LE RETORICHE INCROCIATE SULL’UNITA D’ITALIA

La politologia contemporanea enfatizza, nel processo di formazione di un concetto condiviso di cittadinanza, l’esistenza di un racconto comune, di un percorso fondativo percepito come tale dalla popolazione nel suo insieme. Questo accento è tipico di un modo prettamente novecentesco di descrivere i meccanismi politici: il mito comune è indice e necessità di coagulare le forze democratiche. In realtà, avere idee fortemente critiche sulla formazione di uno Stato non impedisce obbligatoriamente l’essere ligi osservatori delle leggi di quello Stato, il reclamare sussidiarietà e solidarietà. Semmai, un’accettazione critica, se approfondisce lo sguardo e manifesta un’adesione coerente anche nelle sue vicende più problematiche, è un valore aggiunto nella costellazione post-nazionale: rende possibile un pensiero non esclusivo, non limitato, amplia le proprie posizioni sulle organizzazioni regionali, respinge il reflusso di identità contrapposte e definite che sorge a seguito del fallimento delle politiche sull’integrazione. L’unità d’Italia deve suscitare riflessioni similari, altrimenti diventa l’ostaggio dichiarato di retoriche assolutamente simmetriche. È inutile fornire una visione irenica della propaganda risorgimentale: essa, nella sua romantica forza propulsiva, era soprattutto istanza di un gruppo minoritario, che seppe gradualmente condurre un rivolgimento più ampio, più diffuso, emotivo, politico e militare insieme. È dannoso, al contempo, rinnegare il valore dell’unificazione e svalutarlo sulle difficoltà odierne di un Nord produttivo che guarda all’eccesso di burocrazia come semplice imbolsimento dell’economia e di un Sud catturato da poteri forti, di matrice legale o extra-legale. L’unità d’Italia, di centocinquant’anni fa, ha meno legami diretti di quanto si pensi con l’attuale crisi economica o con la fase di un più incisivo, invasivo e complessivo, radicamento delinquenziale, anche negli assets istituzionali. La memoria condivisa sul Risorgimento è una cosa e quella sulle conseguenze storico-politiche dell’unificazione è un’altra: la disattenzione verso il Mezzogiorno che si sviluppa nella prima fase post-unitaria è diversa dalla componente federalistica dell’avanguardia intellettuale risorgimentale; le politiche liberali in materia ecclesiastica sono ben diversa cosa dall’atteggiamento del Legislatore degli ultimi venticinque anni. Le letture sincretiche vanno bene finché aggiungono elementi su cui riflettere, dando coordinate di impronta storica più rigorose e affidabili e, sperabilmente, proposte di cambiamento e riforma più direttamente ancorate all’oggi. Se servono ad esaltare un’idea di Nazione funzionale a un manifesto politico (o, al contrario, a deprimerla per liberare gli spazi a una difesa sciovinista di tutte, indistintamente tutte, le norme costituzionali) sono opere perlopiù speculative, che davvero distanziano i cittadini dallo Stato in cui vivono.

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