Poveri noi, povera Italia

Nell'ultimo saggio di Marco Revelli l'analisi di un Paese estremamente fragile, dove crescono paurosamente povertà e insoddisfazione. Un Paese nel cui ventre profondo domina un sentimento che serve a spiegare molti dei fenomeni sociali e politici ai quali stiamo assistendo: il rancore.

di Emilio Carnevali

È una sorta di rituale al quale deve sottoporsi più o meno ogni italiano che si reca all'estero, un po' come il controllo del passaporto allo sbarco di qualche aeroporto straniero. È la fatidica domanda: «Come è possibile che Mr. Berlusconi sia ancora lì al suo posto? Come fanno gli italiani a tollerare tutto questo?». Non è facile rispondere a questo interrogativo e, sopratutto, rispondere nel modo corretto, sfuggendo il fatale pericolo di una superficiale e accigliata presa di distanza – le braccia allargate del “buon democratico” incredulo per la “coglionaggine” dei propri concittadini – che elude la comprensione di movimenti sociali assai complessi ed articolati.

Per questo motivo risulta di estremo interesse l'analisi sviluppata da Marco Revelli in Poveri Noi (recentemente pubblicato da Einaudi), piccolo ma preziosissimo saggio nato dal lavoro della Commissione d'indagine sull'esclusione sociale che lo studioso piemontese ha presieduto fra il 2006 e il 2010. L'Italia raccontata da Revelli è un paese distante anni luce da quello ricco e gaudente che caratterizza l'autorappresentazione collettiva non solo nell'artefatto mondo dei reality televisivi.

È un paese fragile, dove cresce paurosamente l'esposizione alla povertà delle famiglie – sopratutto quelle con figli, nonostante la dilagante retorica familista che si risuona nella “narrazione ufficiale” – e dove i ceti medi con «aspettative da consumatori ricchi» ancora non hanno “metabolizzato” il cambiamento epocale che ne ha riconfigurato il ruolo sociale (avvento del post-fordismo, apertura internazionale dei mercati, fine del percorso ascendente del “lavoro” che ha caratterizzato il Novecento e le sue lotte).

«È in questo campo di forza disteso fra i poli opposti della rappresentazione e della realtà», spiega Revelli, «dell'aspettativa opulenta e dell'esperienza dell'indigenza e dell'inadeguatezza, che si condensa il rancore. Il sentimento, cioè, di un'attesa legittimamente tradita». È proprio il dilagare del rancore alla base di quell'«indurimento del carattere» che ha trasfigurato il volto del nostro Paese fino a renderlo quasi irriconoscibile, fra una crescente «intolleranza per le debolezze dei deboli» e un parimenti crescente «eccesso di tolleranza per i vizi dei potenti».

Secondo Revelli questo rancore si fonda sulla «sensazione di un'espropriazione indebitamente subita, la quale non trova tuttavia né il proprio oggetto né il proprio contesto, e neppur il linguaggio pubblico condiviso – tra i tanti linguaggi pubblici novecenteschi – capace di dare razionalità rivendicativa al discorso, quando il racconto prevalente è un altro. E non lascia altro spazio al senso d'ingiustizia subita, che la rielaborazione in solitudine, in un'invettiva senza parole la quale, proprio perché muta, richiede per alimentarsi sentimenti forti, elementari, 'caldi': odio, rancore, amore, terra, radici, fondamenti».

Da qui il fascino perverso che suscitano le prole d'ordine del neopopulismo, l'unica narrazione collettiva che appare in grado di parlare al ventre profondo della società nel quale trovano incubazione i sentimenti appena descritti. Ma quali sono gli elementi del populismo contemporaneo? Proviamo a sintetizzare il ragionamento svolto da Revelli attraverso una classificazione molto schematica.

1) La sostituzione del principio “novecentesco” dell'uguaglianza – principio ai giorni nostri sempre più disertato da società sempre più disuguali – con quello post-moderno della “distinzione” e del “distanziamento”. All'interno di questo nuovo paradigma il conflitto non si sviluppa più dal basso verso l'alto ma orizzontalmente, verso i pari grado, o meglio verso chi si trova solo poco al di sotto del proprio status materiale e simbolico: “Perché loro sì e noi no?”, è la domanda che riecheggia dalle borgate in rivolta verso gli insediamenti rom autorizzati dal comune o le varie ondate di migranti che competono con gli “autoctoni” sullo stesso segmento di lavoro non qualificato.

2) La riscoperta della territorialità, delle radici, del suolo dei padri come risposta all'atomizzazione della vita sociale, alla distruzione dei luoghi classici di aggregazione e ritrovo in periferie immolate ai grandi templi del consumo e alla loro inumana “urbanistica moto-televisiva” (a casa davanti alla televisione o in macchina al centro commerciale, tertium non datur). È questo il tribalismo post-moderno sul quale ha costruito le sue fortune un partito come la Lega Nord.

3) La proposta di un neocomunitarismo capace di sostituire alla retorica astratta dei diritti il caldo legame delle relazioni primarie («la parentela, il legame solidaristico a stretto raggio, ridotto al nucleo parentale, chiamato a riempire i vuoti lasciati da una statualità in ritirata», scrive Revelli).

Di qui il più generale riconfigurarsi dei legami sociali attraverso le dinamiche della “protezione” (dall'alto verso il basso) e della “fedeltà” (dal basso verso l'alto), l'«esasperazione di quella tendenza al 'familismo amorale' che appartiene endemicamente alla tradizione italiana, nella forma, ben conosciuta, di un sostanziale egoismo di gruppo e di una reiterata amnesia della dimensione pubblica».

Con lo stesso modello si spiega anche – ma qui ci allontaniamo dalla lettera del testo e procediamo secondo libere associazioni del tutto personali – la tolleranza verso il neofeudalesimo criminale che informa la gestione della pubblica amministrazione così come ci è stato rivelato dai recenti scandali della varie “cricche”.

E allo stesso modo si spiegano i clamorosi successi di tutte quelle campagne promosse da Berlusconi per proteggere la “roba” delle famiglie dalla indebita confisca che il Leviatano della burocrazia statale vorrebbe operare: si ricordino ad esempio la battaglia per l'abolizione dell'imposta di successione (principio eminentemente liberale definito come la «più odiosa di tutte le tasse» dal nostro presidente del Consiglio, per altro multimiliardario), per l'abolizione dell'Ici sulla prima casa (il santuario e il forziere della famiglia italiana per antonomasia), nonché la recente e tuttora in corso campagna contro l'imposta patrimoniale che i “comunisti” imporrebbero nel caso tornassero al governo, gli stessi comunisti che da sempre vogliono «mettere le mani nelle tasche degli italiani».

Ma il saggio di Revelli è anche un grande atto d'accusa nei confronti della sinistra, ovvero di quella parte politica che nella storia ha svolto proprio il ruolo di trasformare il legittimo rancore degli oppressi in una forza di emancipazione collettiva con obiettivi universali. Descrivendo la retorica lavorista che caratterizza il linguaggio politico della Lega, Revelli parla di «un residuo solido del lavorismo di ieri senza l'orizzonte del trascendimento che l'aveva animato. La ferocia del lavoro senza la speranza dell'emancipazione. La forza inerte della 'cosa' che sussume a sé la 'persona'. Aver chiuso quell'orizzonte, aver spento quella scintilla – o aver lasciato che ciò avvenisse – è il peccato capitale delle diverse sinistre politiche e sindacali di fine secolo. Su quello – più che sulla caduta del muro di Berlino – si misura la loro disfatta. La loro ‘uscita dalla storia’».

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