Se Marchionne fa il canadese a Torino, con i soldi degli italiani

di Stefano Schiavi

Sputare nel piatto in cui si è mangiato per anni è una sorta di sport nazionale in cui gli italiani si cimentano da secoli ormai. Quindi non stupisce affatto che l’Amministratore Delegato delle Fiat parli come ha fatto in una trasmissione sulla Televisione pubblica. No, non sorprende affatto. Perché quello è il suo mestiere. Del resto amministra un’azienda e guarda agli interessi dei suoi azionisti di riferimento.
Quindi è del tutto legittimo il Marchionne pensiero, talmente legittimo che nel non essere d’accordo con lui gli riconosco il fatto di aver messo comunque in luce, o meglio, ha detto quello che si sa da anni e che pochi dicono: l’Italia non è competitiva e non ha strutture adeguate ed infrastrutture. Detto questo credo che sia altrettanto legittimo il pensiero di Gianfranco Fini che non ha esitato a ricordare alcune cosucce all’uomo dal maglione blu.
Del resto è fin troppo facile puntargli il dito addosso, quasi come sparare sulla Croce Rossa. Solo che il signore in questione che fa gli interessi della famiglia agnelli, e non solo, se ne frega altamente di quello che possiamo pensare e dire noi così come se ne frega di quello che dice il Presidente della Camera, terza carica dello Stato italiano. Se ne frega perché lui è transnazionale e non pensa più di tanto alla sua nazione, cioè l’Italia, perché risponde a logiche mercatiste, perché è abituato a prendere e a non dare mai. E’ il liberismo nella sua forma più deleteria. E’ l’esasperazione del liberismo-mercatista, quello di cui parla spesso anche Tremonti.
Prendere finché si può è la regola da seguire. E la Fiat in Italia ha preso finché ha potuto. Ha preso a piene mani. E questo è un dato incontrovertibile. E quando non ha potuto ha licenziato ed ora delocalizza. Perché le regole sono d’oro: cassa integrazione (pagata con i soldi dei contribuenti), incentivi, scivoli, prepensionamenti, tutto in nome dell’efficienza e della produzione che in Italia non c’è però. Ovviamente, dopo aver spremuto come un limone il sistema statale nazionale fino all’ultima goccia ecco che arrivano i licenziamenti e le minacce di chiusura degli impianti di produzione. Perché? Semplice, non ci sono i soldi e l’Italia non è competitiva con il mercato. Vero, verissimo. Ma la colpa di chi è?
La colpa è della Fiat che ha prosperato sui contributi statali, la colpa è dello Stato italiano che ha elargito a piene mani senza preoccuparsi di creare strutture, infrastrutture, indotto e, soprattutto, ha aumentato costantemente nel tempo il costo del lavoro.
La colpa è della globalizzazione sfrenata e delle delocalizzazioni, dei mancati investimenti, della mancata progettazione di una politica automobilistica, del solito “volemose bene” e del “tu lavori e io magno”. La colpa è della Fiat e dello Stato in se, non ci sono dubbi e non può essere vero il contrario dove la colpa non è mai di nessuno.
Quindi non capisco le alzate di scudi nei confronti delle parole del Presidente Fini che ha avuto semplicemente il torto di dire quello che pensano il 90% degli italiani che si sono rotti le scatole di dover pagare dal 2008 la cassa integrazione dei dipendenti Fiat. Non certo per i dipendenti in sé, il solidarismo in Italia fa miracoli, ma perché è ora che la Fiat la faccia finita di spolpare i cittadini italiani per i propri interessi e che lo Stato la faccia finita di farsi spolpare e di elargire a piene mani. Dire queste cose vuol dire parlare come uno di sinistra? No, parlare in questo modo vuol dire avere coscienza di quello che sta accadendo e di quello che è accaduto per decenni. Dal 1946 possiamo dire. Vorrei vedere tutti coloro che strillano, urlano al bolscevismo di ritorno e al comunismo strisciante di Fini e di Futuro e Libertà per l’Italia, se invece di fare gli impiegati o i dirigenti facessero gli operai della Fiat. Se dovessero affrontare settimane, mesi o anni di cassa integrazione a zero ore. Marchionne fa l’americano forte di una situazione lavorativa completamente differente da quella europea, anzi italiana. Marchionne fa l’americano coi soldi degli italiani e dei suoi dipendenti, compra la Chrysler, fa accordi con Tata, apre stabilimenti in Polonia, Russia, Serbia, India, Brasile etc…però poi in Italia…..
Più che fare l’americano sembra essere un americano a Roma, anzi a Torino. La cosa assurda è che in Italia, ormai è abitudine, sconvolge l’ovvietà. Già, perché Gianfranco Fini non ha detto altro che una ovvietà, talmente tanto ovvia da far paura. Da far gridare allo scandalo, ai cosacchi che abbeverano i cavalli in piazza San Pietro. Ma lo scandalo non sono le sue parole, lo scandalo sta in chi si scandalizza.
Io mi scandalizzo perché questo governo, come i precedenti del resto, parlano, si accapigliano, discutono, si sputano in faccia su tutto e per tutto tranne che per il bene dell’Italia e degli italiani. Io mi scandalizzo perché nessuno rappresentante del Governo ha alzato il ditino per dire a Marchionne “Ue, carino, ma che cavolo stai dicendo? E cosa proponi tu come Fiat per cercare di uscire da questa empasse? Vogliamo trovare una soluzione insieme visto che le colpe sono di entrambi?”. Nessuno, silenzio di tomba. Anzi tombale. Anzi no uno qualcosa ha detto, il solito Bondi che non si rende nemmeno conto di quello che dice e, come recita il proverbio, si da la zappa sui piedi: “Se l’Italia avesse ancora una classe dirigente nazionale degna di questo nome e dei leader politici autorevoli, si interrogherebbe a fondo sulle affermazioni di Marchionne. Ignorare o peggio polemizzare con una battuta paradossale quanto allarmata di Marchionne significa far finta che i problemi non ci siano e che tutto possa continuare come nel passato. La sinistra lo può fare, tutti coloro che lavorano per il cambiamento e la modernizzazione dell’Italia no”.
Ergo lui non è un leader politico autorevole né, tanto meno, un dirigente nazionale degno di questo nome e così a partire da Berlusconi in giù per tutto il governo…. Ipse dixit.
Se poi polemizzare vuol dire far finta che i problemi non ci siano, vabbè allora non comprendiamo più l’italiano. E se lo dice il ministro della Cultura…

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