“Vieni via con me”, il buonismo che non fa prigionieri

Che il buonismo sia buono, naturalmente, non è vero. Ha le unghie lunghe e le usa, e a volte è un bene. È micidiale perché veste di caramella dei contenuti politici fortissimi e impegnativi. Sacralizza e indora, mette tutti d’accordo, indicando, fuori da ogni possibile dubbio, buoni-buoni e cattivi-cattivi. Chi è fuori, è perduto. È ecumenico e, dunque, tautologico e sospetto, ma, al tempo stesso, sposta l’asticella politica, mette sotto la luce temi scomodi e difficili: l’eutanasia, la lotta alla mafia, la difesa della magistratura (segue elenco).

“Vieni via con me” usa benissimo il linguaggio (o uno dei linguaggi) della democrazia di massa. Può piacere o meno, ma la democrazia è anche questo. Ci si trova spinti, anche non volendo, verso un conformismo che è anche, e paradossalmente, un’emozione politica progressista.

“Vieni via con me” non può che essere ecumenico. La trasmissione di Fazio e Saviano (e degli altri autori, come Michele Serra) ha infatti un Racconto come sottotesto: la liberazione (da Berlusconi) e dunque la ritrovata unità nazionale. La impersona l’eroe della trasmissione, lo scrittore coraggioso (che coraggioso è veramente) che ha saputo parlare un linguaggio nuovo attraverso il quale si è conquistato la considerazione di tutti: è lui che si mette sulle spalle la bandiera italiana e ci dice che cosa essa veramente è, non una roba paludosa e barbosa e persino un po’ fascista, ma un’idea di liberazione e di giustizia. Ed è l’uomo del Sud che ce la offre, chiudendo così un circolo, strappando e ricordando al Nord (oggi in minoranza sedicente secessionista) il valore dell’unità nazionale. Adesso l’esempio viene dal Sud (Saviano ricorda i giovani del Sud morti per il Risorgimento).

Ma l’unità ritrovata riesce tanto più forte, dal punto di vista narrativo, in quanto ha un altro eroe meno evidente, che resta sullo sfondo. Anche qui c’è un cerchio che si chiude. Infatti è grazie a un ex fascista – dice il sottotesto – se oggi l’Italia ritrova se stessa dopo l’oscurità del nuovo Ventennio berlusconiano. Il cerchio della guerra civile, che si è aperto con l’altro Ventennio, quello di Mussolini, adesso si chiude, e l’Italia ritrova, dopo sessant’anni, se stessa, la pienezza delle sue parti, ma emendate, rinate, purificate. Da chi, da cosa? Dalla trasmissione stessa.

Il non-più-fascismo riscatta una parte d’Italia e il non-più-comunismo (ri)riscatta l’altra. Una narrazione che, naturalmente, abbiamo già visto varie volte, soprattutto nella versione in cui i protagonisti erano la DC e il PCI. Ma adesso, che sembra (ma sarà vero?) che Berlusconi ci lascia, è Fini che prende il ruolo tipico – che si vede spesso nei film americani – del Cattivo che in fondo era Buono, e che, anzi, alla prova dei fatti, si dimostra più generoso degli altri. Che cosa c’è di più buonista dell’ex cattivo che adesso è buono? C’è chi si ricorda l’ondata di emozione e di simpatia per Michail Gorbačëv, che tendeva la mano all’occidente, che liberava finalmente gli stati satelliti dell’Unione Sovietica. Così da noi: finalmente, il Paese tutto intero sembra avviarsi verso il lieto fine. E poiché ne ha bisogno, ne ha disperatamente bisogno, a questa favola ci si attacca con passione. La nostra è infatti una storia nazionale drammatica, estremamente dolorosa e piena di sfiducia in noi stessi.

Non si può pensare “Vieni via con me” senza lo strappo di Fini. È questo fatto che dà la premessa narrativa a tutta la trasmissione. Intanto per ragione oggettive. Perché il vuoto di potere, come successe anche dopo Tangentopoli, permette maggiore libertà di espressione; ma poi perché sembra avviare una nuova fase politica.

C’è un fatto nuovo. Una nuova luce in fondo al pozzo. Le trasmissioni di Sabina Guzzanti, di Daniele Luttazzi e di Michele Santoro erano la resistenza, “Vieni via con me” suona come una dichiarazione di vittoria. Sono gli americani che arrivano a Roma, con la gente che festeggia. Il successo è assicurato, perché tocca un’emozione molto forte e un bisogno oggettivo e reale degli italiani: la possibilità per tutti noi di una Rinascita. Il Nuovo Inizio, il Riscatto del Paese. Ma un riscatto deve avere dei nemici vinti o da combattere e che, solo insieme, possiamo finalmente battere. Sappiamo quali sono. Il programma li indica uno per uno, in modo più o meno diretto, e – va detto – qui si trova forse il suo contenuto politico più valido. Sono la mafia, Berlusconi, la Lega Nord, la Chiesa gerarchica.

Vi pare poco? È una favola, certamente. Una favola che passa sopra a tanti fatti (che faceva Fini negli ultimi 16 anni? E prima, che cosa ha fatto? A ricordarlo si diventa antipatici). Ma anche le favole hanno un loro contenuto politico, e fanno capire qualcosa del nostro Paese.

Il sentimento dell’unità nazionale non può che essere un po’ conformistico, non può che suonare un po’ falso, ma in certi casi non se ne può fare a meno, se si vuole cominciare a rinascere. Proprio per la sua logica simbolica e narrativa, il significato politico di questo programma televisivo, che ha raggiunto nove milioni di persone, è enorme e di grande interesse. Mai si era vista in televisione una critica così diretta alla Chiesa cattolica di cui Saviano dice, con la forza e la decisione che ha quando parla di Francesco Schiavone detto Sandokan, che ha negato il funerale religioso a Welby, ma che lo ha concesso a Enrico De Pedis, bandito della Magliana, a Francisco Franco, ad Augusto Pinochet. Poi c’è il riferimento a Giordano Bruno che è forte e inedito: aria nuova. Certo, compensato (o rafforzato) da Don Gallo (nella parte del prete vero, perché cerca di ascoltare Gesù.), ma anche questa (benché il ruolo non sia nuovo) è aria nuova. Il racconto dimostra tutta la sua forza simbolica.

C’è poco da dire, il programma contribuisce non poco a spezzare l’incantesimo berlusconiano. A chi esercita la critica, ad esempio agli intellettuali, spetta d’ufficio criticare l’unanimismo. Davanti alla celebrazione dell’unità emotiva, sarebbe inquietante se non ci fosse chi non è in grado si sfidare la sicura impopolarità, per far osservare i limiti del caso, per distinguere e specificare. La critica è, come sempre, salutare, dovuta, sacrosanta. Gli intellettuali non devono catturare la benevolenza, non devono essere buonisti per vocazione: al contrario, devono essere liberamente antipatici e finiscono con l’esserlo in misura proporzionale, evidentemente, all’esistenza di un sentire comune che è sempre da guardare con sospetto. Vale per Roberto Saviano, ma anche per chi ha trovato dei punti critici nella sua trasmissione.

Marco Travaglio ha osservato giustamente che Falcone fece un errore (glielo disse anche Borsellino) ad avallare la Superprocura, perché questa doveva essere alle dipendenze del governo, che è esattamente quanto ha cercato di fare, ma più in generale, il berlusconismo in tanti anni: porre la giustizia sotto le dipendenze dell’esecutivo. Ancora Travaglio ha sgonfiato in poche parole su “Il Fatto”, gli alati discorsi di Fini e Bersani. Anche se, al di là della coerenza e della storia di questi politici, i loro discorsi sono comunque un fatto politico, e forse potrebbero essere (in omaggio all’ottimismo della volontà) la premessa per fare qualche passetto in avanti sul serio.

Meno interessanti le critiche più tecniche rivolte al programma, come ad esempio, che Saviano non saprebbe “stare in televisione”. E allora? Meglio. Forse abbiamo introiettato davvero troppo il format berlusconiano: adesso è diventato importante “stare in televisione”? Ci stanno bene le tante comparse del Grande Fratello, in televisione, e anche le veline. Invece, tra gli aspetti più riusciti del programma, e più buonisti, c’è proprio di sembrare quasi una recita di asilo, con gli attori o i normali cittadini che escono con un foglio in mano, e che leggono, vincendo spesso una forte e reale emozione.

Quello che deve porre qualche interrogativo in “Vieni via con me” è tutto quello che (forse) non si vedrà. Per restare nella logica del programma, nel suo racconto, il fatto che ci siano solo i “buonisti” lascia sul terreno il messaggio che “cattivi” siano anche coloro che, come gli intellettuali critici, come i Daniele Luttazzi o le Sabina Guzzanti, hanno esercitato una critica essenziale ma, rispetto ai buoni sentimenti, lacerante, poco ecumenica. È la trappola tipica della formula della riappacificazione, nella quale i termini della ritrovata sintonia vengono stabiliti a uso e consumo di una parte, e ad esclusione dei più coerenti e radicali. Questo è il punto, che va oltre, naturalmente, i singoli nomi degli eventuali “cattivi”, perché riguarda una parte del Paese. Ma anche questo è “Vieni via con me”: la dimostrazione della potenza comunicativa, e della presa sulle persone, che possono ancora avere i “buonisti” e la loro trasversale parte politica.

Che cos’è “Vieni via con me”? È un programma politico. Anzi è un comizio politico. Ma di nuovo tipo. Il suo “format” è già stato sperimentato in Italia. Non c’è più il politico che parla (è ridotto a una presenza simbolica, che legge che cosa è destra o sinistra), ma c’è l’attore che fa politica mentre anche diverte, emoziona, fa ridere; c’è il “semplice cittadino” che testimonia il suo caso, come le cassaintegrate della Omsa. Un comizio, che è anche uno spettacolo. E che ha una potenza espressiva enorme. Il format era già stato sperimentato all’epoca dei Girotondi, o all’ Ambra Jovinelli, con Serena Dandini, Travaglio, Sabina Guzzanti e Santoro. Lo abbiamo visto nei due V-day di Beppe Grillo. Lo abbiamo visto in scena con “Raiperunanotte” (dove però c’erano i “non-buonisti”).

Sbaglia Curzio Maltese a contrapporre “Vieni via con me” ad “Annozero”, perché la formula è la stessa (anche se “Annozero” è tenuto a terra dalla presenza degli ospiti politici, noiosi per natura e per perfidia). Si può riflettere in vario modo sul fatto che questa forma di espressione politica, nata dalla società civile, sia adesso un format nel portafoglio di Endemol.
Il problema vero che pone “Vieni via con me” è però tutto interno al rapporto tra televisione e politica. Berlusconi è nato in televisione, e la televisione alla fine gli rende (almeno si spera) il ben servito, con un corale e unanime sdegno. Ma lo sdegno stufa, il divertimento passa. Lascia tracce profonde, ma non bastano. Il problema reale è che la televisione non basta. Può fare la sua parte, ma se i comportamenti restano gli stessi di sempre, il grande momento di unità nazionale resta solo un’altra, tra le tante, occasioni perdute. O un altro passaporto per allungare la vita a una classe dirigente perenne.

Il grande successo del programma sta nell’atto liberatorio dall’era berlusconiana, dalla sue censure esplicite ed implicite. Ma, come dice Albanese nei panni del politico supercafone, che vuol far pensare a Berlusconi, “attenzione, perché io (forse) passo, ma quello che rappresento resta. Io sono la realtà e voi la finzione”. Qui sta la vera battaglia: che cosa è realtà e che cosa finzione. Se è realtà il volto oscuro del Paese o la forza della civiltà e della democrazia. Ma a decidere questa battaglia non bastano i programmi televisivi, occorre una politica conseguente.

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