Carlo Giovanardi: "Non è tutta colpa della politica"

di Francesca Buffo

Un po' tutto, oggi, è mosso dall'arte dell'apparire o proviene dalla 'nicchia' delle cosiddette 'strategie di marketing'. E la comunicazione, in questa fase storica, sembra ormai rappresentare il vero potere. Ciò lo vediamo in tutta una serie di rubriche all'interno delle riviste: vestirsi in modo avvincente, parlare in modo condizionante, sapersi porre. Persino le persone diventano un prodotto da 'piazzare' sul mercato per essere acquistate o acquistabili. La cosa ha aperto in noi tutta una serie di domande: di recente, infatti, il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, ha lanciato la notizia di un cambiamento di logo e di nome del proprio Partito, che dovrebbe esser rinominato: 'Italia'. Ma cosa vuol dire cambiare un nome che rappresenta tutta un'area politica cercando addirittura di dare una connotazione geofisica al nuovo movimento? Per parlare di questo tipo di problemi, cioè della comunicazione politica di oggi, abbiamo incontrato l'onorevole Carlo Giovanardi, attuale sottosegretario di Stato alla presidenza del Consiglio dei Ministri.

Onorevole Giovanardi, siamo giunti alla morte della politica e all'era del dominio totale della comunicazione?
“Diciamo che la comunicazione mai nella Storia ha avuto un'influenza così grande sulla politica e sull'orientamento dei fatti che riguardano la politica”.

E questo, secondo lei, a cosa è dovuto? Alla vittoria dell'immagine? Della 'forma' più che della 'sostanza'?
“Beh, intanto da una diffusione enorme, verso l'opinione pubblica, delle notizie, cioè dalla capacità dell'informazione di orientare l'opinione pubblica attraverso l'emozione, denotando tuttavia una certa difficoltà ad approfondire gli argomenti che, nella velocità di circolazione della comunicazione odierna, durano 24 ore e già il giorno dopo non esistono più. Per esempio, posso raccontarvi quel che regolarmente succede nei giorni in cui viene approvata dal Consiglio dei ministri la legge Finanziaria. Ho vissuto quest'esperienza sia quando ero in maggioranza, sia quando ero all'opposizione. Ebbene, si tratta di una legge di bilancio composta da migliaia e migliaia di pagine. Il Consiglio dei ministri in genere l'approva al mattino e subito tutti i giornali italiani e tutte le televisioni chiedono un parere in tempo reale a ministri e ai vari leader dell'opposizione. Ma quasi tutti coloro che forniscono questo parere non hanno nemmeno letto la norma, perché è umanamente impossibile. Bisognerebbe, invece, che qualcuno si mettesse lì tre o quattro giorni e si leggesse tutto, per esser pronto a dare delle risposte approfondendo veramente le questioni di cui si parla. Ma anche se ciò accadesse, i giornali e le televisioni direbbero: “Ma scusi: questa è una notizia di 4 giorni fa, non esiste più…”. In sostanza, di un tema qualsiasi o ne parli nel pomeriggio stesso, oppure già il giorno dopo l'informazione ha cambiato indirizzo. Insomma, si è creata un'affannosa rincorsa alla notizia immediata, tutti i giorni. Se osserviamo la televisione e i telegiornali, notiamo sempre più spesso che commentano una notizia che, però, già il giorno dopo non è più considerata tale. E questo è un problema dell'informazione assai grave, perché le notizie influenzano il dibattito politico in maniera decisiva, molte volte anche in forme distorte. Siamo di fronte a un problema serio, perché ormai conta di più un grande giornalista o un buon conduttore di un ministro, perché un membro di Governo o un esponente politico qualsiasi fa molta più fatica a veicolare le proprie idee di quanto non faccia uno di quei conduttori in grado di incidere, con la sua presenza, sull'opinione pubblica”.

Può darci un parere in merito alla vicenda del cambio di nome del Partito del presidente Berlusconi? La scelta del nome 'Italia' ha fatto un po' discutere, nei vari ambienti politici, ma anche in quelli dell'informazione e della comunicazione: per quale motivo è sorto il problema di cambiare nome al Pdl?
“Intanto, si tratta ancora solo di ipotesi, perché nell'ufficio di presidenza del Pdl, di cui faccio parte, non ne abbiamo ancora parlato. Credo, comunque, che il problema si sia posto soprattutto dal punto di vista giuridico con l'uscita di Fini e dei 'finiani'. Fini, cioè, era 'cofondatore' del Pdl insieme a Berlusconi. Il nome del Partito è stato depositato, quindi, difficilmente può essere utilizzato solo da una parte e può darsi che sia sorto un problema giuridico di cambiamento del nome per una questione di comproprietà. Tuttavia, la discussione sul modo in cui modificarlo credo sia ancora tutta da cominciare”.

Perché nei primi giorni è emersa la notizia del lancio del nome 'I popolari', che sembrava fare chiarezza da un certo punto di vista, richiamandosi a una concezione culturale ben precisa? Sembrava una buona idea, un voler tornare a una politica delle identità, ma poi è arrivata questa nuova notizia del più generico 'Italia', un nome piuttosto geofisico: come mai?
“Attenzione, l'ipotesi de 'i Popolari' è stata preclusa dal fatto che noi facciamo parte, come Pdl, del Partito popolare europeo. Ma anche altre forze appartengono al Ppe, non soltanto il Pdl. C'è infatti una “storia del Partito popolare europeo” rivendicata anche da esponenti che vengono da altri Partiti, per esempio quelli che oggi sono del Partito democratico provenienti dalla Democrazia Cristiana. Quindi, la scelta del nome 'I popolari' potrebbe incontrare impugnazioni che trasformerebbero una questione politica in un problema giudiziario, con tutte le conseguenze e le polemiche che potrebbero nascere sull'utilizzo di questo nome. Se si dovesse cambiare nome, bisognerebbe esser sicuri di sceglierne uno sul quale, poi, non si accendano dispute giuridiche, che è la cosa peggiore per gli elettori”.

Però il nome 'Italia' o 'Partito dell'Italia' sembra un po' troppo generico, in un certo senso sembra voler includere forzatamente un po' tutti…
“Beh, ma Forza Italia l'aveva già fatto, perché quando ai tempi fu scelto quel nome, lo slogan veniva già usato in maniera incontestabile. E' un po' come se, oggi, chiamassimo il Partito 'Grande Italia': si tratta di forme che, proprio perché generiche, si possono assolutamente utilizzare”.

Riguardo al dibattito politico a cui assistiamo in televisione, questo fatto che non ci sia mai un confronto che lasci spazio prima all'esposizione dei fatti da parte di un esponente a cui poi un secondo può rispondere nei suoi minuti, sta portando a un continuo gioco di sovrapposizioni: non sarebbe più semplice parlare in modi più pacati, dando così anche l'idea di esser molto più sicuri di quel che si dice?
“Sono d'accordo, ma faccio due osservazioni: la prima è che, intanto, bisognerebbe incominciare dall'inizio, dare cioè la facoltà, com'era una volta, alle forze politiche di essere loro a designare la persona che va a sostenere determinate tesi, cioè l'esperto nella materia oggetto di una trasmissione, mentre oggi i 'famosi conduttori' invitano chi gli pare a loro. Il conduttore oggi può benissimo invitare una persona esperta, capace, preparata su una questione politica, ma anche scegliere uno sprovveduto. Purtroppo, oggi è lui che decide. E in questo modo può far fare bella figura a uno e brutta a un'altro. Poi c'è un'altra cosa che contesto e non capisco: quando ci sono discussioni su questioni 'discrezionali', ognuno può dire la propria opinione, ma se uno dei due interlocutori, davanti al giornalista, afferma che l'Everest è alto 8 mila metri e 'rotti' mentre l'altro dice che è alto solamente 2 mila metri, il giornalista dovrebbe prendersi la responsabilità di chiarire: “No, l'Everest è alto 8 mila e 'rotti' metri. Quindi, ha ragione chi dice questo e ha torto chi dice quest'altro”. Poi, uno può discutere se 8 mila è abbastanza alto o meno. Invece, mi accorgo che quando si va a partecipare a questi dibattiti e uno dei politici fa un'affermazione precisa con l'altro che la contesta, il conduttore non prende mai una parte, mentre dovrebbe fare da notaio e dovrebbe dire: “Adesso verifichiamo dati e notizie”. Oggi, con l'informatica, ci vuole un secondo: chi dei due ha espresso un dato preciso? E chi quello sbagliato? Altrimenti, veramente si rischia sempre la 'rissa', perché qualunque cosa uno dei due interlocutori dica viene presa per buona. Ma se siamo alle 3 di notte e durante un dibattito io dico: “E' buio”, mentre il mio interlocutore afferma: “No! E' giorno e c'è il sole”, il giornalista non può affermare: “Hanno ragione tutti e due”, oppure “queste sono le due versioni”, bensì dovrebbe prendersi la responsabilità di chiarire affermando: “No, effettivamente adesso sono le 3 di notte…”.

Dunque, uno dei problemi è una sorta di appiattimento generale: ci sono troppi 'pressappochisti', a partire dai conduttori, che cercano la rissa per poter fare notizia?
“Faccio un esempio che, proprio adesso, è di attualità, poiché si tratta di una polemica in corso che potete trovare tranquillamente sui giornali. Io sono presidente della commissione per le adozioni internazionale e quest'anno abbiamo adottati, in Italia, più di 4 mila bambini da tutto il mondo. Si tratta di un record, perché mai era stato superato il numero di 4 mila adozioni e siamo diventati, dopo gli Stati Uniti, uno degli Stati leader del mondo in questo campo. Ed ecco che qualcuno afferma subito che 4100 bambini adottati è poco: si può fare di più. Lo ha scritto, per esempio, proprio l'altro giorno, 'Famiglia Cristiana', quando ha trattato l'argomento delle adozioni internazionali: “In Italia, le adozioni internazionali quest'anno sono in calo, in diminuzione”. Non è ammissibile dare una notizia del genere, perché il vero dato è che le adozioni sono in aumento. Si può discutere, naturalmente, se questo aumento è poco, se è basso, oppure se si può far meglio. Ma la notizia non può essere che il numero delle adozioni è diminuito, perché questo significa fornire un'informazione falsa…”.

Quindi, secondo lei, l'appiattimento qualitativo non è solo nell'ambiente politico o dei politici, bensì è generale, perché non abbiamo conduttori o giornalisti preparati a dire: “No, io questa cosa in pagina non la metto”?
“Voi siete giornalisti e potete accorgervi che non sempre la verifica delle fonti avviene in maniera accurata”.

Se una forza politica può scegliersi i propri rappresentanti da inviare a un dibattito non c'è il rischio di un monopolio della comunicazione anche da parte del Partito, che poi, alla fine, manda sempre gli stessi?
“Ma scusate: io posso forse scegliere il conduttore di una trasmissione? Io faccio parte del Governo e di una forza politica. Se dicessi: “Voglio decidere io se andare da Vespa o da Santoro”, oppure “voglio scegliere io chi fa il conduttore”, giustamente dalla Rai o da Mediaset mi risponderebbero: “Ognuno faccia il suo mestiere: il conduttore lo scegliamo noi”. E però non si capisce perché se io devo mandare qualcuno a rappresentare il Governo o il Pdl non possa essere il Pdl o il Governo a poter mandare chi rappresenta le sue idee, ma sia il conduttore a doverlo scegliere: c'è un evidente squilibrio…”.

Come giornalisti noi spesso chiamiamo dei politici a intervenire e cerchiamo la coerenza che ci consiglia lei. Ma non dovrebbe essere anche il politico interpellato a dire: “Io su questo argomento non posso dire la mia perché sarebbe un'opinione personale e non quella rappresentata dal Partito? Forse non c'è in questo anche la denuncia di una ricerca eccessiva di visibilità mediatica?
“Assolutamente sì, perché in teoria chi viene chiamato e sa di non essere a conoscenza dell'argomento, sa di essere inadeguato, dovrebbe declinare l'invito. Ma umanamente ciò non avviene, perché il sistema dei media e dell'apparire a tutti i costi, che oggi risulta fondamentale, provoca il fatto che chi viene chiamato, anche se magari sa in coscienza di non essere in grado di affrontare un argomento, ben volentieri vuol partecipare lo stesso a una trasmissione. Inoltre, come voi ben sapete, nel giornalismo radiofonico o in quello del giornale cartaceo inevitabilmente necessitano di grande attenzione e concentrazione, perché chi legge deve capire cosa legge o, per radio, cosa ascolta. Mi è capitato spessissimo di persone che mi dicevano: “Ho letto quello che hai scritto l'altro giorno sul giornale”, oppure “ti ho sentito alla radio che dicevi questo”. Ma tante altre volte, almeno 8 volte su 10, la gente mi dice anche: “Ti ho visto in televisione” e quando a tua volta domandi: “Ma cosa dicevo?”, la risposta che si ottiene è sconcertante: “Ti ho visto mentre parlavi”. Insomma, la televisione è un meccanismo che fornisce grande popolarità, ma ti dà notorietà a prescindere da quello che si dice. Del resto, quando i vostri colleghi, quelli che vengono chiamati 'mezzibusti', si sono presentati al parlamento europeo o in altre consultazioni hanno preso una marea di voti proprio perché erano conosciutissimi.

Il giornalismo dà un notevole ritorno d'immagine, insomma?
“Certamente, soprattutto quando uno, per 10-15 anni, è tutte le sere in televisione. Questo fenomeno si ripete regolarmente. Pensate a Lilly Gruber: è una bravissima giornalista, ma la Gruber si è presa anche centinaia di migliaia di voti quando si candidò. Sarà anche bravissima, ma uno altrettanto bravo, che tuttavia in televisione non ci è mai andato e, per questo motivo, nessuno l'ha mai visto, fa molta più fatica a prendere centinaia di migliaia di voti di preferenza”. (Laici.it)

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