Il tribunale di Genova ha dato ragione a 15 insegnanti precari che, avendo superato i tre anni di precariato continuativo, volevano essere trattati come tutti i lavoratori precari nelle stesse condizioni in Europa. Volevano cioè essere assunti definitivamente. I 15, ha stabilito il giudice, devono ricevere 15.000 euro ciascuno e devono tornare a lavorare. Il ministero dell’Istruzione ha immediatamente annunciato ricorso in appello, ma questa sentenza ha aperto la strada a tutti i precari della scuola che si trovano nelle stesse condizioni la cui cifra supera le 100.000 unità (160.000 secondo le stime della Uil, anche se non tutti nelle stesse condizioni).
Non è la prima volta che la Gelmini viene bocciata sulle sue leggi. E’ appena di qualche mese fa la sentenza della Consulta che sblocca le richieste di trasferimenti extraregionali (la Gelmini aveva previsto, su suggerimento della Lega, che chi chiedeva un trasferimento in un’altra regione perdeva il punteggio acquisito).
Basterebbero solo queste due sentenze, che toccano i cardini della riforma, per indurre qualsiasi ministro alle dimissioni. Del resto i giudici ci stanno per applicare le leggi. E per fortuna questo governo non è ancora riuscito a smantellare tutto quanto di buono è stato legiferato negli ultimi 60 anni. Nel 2007 Prodi aveva pensato alla stabilizzazione dei precari della scuola, un problema che si trascinava da decenni. Il centrosinistra, a partire dall’Idv, continua a considerare l’istruzione pubblica il cardine della formazione dei giovani, un settore sul quale sono necessari maggiori investimenti, non i tagli lineari di Tremonti.
Ma la notizia più clamorosa è che la Gelmini, invece di prendere atto del suo fallimento, rilancia e sta pensando a una legge che neutralizzi le sentenze dei giudici.
E’ questa l’arroganza insopportabile del berlusconismo al potere: considerarsi sempre, in ogni circostanza, al di sopra delle leggi. La Gelmini e l’intero governo sapevano perfettamente a cosa andavano incontro quando hanno varato alcune norme. Ora pensano di metterci una toppa, ancora una volta sulla pelle dei lavoratori.