Nazione violenta

Siamo ciò che facciamo ed oggi ciò che più facciamo è esercitare una diffusa, immotivata, feroce violenza. La violenza è ovunque: nella vita quotidiana, in politica, sui giornali, nei altri media, nel rapporto fra persone, belluina ed irragionevole, unico modo conosciuto per affermare il proprio punto di vista, non tenendo di quello degli altri. E, dopo un lungo periodo di violenza verbale, si è giunti ad una preoccupante stagione di violenza fisica, agita diffusamente, in fatti singoli e collettivi, sempre più frequenti e più gravi. Ma ci sentiamo ancora una Nazione civile e migliore di tante altre e guardiamo alla violenza degli ultras Serbi come ad un fatto esecrando ed estraneo alla nostra civiltà, come se analoghi episodi non avessero riguardato le nostre tifoserie, come se non dovessimo più tener conto dei recenti fatti di Milano e di Roma, con due persone in coma per pestaggio o, ancora, degli assalti alle sedi CISL, l’ultima delle quali ieri a Terni. Nei giorni scorsi la polizia di Belgrado aveva mandato una relazione alle autorità italiane nella quale si avvertiva la presenza tra gli ultrà di alcune centinaia di pericolosi estremisti, in occasione della partita con l’Italia. La situazione, già caldissima nelle strade di Genova durante le ore che hanno preceduto la gara, è precipitata non appena i giocatori sono entrati in campo. Bengala sono stati lanciati dalla tribuna riservata ai tifosi della Serbia verso il settore dei tifosi italiani. Gli appelli non sono serviti a nulla e il direttore di gara – dopo un timido tentavo di fare disputare il match – ha deciso di chiudere definitivamente la gara, valida per le qualificazioni ai campionati Europei del 2012. L'arbitro ha preso la grave decisione perché ha ritenuto che non ci fossero più le condizioni di sicurezza per i giocatori. Alla sospensione della gara i tifosi serbi posizionati nel settore 6 hanno abbandonato per la maggior parte il loro posto e sono usciti nella zona di filtraggio. Fuori dallo stadio, però, ad attenderli c'erano un centinaio di tifosi italiani che li hanno attaccati con lanci di bottiglie e fumogeni, mostrando il volto reale di questa nostra società non più civile ed anzi preda di una furia immotivata, frutto di un vuoto morale ormai irrefrenabilmente dilagante e pronto ad esplodere ad ogni occasione. I giornalisti oggi commentano, un po’ dovunque, che il calcio è ormai in balia dei teppisti e i nostri confini sono diventati una gruviera attraverso cui duemila malintenzionati sono potuti tranquillamente arrivare senza essere fermati. Lettura davvero curiosa e pericolosa di una violenza che non è compresa nella sua capillare diramazione sociale e che propone risposte muscolari e repressive, che certamente non risolvono nulla. Gli esperti dicono che i meccanismi della violenza scattano poiché ciascuno di noi, nelle sue aspirazioni, nei suoi desideri, nelle sue speranze, in quello che ha di più intimo dentro di sé, in quello che ha di più originale ed autentico; deve sottomettersi, accettare, molte volte passivamente, idee, modi di pensare e di comportarsi, strutture ed istituzioni che ci vengono imposte dalla società. Tale accettazione, necessaria ai fini dell’ordinaria convivenza civile, è sentita dall’individuo stesso come qualcosa di alienante, di frustrante; tale da generare ribellione più o meno palese, fino a giungere a forme di violenza contro la società e le sue istituzioni, contro gli altri individui, addirittura contro se stresso. Solo rendendo consapevole l’individuo della necessità di limiti e regole di convivenza, protagonista attivo di tali scelte, sarà possibile davvero bloccare questa escalation di violenza. Ma per far questo occorre un’idea condivisa di Nazione e una classe dirigente autorevole e non autoritaria. Condizioni che, al momento, mancano o sono latitanti nel Nostro Paese. Giovanni Stasera, tre anni fa, nel libro “Violenza sociale e violenza politica nell'Italia degli anni '70. Analisi e interpretazioni sociopolitiche, giuridiche, della stampa quotidiana”, ci disse che, la ricognizione storico-teorica del clima che generò gli “anni di piombo”, pur rivelando una sostanziale multiformità della complessità delle radici sociali, della varietà delle manifestazioni, furono lo iato tra valori etici e morali e il prevalere della tendenza alla semplificazione arbitraria e nel contempo all'amplificazione di eventi e personaggi nelle analisi di cui la stampa stessa si fa spesso portatrice. Le cause prime di momenti di crisi sociali violenti e di decadenze democratiche nei contesti civili, sono quindi la semplificazione delle analisi e la distanza fra singolo e collettività, ritenendosi il primo estraneo ad un clima che pure lo circonda e lo attraversa. Un clima che ricorda quello di oggi in cui la violenza non è solo negli stadi o in certi quartieri di certe città; ma dilaga come un fiume in piena che ha tracimato senza più controllo e ci riguarda tutti. Sigmund Freud prima e Gustave Le Bon poi, sono propensi a credere in un meccanismo per cui, in determinate situazioni, la base istintuale innata e geneticamente trasmessa di generazione in generazione, riemerge con forza fino a sovrastare e soffocare, inibendone gli effetti, lo strato culturale che l’uomo ha costruito nel corso dei millenni. Inoltre, l’anamnesi psicologica di alcuni individui coinvolti in efferati atti di violenza, ha portato alla luce caratteri alquanto controversi: spesso i comportamenti devianti di alcuni fungono da traino rispetto agli altri, una sorta di gerarchia, con personalità dominanti che ‘plagiano’ (fra apici nel tentativo di stemperarne il significato) gli altri individui che nella supposta scala gerarchica stanno ai gradini inferiori. Secondo molti, infine, i violenti sarebbero di fatto soggetti abbastanza fragili dal punto di vista caratteriali che, rifiutati o trascurati in famiglia, pur di essere accolti nel’clan’, si sottopongono a veri e propri riti d’iniziazione. In altre circostanze si assiste a comportamenti indotti da ‘emulazione coattiva’, in virtù della quale l’individuo è spinto ad agire solo per una disposizione ad emulare chi, all'interno del gruppo, è identificato come leader. Ma, siccome l’uomo diventa col tempo più liberato dall´influenza dell´istinto, giungendo, invece ad essere più “individualizzato”, dovremmo diventare sempre più capaci di resistere a queste forze primitivi, per sviluppare contesti sociali dove tutti dovrebbero sentirsi liberi e creativi e non schiacciati, svuotati e rancorosi. Ma non sarà ciò che sim legge sulla stampa o si ascolta in televisione, né le proposte di un governo che alle morti italiane in Afganistan risponde aumentando gli armamenti e al clima di violenza urbana incrementando i controlli ed i rimpatri dei rom e degli stranieri, a migliorare la situazione di una Nazione ormai preda della violenza. Un esempio dello stato delle cose viene dall’ultima trovata del sindaco Alemanno (da qualcuno ribattezzato “malignamente” Aledanno): abbattere gli edifici delle periferie romane, raderle al suolo, per migliorane la vivibilità. Tor Bella Monaca, che i romani chiamano, tra l’affettuoso ed il cinico, Torbella (tutt’attaccato e senza quel Monaca che un pò ci stona, a dire il vero), è uno dei quartieri dimenticati della periferia urbana della “città eterna, una periferia che si espande, assediata dal cemento, dalla fame di case, dalla “Roma ladrona” che – ahinoi! – esiste veramente, anche se non coincide con quella che hanno in mente i leghisti. Aledanno vorrebbe radere al suolo Torbella, novella Cartagine e lui novello Scipione, per ricostruire un quartiere nuovo, frutto di quella che lui definisce “urbanistica partecipata”, più con riferimento ai soliti speculatori romani (i Caltagirone e i Mezzacorona), che alle reali esigenze dei residenti. Così, tirando su palazzi nuovi e abbattendo baracche, Aledanno crede di risolvere la vivibilità di un quartiere difficile perché abbandonato.

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