Scambi di strategia e orgoglio italiano

Con la pubblicazione del suo certificato di nascita, dopo le insinuazioni di Donald Trump (che però reagisce rilanciando la sfida su un altro terreno: “Adesso il presidente dica tutta la verità anche sui suoi studi”) ed il cambio del repubblicano Bob Gates, sostituito con Leon Panetta, democratico Doc, attuale capo della Cia e molto vicino al presidente; Obama ha dato l’avvio alle grandi manovre elettorali, ponendo poi, al posto che fu di Panetta, il generale Patreus, segno, per alcuni, di un cambio di strategia per la Libia ed il Medio-Oriente e di accelerazione per le manovre di disimpegno in Afganistan. Con questi cambiamenti, ufficialmente presentati stamani dallo stesso Obama, di fatto si assiste ad un rimpasto nel team della sicurezza nazionale USA, scambiando i vertici di forze armate e intelligence, in maniera tale da lasciar trapelare la scelta di rafforzare il ruolo della Cia nella conduzione delle operazioni contro il terrorismo. La Casa Bianca spiega le decisioni del presidente come la conferma dell’esistenza di “un forte team integrato” fra militari e intelligence, al quale sin dal 2009 ci si è affidati per condurre con maggiore efficacia le attività per “proteggere la nazione”. Un “team integrato” il cui rimpasto è reso necessario dalla coincidenza fra la scelta di Gates di lasciare l’incarico – che ricevette nell’autunno del 2006 da George W. Bush – e l’imminente scadenza dell’incarico di Petraeus alla guida delle operazioni in Afghanistan. Una cosa è certa: affidare al generale più popolare d’America, quale è Petraeus, le redini della Cia significa potenziare proprio la capacità di usare satelliti, droni e 007, per braccare ovunque i nemici dell’America. Panetta e Petraeus negli ultimi due anni hanno lavorato spalla a spalla sullo scacchiere afghano-pachistano, coordinando l’offensiva dei droni in Pakistan con i movimenti delle truppe sul terreno afghano e ora questo schema sembra aver convinto Obama, al punto da assegnare loro la guida dell’intero assetto militare e di intelligence. Vi è anche una vicenda per così dire meno esposta ma non meno importante sullo sfondo. Come sottolinea Maurizio Molinari, inviato de La Stampa a New York, si rafforzano in questo momento le guerre segrete condotte al riparo dei riflettori e dagli ambienti militari filtrano delle perplessità a causa del profilo del successore di Petraeus: il generale John Allen, attuale vicecapo del Comando Centrale a Tampa, che però non ha mai servito in Afghanistan, così come il possibile successore del capo degli Stati Maggiori congiunti, Mike Mullen, che sostuirebbe Eikenberry, mai entrato in sintonia con il presidente afghano Hamid Karzai, con Crocker (già in Iraq ai tempi del surge), considerato fra gli ambasciatori più esperti di Islam. E che Obama sia in fase di lancio elettorale, lo dimostra anche il fatto che, dopo molti anni, abbia voluto, come presidente, assistere al penultimo lancio di uno Shuttle, previsto per domani alle 3,47 ora della Florida, portando con se la famiglia e la deputata democratica Gabrielle Giffords, che lo scorso gennaio durante un'iniziativa elettorale a Tucson, Arizona, venne colpita alla testa dalla pistola di un pazzo, che uccise altre sei persone. L'ultima volta che un presidente aveva assistito a un lancio era stato nel 1998, con Bill Clinton, venuto a guardare il secondo volo in orbita di John Glenn. Il fatto che Obama ci sarà, è un segno importante per il programma spaziale, profondamente trasformato dal 2009 a oggi e dai contorni ancora imprecisi, anche se già si comincia a capire che lo spazio “commerciale” non è una barzelletta per estorcere soldi, ma razzi che volano e navicelle in grado di ammarare. Ma altrettanto importante è il fatto che il viaggio era programmato nell'ambito del tour con cui sta raccogliendo i quattrini per la rielezione e che Obama è qui per riabbracciare la donna vissuta due volte: la deputata democratica Gabrielle Giffords, colpita a morte a Tucson in un pomeriggio di gennaio e adesso miracolosamente arrivata qui in Florida per assistere all'ultimo lancio del marito astronauta Mark Kelly. È la storia nella storia. La favola nella favola. Lo sa benissimo anche il nostro Roberto Vittori. Il superman di Viterbo, 46 anni, due laureee e già due volte sulla Stazione internazionale, che è atterrato al Kennedy col comandante e gli altri magnifici quattro martedì pomeriggio e adesso è nella quarantena prelancio. Mark e Roberto sono amici veri e la coppia americana aveva approfittato proprio delle vacanze di Natale per quel bagno d'Italia tanto desiderato. Al di la di tutto il volo dell’Endeavour è motivo di orgaglio (cosa rara di questi tempi), per noi italiani e non solo per la presenza di Vittori. L'Agenzia spaziale italiana corona l'impegno nella Stazione in cui l'Endeavour attraccherà e il progetto Ams – Alpha Magnetic Spectrometer – è stato concepito dall'Istituto nazionale di fisica nucleare, anche se porta ora la firma di 26 paesi divisi per tre continenti. Naturalmente non mancano, neanche nel Bel Paese, i criticoni i quali sostengono che un miliardo e mezzo per realizzare il supercacciatore di particelle elementari sono troppi, che la missione sarebbe un'incognita e che probabilmente non riuscirà davvero a trovare le tracce dell'antimateria. Ma ricordiamo che nella cifra spesa ci sono gli stipendi di 15 anni di lavoro di 600 persone in tutto il mondo e la premessa a grandi, rivoluzionarie scoperte. Sta di fatto che, grazie agli italiani, il penultimo volo NASA (l’ultimo è previsto, tranne proroghe del governo, il 28 giugno), potrà forse riscrivere i misteri del Big Bang. Certo è più facile gioire per questo che per il sì di Berlusconi ai bombardamenti libici, anche se ci rendiamo conto (con Napolitano), che l'Italia non poteva respingere le pressioni degli Stati Uniti che, affidata la missione agli europei, hanno chiesto un maggiore coinvolgimento militare del nostro Paese e che un “no” a Obama, avrebbe compromesso maggiormente le nostre alleanze internazionali, il nostro ruolo nella Nato e la tutela degli interessi nazionali nella prospettiva del dopo Gheddafi. Anche se Vendola (con Lega ed IDV), si dice contrario, poiché “i fondamentalisti troveranno vigore per la loro campagna anti-occidentali”, crediamo che la nostra fosse una scelta obbligata, anche se, forse, non propriamente saggia e che, come ha detto Formigoni, stride anche con l'invito rivolto dal Papa a cercare una soluzione diversa da quella militare. Il quotidiano cattolico Avvenire, infatti, lamenta che “gli spazi per una soluzione diplomatica sono stati esplorati con scarsa convinzione”, commentando con preoccupazione la decisione dell'Italia “di partecipare attivamente ai raid mirati contro le forze armate di Gheddafi che prendono di mira i civili in rivolta”. Il giornale della Cei ricorda che “non per caso sinora, il nostro ruolo di ex potenza coloniale e un trattato di non aggressione con Tripoli avevano prudentemente indotto a una partecipazione limitata”. E sottolinea “le pressioni degli alleati, bisognosi di altri mezzi operativi per fiaccare le resistenze del “nemico” e il quadro politico internazionale (non escluse le tensioni con Parigi sull'emigrazione) che hanno invece convinto a fare un passo deciso, 'naturale', per usare l'espressione del presidente Napolitano, sulla via del pieno coinvolgimento nelle azioni belliche, superando quella che poteva essere considerata una posizione ambigua”. Cosi', osserva l'editorale a firma di Andrea Lavazza, “tra molte esitazioni e non pochi dissensi, anche nella stessa maggioranza, ci avviamo dunque a una campagna il cui sbocco non s'intravede chiaramente”. Per la Cei, insomma, come anche per il leader del Sel, gli spettri di un pantano bellico in riva al Mediterraneo, della divisione della Libia, di un esodo verso l'Europa, di una stretta sull'energia, aleggiano sempre più minacciosi ed occorre, non solo pensare a raid aerei, ma elaborare strategie responsabili per una adeguata risposta di accoglienza verso coloro che da quel fronte fuggono, poiché “ogni chiusura a profughi e migranti sarebbe ora tanto più oltraggiosa e incoerente”.

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