei rifiuti passando da un sistema economico e sociale, improntato su un consumo di prodotti monouso (“usa e getta”), a un modello basato sul recupero dei rifiuti e sul loro successivo riutilizzo, privilegiando così una elaborazione di prodotti multiuso. Si crearono così ben due distinte fasi: la prima, dove il metodo dominante era lo smaltimento in discarica; la seconda, in cui la discarica è vista come stadio residuale di contenimento fino a una prossima eliminazione. La coincidenza di queste due fasi è legata a un ulteriore problema, ovvero quello di un passaggio da una gestione di rifiuti regolata da una normativa nazionale coerente quale il ‘decreto Ronchi’: un decreto legislativo (il n. 22 del 1997) di ricezione della legislazione europea del 1975, ispirata a una cultura ambientale sul tema della gestione dei rifiuti propria delle nazioni del nord Europa. Con i ritardi culturali della società italiana, ci siamo così trovati a subire shock di tipo economici, culturali e sociali, essendo costretti in tempi brevissimi ad adeguare il mercato alle nuove normative con le difficoltà legate alla scarsa coerenza del sistema economico e con la cultura dominante. Il passaggio da un sistema all’altro impone alle famiglie comportamenti di vita completamente differenti, tanto che la comunicazione con queste è più facilmente improntata verso le generazioni dei giovani che sono più aperti alle innovazioni culturali rispetto ai loro genitori per ciò che riguarda lo sviluppo di atteggiamenti collegati agli obiettivi della raccolta differenziata, con una priorità verso il prodotto multiuso e con una preferenza di prodotti biocompatibili meglio recuperabili durante il ciclo di vita. Ma ci chiediamo: si può considerare il dilemma dei rifiuti come un problema politico? Tali problemi nascono quando la democrazia è troppo basata sullo spontaneismo elettorale, che genera esponenti incapaci di porsi come guida verso la modernità, come esclusivi garanti delle applicazioni di ideologie storicamente valide, ma non adeguate ai tempi, al mutare della società e delle nostra cultura. Viviamo, oggi, una fase sociale dove la cultura ambientale si sviluppa in modo diverso a seconda di sensibilità profondamente diversificate. In alcuni casi, la cultura ambientale ha sostituito, con uguale rigidità, le ideologie politiche; l’associazionismo ambientale si è spesso trasformato in movimento politico, in seguito in Partito, acquisendo connotazioni non più volti al miglioramento della qualità della vita, della protezione della salute e dell’ambiente. Un esempio di ciò è l’attuale dibattito sul nucleare, nel quale si confrontano concezioni politiche a volte basate esclusivamente sul pro o sul contro il ‘berlusconismo’, al posto di un confronto scientifico basato sull’analisi dell’utilità economica, sulla difesa degli interessi nazionali e sulla protezione dei rischi per la salute dell’uomo e dell’ambiente. Lo sviluppo sostenibile, perciò, ci impone di pensare al futuro economico e sociale della qualità del modo di vivere, assicurando alle future generazioni l’uguale godimento delle risorse naturali, una qualità non inferiore dell’ambiente e della vita. (Laici.it)

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