ULTRAS NON CRIMINALI

Gli incidenti causati da esponenti della tifoseria serba durante la partita di Genova contro l'Italia hanno determinato la fugace riapertura del dibattito sul tifo violento. Poca roba, tutto sommato, rispetto a quello che è passato, come concetto culturale, prassi sociale ed istituti giuridici, nel nostro Paese. Nell'ordine si è avuto: un provvedimento specificamente volto ad impedire la visione di spettacoli sportivi (DASPO, con ipotesi di “flagranza differita”, difficilmente armonizzabili con la Costituzione, ma soprattutto col significato stesso del termine “flagranza”), l'esposizione di spettatori cartacei, su teloni-poster larghi quanto le tribune, per supplire al grigiore degli spalti vuoti, l'applicazione di una tessera nei confronti degli appassionati, sul modello delle fidelity-cards, presupposto necessario per seguire le proprie squadre in trasferta, rilasciabile soltanto a soggetti determinati, con esclusione di tifosi diffidati, anche se non riconosciuti rei (formalmente e sostanzialmente) da parte di alcuna sentenza penale con efficacia e dignità di cosa giudicata. Un dispositivo di selezione sociale del pubblico di certe manifestazioni, più che uno strumento di avvicinamento delle società ai propri sostenitori, come pure si era provato a reclamizzare.
La marginalizzazione del tifo sportivo determina l'infittimento delle misure repressive. Non c'è bisogno di citare Deleuze per rendersene conto: più una categoria è socialmente deprezzata, sottorappresentata, svilita e allontanata, più è facile che si adottino, pacificamente e senza significative opposizioni nella società civile, provvedimenti a suo danno. L'idea dei “teloni-poster” è ancor più agilmente spiegabile: è il trionfo della società teorizzata da Debord e la sconfitta delle speranze di “società trasparente” tratteggiate da Vattimo. Non conta lo spettatore, come soggetto videns, ludens e soprattutto existens. Conta, al limite, l'impatto coreografico dato dalla sua rappresentazione in un campo di calcio: ben vengano le bandierine, le coreografie a palloncini e tessere di mosaico, commercialmente studiate, che possono bucare lo schermo di una diretta televisiva. No alle trasferte di gruppi sparuti a sette/ottocento chilometri da casa, no agli striscioni politici. Su questo presunto divieto, si spesero, pochi anni addietro, fiumi di inchiostro. Assistevamo a partite dove l'invito più gentile era quello a tornare (?) nei forni crematori. Non si poteva bloccare questa pratica con la semplice legislazione contro l'odio razziale. Tutti gli osservatori erano pronti a scorgervi una qualche ideologia politica: contestare l'ideologia politica dell'esclusione, del nazionalismo e della violenza, era ritenuta una pari ed eguale ideologia politica. Perciò ora si rischiano diffide per striscioni e proteste a favore dei senza fissa dimora, dei disoccupati e degli immigrati. Mentre drappi con le spade di Gladio, aquile muscolose e armamentari affini, in forza di un presunto “scolorimento” del significato politico-militare di quei simboli, sono dappertutto: nulla di male, sia chiaro, ma basta dire, ammettere, confermare, che scegliere un simbolo al posto di un altro non è un gesto indifferente. E' munito di un senso, anche se per qualcuno quel senso è innocuo e per qualcun altro aberrante e pericoloso.
Così pure, le comunità di frontiera possono costituire il laboratorio di politiche che potranno essere allargate in altri settori. Rendere lo stadio un confortevole esercizio commerciale è un principio che può essere applicato anche all'edilizia storico-artistica: possono crollare i plessi di interesse culturale, ma l'importante è che vi sia una rivendita, uno smercio, una bancarella, un sintomo di presenza commerciale e di scambio economico. Il che ha persino alcuni aspetti positivi: ma non crea né benessere né armonia. Istituisce la parvenza di una realtà dinamica, dove invece prevale il modello contrattuale su quello comunitario.
Il movimento ultras non è un circolo culturale, non è inderogabilmente un terreno di relazioni automaticamente meritevoli di tutela per la loro stessa esistenza: è, però, l'ambiente dove confluiscono, nella cornice accidentale dell'evento sportivo, soggettività che nei sei giorni precedenti si sono manifestate come attivisti sociali, lavoratori, esponenti del terzo settore, disoccupati o, in un'ottica meno positiva, delinquenti per cd “reati comuni”. Lo stadio non è teatro: la massa che lo abita, persino in tempi di svuotamento degli impianti, è numericamente tanto grande da modificare proporzionalmente la varietà delle persone che la costituiscono.
Il tifoso del futuro non è un ultras, per il semplice fatto che dal tifoso ci si attende di essere acquirente, telespettatore e “federato” (=fidelizzato, devoto, seguace di una struttura clanico-corporativa). Gli ultras sono acquirenti di biglietti a costo sostanzialmente popolare -non sempre! cresce anche il caro-tagliandi, perché possono giungere entrate da tutte le parti ed è utile raschiare il fondo del barile; gli ultras sono difficilmente telespettatori di servizi in abbonamento, dove, con l'interpolazione di negozi ad hoc e contrattazione standardizzata, si acquistano le partite della propria squadra, ma anche ritrovati tecnologici oppure offerte cinematografiche; gli ultras non sono fidelizzabili né nel senso della società sportiva -che, però, ambisce ad avere il loro sostegno e soprattutto il loro manifesto e pugnace accordo alle politiche della dirigenza-, né nel senso dell'ordine pubblico. Ciò si realizza non per un'attitudine lombrosiana alla consumazione dei reati, bensì per la capacità di movimento, contestazione e azione dimostrativa (anche indotta, anche vandalica, anche illogica, perché nasconderlo?) che li contraddistingue.
Non è mistero che costituiscano uno dei capitoli dell'evento sportivo, nella società post-moderna, maggiormente bisognevoli di esser edulcorati, frammentati, stigmatizzati, incanalati… in altre parole, snaturati.

Domenico Bilotti

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