Eugenio Marino al seminario sull’emigrazione che si sta tenendo in data odierna al Teatro dei Comici in Roma

Buongiorno a tutti,
e grazie di essere venuti qui oggi, in un giorno infrasettimanale, per seguire i lavori di questo seminario.

Grazie soprattutto a quanti sono arrivati dal Belgio, dalla Francia, dalla Germania, dalla Gran Bretagna, dal Lussemburgo, dall’Olanda, dalla Spagna e dalla Svizzera, sacrificando anche alcuni giorni di lavoro.

Ai numerosi parlamentari italiani ed europei presenti, ai rappresentanti delle ambasciate, dei sindacati, delle associazioni, al segretario Pier Luigi Bersani, a Massimo D’Alema.

La vostra presenza è una conferma di quanto sia avvertito il bisogno di una riflessione culturale e politica sugli italiani all’estero e sul nesso tra il destino dell’Italia e quello delle sue comunità nel mondo.
E per questo che devo un ringraziamento speciale al Centro studi del partito e al suo Presidente Gianni Cuperlo, che ha saputo cogliere questa necessità e inserirla nella riflessione nazionale del Partito.

Un ringraziamento particolare va naturalmente ai relatori che hanno accettato di partecipare a un seminario organizzato dal Partito Democratico e agli artisti che porteranno il proprio contributo alla nostra riflessione con canzoni che hanno a tema le migrazioni, vecchie e nuove.

Uno dei compiti ineludibili di un partito politico resta quello di leggere i fenomeni del proprio tempo, nella loro genesi ed evoluzione storica, individuandone problemi e potenzialità, per proporre una visione e un progetto politico che sappia sviluppare proprio quelle potenzialità, in armonia con tempi e contesti di società in mutamento.

Più volte si è detto che nel nostro Paese vi è stato, in questi 150 anni di unità nazionale, un atteggiamento di rimozione del fenomeno migratorio dalla storiografia e dall’elaborazione culturale, ancor più grave perché avvenuto anche nelle scuole e nelle università.
O per lo meno una sottovalutazione di quanto l’emigrazione abbia rappresentato nella storia unitaria per l’Italia.

Forse, in questo senso, si è occupata di emigrazione più la canzone (da quella folk e popolare a quella di largo consumo) che la storiografia e la letteratura.
E qui vale quanto diceva Proust che “le canzoni, anche quelle brutte, servono a conservare la memoria del passato”.

Per questo, come Partito Democratico, siamo convinti che serva alla politica e al Paese provare a compiere una riflessione approfondita sul fenomeno migratorio.

Tentare di elaborare una visione nuova delle nostre comunità nel mondo, che comprenda la capacità di non recidere il loro storico legame con il Paese d’origine, ma allo stesso tempo di insistere sull’integrazione nei paesi ospiti, sul cosmopolitismo di questi italiani e sulla capacità di fare rete e sistema con l’Italia.

Siamo convinti – e le iniziative fatte dal PD in tutto il mondo sul 150° insieme alla giornata di oggi lo ribadiscono – che solo il centrosinistra e il Partito Democratico abbiano le radici democratiche e il retroterra culturale per affrontare seriamente e a tutti i livelli le questioni che riguardano l’emigrazione.

Solo noi possiamo farle entrare nell’agenda e nel dibattito politico e parlamentare italiano senza retorica, senza indulgere a richiami demagogici, recriminatori o caritatevoli, ma proponendo politiche riformiste moderne e adeguate a un mondo in continua evoluzione e a un’Italia che vuole competere a livello globale da protagonista.

Il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, che nella sua veste di supremo garante dell’unità nazionale e della Costituzione non di rado ha citato i temi che oggi sono al centro delle nostre riflessioni, in un suo recente discorso al Quirinale ha detto:

“I connazionali residenti all’estero costituiscono per l’Italia un patrimonio prezioso: contribuiscono al buon nome del nostro Paese, distinguendosi nel campo della cultura, dell’imprenditoria, della scienza e della politica;
creano una rete di relazioni che fornisce, ovunque nel mondo, un grande sostegno all’azione internazionale dell’Italia e contribuisce allo sviluppo dei Paesi di accoglienza.

Le nostre collettività all’estero conoscono bene, per averle affrontate con successo, le difficoltà insite nella ricerca di un equilibrio fra una sempre più efficace integrazione nelle realtà locali e il mantenimento non retorico di legami affettivi, culturali e sociali con la madrepatria.

Si tratta di una delle sfide più importanti ed attuali delle nostre società, non solo di quella italiana, nelle quali la gestione dei fenomeni migratori richiede una forte presa di coscienza e un’assunzione di responsabilità delle Istituzioni rappresentative”.

Chi studia, lavora e si appassiona a questi temi sa quanto siano vere quelle parole e quanto sia importante, oggi, che esse non rimangano tali, ma si trasformino in riflessione culturale approfondita, in elaborazione politica e azione di governo del Paese, come fino a oggi non è stato.

In questi ultimi tre anni, nonostante la presenza in Parlamento dei rappresentanti delle nostre comunità, si è perseguita una strategia di “sfilacciamento” tra Italia e italiani nel mondo.
Di sistematica riduzione degli investimenti e di smantellamento di strutture, poteri e rappresentanze degli italiani all’estero.

E l’aspetto più pericoloso di tutto ciò sta nell’intreccio perverso che si è generato tra tagli lineari e pesanti a tutti i capitoli di spesa che riguardano la proiezione dell’Italia all’estero e le sue comunità;
il ridimensionamento irrazionale della rete consolare;
e il depotenziamento della rappresentanza intermedia e soprattutto di base, che cancella la sussidiarietà all’estero.

Un intreccio, dunque, che soffoca una lunga vicenda storica e cancella positive e feconde esperienze maturate nel vivo della nostra vicenda emigratoria in diversi decenni.

Ricorro, ancora una volta alle parole del Presidente Napolitano che ha ricordato come “le Istituzioni della Repubblica ritengano essenziale il ruolo svolto dagli Istituti rappresentativi che consentono ai nostri connazionali di mantenere vivo il rapporto con la madrepatria e di far sentire adeguatamente la propria voce”.

Per questo, il Partito Democratico vuole configurarsi come punto di raccordo di uno schieramento più ampio di forze politiche, sociali, culturali, dell’associazionismo, dell’imprenditoria, che siano in grado di difendere e riformare, accrescendola, l’articolazione democratica e i poteri di tutte le rappresentanze italiane all’estero a cui il Presidente Napolitano faceva riferimento.

Per questo il Partito Democratico sente la responsabilità di alzare il livello di attenzione politica verso le nostre comunità nel mondo e la loro capacità di fare “sistema” con l’Italia in un contesto globale che non può più prescindere dalla dimensione sovranazionale e dai rapporti e relazioni internazionali.

Per questo il Partito Democratico si fa carico della responsabilità di portare anche in Parlamento le istanze più impellenti delle nostre comunità.

Comunità che sono un pezzo vivo, importante e dinamico dell’Italia, anche se geograficamente collocate fuori dal territorio nazionale e caratterizzate da generazioni ed esigenze diverse.

Ma che contribuiscono comunque – e in alcuni casi più di quanto non avvenga dentro il territorio nazionale – a tenere insieme la Nazione.

Per questo, già dal 2003, come centrosinistra abbiamo voluto e tenuto in tutto il mondo le giornate “W l’Italia”, ripetute poi con grande successo nel 2005.
Per ribadire che l’Italia è unita e intera non solo da Trieste a Palermo, ma anche in ogni parte del mondo ove risieda una comunità nazionale di italiani che si senta tale.

Si chiedeva Gianni Cuperlo su l’Unità, in un bell’articolo del maggio 2010 proprio sul PD e il 150°: “Che cosa tiene insieme una nazione?”.

E spiegava poi che a tenere insieme una nazione è “lo Stato, certo, nel senso delle sue istituzioni.
E poi la cultura. E uno spirito di comunità, sentirsi parte di uno stesso destino.
Tre elementi – istituzioni, cultura, comunità – impossibili da sciogliere”.

Sono esattamente questi tre elementi – istituzioni, cultura, comunità, insieme al lavoro – che hanno caratterizzato da sempre le battaglie, le rivendicazioni e l’identità degli italiani nel mondo, tutti parte di un medesimo destino.

Per decenni i nostri emigrati hanno condotto battaglie per avere proprie istituzioni di rappresentanza delle comunità, quelle di base e intermedie di cui parlava il Presidente Napolitano: Comites e CGIE.
E successivamente quella parlamentare.

Da sempre condividono un sentimento identitario forte, fatto di antiche radici culturali che affondano nei fasti dall’antica Roma e, passando per il Rinascimento, il Risorgimento e la Resistenza, arrivano fino a oggi: alla moda, ai prodotti alimentari, allo sport, all’arte, alla musica.

E ancora, il sentimento reale e profondo di comunità che ha albergato nell’animo degli italiani nel mondo li ha portati a sentirsi sempre parte di un qualcosa più grande di loro, del singolo individuo e della singola storia personale.
Un sentimento che ha fatto sì che nascessero in tutto il mondo associazioni di mutuo soccorso, associazioni religiose, regionali, sportive, culturali, politiche.

Ma tutte vissute come parte di una grande comunità nazionale italiana.
La stessa che ci ha lasciato in tutte le grandi città del mondo – dagli USA all’Europa, dall’America Latina all’Australia, all’Africa – un patrimonio culturale, umano e immobiliare fatto di tante “Casa Italia”, di moltissimi centri culturali e sportivi, di una miriade di sedi di associazioni.

Soprattutto oggi, davvero non avrebbe senso pensare che l’Italia finisca alle Alpi o a Lampedusa, ma dobbiamo sapere che continua ovunque vi siano italiani o comunità organizzate.

E noi, come Partito Democratico, dobbiamo e vogliamo lavorare per tenere unita l’Italia e l’Italia con gli italiani all’estero, per tutto ciò che essi sono, rappresentano e possono fare per il nostro Paese.

Agli autorevoli relatori che prenderanno la parola dopo di me chiediamo di aiutarci a capire più in profondità cosa siano stati gli italiani all’estero e cosa sono oggi, cosa possono ancora fare per la madrepatria.

Per questo abbiamo intitolato questo nostro seminario “Una grande Italia oltre l’Italia”.

Oggi il nostro Paese ha una comunità all’estero fatta di oltre 4 milioni di cittadini con passaporto.
Ad essi vanno sommati più di 60 milioni “di italiani di origine” legati a noi dalla memoria e dal richiamo culturale.

Questi italiani, smentendo gli stereotipi e i luoghi comuni con cui giocava la genialità di Totò nel filmato che abbiamo visto in apertura ), occupano “un ruolo di grande rilievo e di grande successo nel promuovere i valori e le qualità che vengono associate con l’Italia” (per abusare ancora delle parole del Presidente Napolitano).

Contribuiscono alla diffusione della lingua e cultura italiana, di tutti i settori del made in Italy, del ritorno turistico.

Ma c’è anche dell’altro: pur rappresentando l’Italia e l’italianità nel mondo (nel bene e nel male), le nostre comunità all’estero hanno saputo anche superare, grazie al confronto con realtà e culture diverse, logiche, categorie ereditate dal passato e che rischiano di essere oggi steccati.
Insomma quel tratto a volte un po’ provinciale che caratterizza per certi versi parte della società e della politica italiane.

Così può capitare, come è successo a me, di partecipare a un’assemblea di partito negli USA, in una domenica mattina, e ascoltare il lucido e appassionato intervento di un iscritto al PD, per scoprire, al momento dei saluti, che si trattava del parroco che lasciati noi dopo il nostro incontro, sarebbe andato a celebrare messa.

Il paradosso di questi tempi, dunque, sta nel dover ribadire il valore della nostra storia emigratoria.
Infatti, mentre in paesi democraticamente avanzati ed economicamente forti, si guarda all’Italia come modello per l’articolazione della rappresentanza a vari livelli per coinvolgere gli italiani all’estero e si cerca di imitarla e riprodurla, in Italia si cerca di smantellare questo sistema che va dalle rappresentanze di base a quella parlamentare.

Lo si vive come una fastidiosa e pericolosa anomalia.
Si depotenzia ogni struttura delle comunità, si tagliano le risorse, nei fatti si mette in discussione la potenzialità che queste comunità rappresentano pur glorificandole nelle parole.

Dunque oggi abbiamo paesi come il Portogallo, la Spagna, la Francia, la Germania, la Svizzera, il Messico, che guardano ai propri concittadini all’estero come a una grande risorsa sulla quale investire e al modello articolato di rappresentanza italiana all’estero come strumento per sfruttare questa risorsa investendovi.
Allo stesso tempo in Italia vi è chi vuole azzerare i rapporti con le nostre comunità all’estero, taglia pesantemente gli investimenti e mira a depotenziare (quando non ad abolire del tutto) le rappresentanze.

Una politica miope e pericolosa che il Partito Democratico contrasta con forza.
Anche perché oggi il nostro Paese, diventato terra di immigrazione, non ha cessato di essere terra di emigrazione.
E dobbiamo ribadirlo con forza: siamo ancora un Paese di emigranti.

Si legga al proposito il Rapporto Italiani nel mondo, della fondazione Migrantes. Quanto di più accurato e rigoroso sullo studio del fenomeno migratorio.

Oppure il bel libro Ma il cielo è sempre più su, di Giuseppe Provenzano e Luca Bianchi, nel quale si riporta, cifre alla mano, non solo la ripresa dell’emigrazione verso il Nord del Paese e l’estero, quanto la distanza che si è accentuata tra Nord e Sud del Paese e il fatto che nel Sud sia ormai morta tra i giovani anche la speranza di cambiare le cose.

Per cui l’unico orizzonte di speranza, l’unico cielo terso a cui volgere lo sguardo si sposta sempre più su, a Nord o all’estero.

Spesso, l’unica alternativa che resta è la moderna povertà, la mafia o l’arruolarsi in polizia, come cantava già nel 1971 Vittorio Franceschi nella ballata Chi non emigra spara, quando diceva “Nel sud, paese caldo/ chi non emigra, spara!/ e chi non spara/ ascolta nel silenzio/ il ronzio della sua rabbia impotente”.
Dopo 40 anni è cambiato davvero troppo poco.
Per capirci: i miei nonni emigrarono in Svizzera per campare e far studiare il figlio.
Alcuni miei compagni di giochi e di scuola, sono oggi emigrati in Germania per trovare un qualsiasi lavoro o nel centro e Nord Italia per studiare.

Ed è anche per questo che oggi vogliamo fare un viaggio lungo 150 anni.
Per capire meglio ciò che siamo oggi e dove affondano le radici dei nostri mali storici a partire da una mai risolta Questione meridionale che si tinge oggi di inediti risvolti e che reclama di essere colta finalmente come questione nazionale.

Un dualismo che fa il Paese mutilo di risorse, energie, capacità in ogni campo (lavorativo, imprenditoriale, intellettuale).

Certo, non si può tacere del peso che le mafie hanno nell’alimentare il fiume delle nuove partenze e, viceversa, di come la lotta alla criminalità organizzata – vera grande sfida che sta di fronte allo Stato italiano e alle nuove classi dirigenti del Meridione – sia il più efficace freno all’emigrazione e allo sfruttamento dell’immigrazione clandestina, quindi la risposta anche a un problema di carattere economico, culturale e civile.

Sono, questi, anni in cui in Italia si parla spesso, e male, di immigrazione. Come se la portata di un fenomeno che cambierà per sempre il volto di questo Paese possa costringersi nei termini di un problema di ordine pubblico, di sicurezza.

Vedo Livia Turco, che ringrazio per essere qui oggi nonostante la fitta agenda elettorale, e che quotidianamente, insieme a Marco Pacciotti e al Forum immigrazione, lavora per contrastare questo ennesimo inganno, che ancora una volta rischia di farci perdere un’occasione importante di crescita e di modernità.

Bisogna riconoscere che chi oggi attizza paure, rancori ed egoismi, allo stesso momento compie ancora una volta una grande rimozione collettiva della nuova ondata di emigrazione fatta di giovani studenti, ricercatori, imprenditori, che lasciano il Paese.

Eppure, anche questi nuovi italiani nel mondo, mantengono un grande interesse per il proprio Paese, desiderano mantenere un rapporto organico e circolare con l’Italia.
Desiderano non essere dimenticati o dati per persi.

Sono quegli italiani all’estero che, al contrario delle prime generazioni, si caratterizzano per l’alta mobilità, che non esclude anche un ipotetico e futuro rientro in patria che gli consenta di far maturare conoscenze ed esperienze acquisite all’estero.

Anche queste giovani generazioni, insieme ai figli degli italiani nati e cresciuti all’estero e che nell’era della globalizzazione vanno alla ricerca delle proprie radici, in un mondo sempre più piccolo, in una dimensione politica sempre più sovranazionale, in un pianeta sempre più interconnesso, sono la vera e più preziosa risorsa multiculturale e cosmopolita dell’Italia.

Sono, per il nostro Paese, un importante plusvalore culturale, sociale ed economico.

Un patrimonio comune, dunque, a cui la politica e la nazione non possono rinunciare se non a caro prezzo.
Un capitale umano su cui investire con politiche in grado di attrarre le eccellenze italiane già andate all’estero o quelle straniere che potrebbero essere interessate a investire in Italia.
E in questo senso la Legge promossa da Enrico Letta recentemente approvata dal Parlamento sul controesodo e il ritorno dei talenti è un primo e importante passo in questa direzione, ma che va sviluppata e coltivata.
Cosa tra l’altro a cui si sta già lavorando anche con convergenze bipartisan, va riconosciuto.

Ma c’è un lavoro profondo, quotidiano da fare. È quello teso a rafforzare nelle nostre comunità quella fiducia nell’Italia e nella sua classe politica che negli ultimi anni è stata minata profondamente.
Alimentando ancora quel sentimento di comunità che ho provato a richiamare e che ha consentito alle prime generazioni di portare avanti battaglie unitarie di integrazione, riconoscimento di diritti, legittimità politica e di rappresentanza.

Quel sentimento di comunità che, insieme a un forte spirito solidaristico ha saputo sottrarsi alla tentazione di rinchiudersi in se stesso pretendendo e coltivando integrazione, riconoscimento e affermazione.
All’inizio del XX secolo Amedeo Giannini fondò a San Francisco la Bank of Italy per consentire agli emigrati italiani negli USA di spedire i risparmi ai propri familiari in Italia a costi bassissimi, alimentando così l’economia italiana.

Successivamente Giannini elaborò un sistema di prestiti sulla parola ai più poveri – italiani e non – colpiti dal terribile terremoto di San Francisco del 1906.

Un sistema fiduciario e solidaristico che portò anche coloro che non avevano mai affidato i propri risparmi alla banca a fidarsi di lui – e solo di lui – per i propri investimenti dopo la ricostruzione.

Forse in pochi sanno che quella Banca oggi si chiama Bank of America, nata come banca degli ultimi e divenuta banca di tutti, oltre che la più grande banca del mondo.
Nata dall’idea di un italiano e dal suo sentirsi italiano.

Questo è solo uno dei tanti esempi di cosa l’emigrazione italiana ha prodotto per l’Italia e per i paesi che hanno saputo accogliere e integrare i nostri connazionali.

E ancora, un esempio di cosa possono rappresentare per l’Italia gli immigrati che oggi noi respingiamo come fossero una minaccia e non riusciremo ad accogliere davvero e a integrare fino a che guardandoli, non riconosceremo noi stessi, i nostri nonni, i nostri padri.
Grazie e buon lavoro.

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