A CHI SERVE L’ENFASI SU ZINGARI E MALAVITA

La serietà delle analisi impone di bandire le semplificazioni. Non esistono ricerche scientifiche sul contagio epidemiologico che riguardino soltanto l’HIV. Non esiste letteratura storica che giustifichi l’ascesa del fascismo solo per il tramite della Marcia su Roma. Non si può spiegare lo stato degradante del settore politico, e di quello economico ed amministrativo, in Calabria soltanto sulla base delle tentazioni stragiste covate da una parte della malavita organizzata. L’operazione non solo sarebbe senza senso e costrutto, ma non ci darebbe nessun valido elemento per cercare di trovare una via d’uscita. Del resto, dalla fine degli anni Settanta in poi, il segreto esponenziale del crimine locale è stato quello di avvicinarsi a una serie di ambienti, a volte anche istituzionali, confinati in zone d’ombra del vissuto comune: logge coperte, aggiudicazioni spregiudicate, connivenze politiche, sia con parlamentari eletti nei popolosi collegi del Sud sia con amministratori locali. Senza questa operazione, la ‘ndrangheta sarebbe rimasta un fenomeno locale: una parata di boss di paese pronti a farsi battere le mani sul corso principale e poco di più. Non mi risulta che esistano analisi significative su un altro tema di indagine ben poco battuto: mentre in Campania e in Sicilia, i gangli del potere decisionale restano nelle grandi città e si scatenano guerre quando le periferie assaltano i capoluoghi (i Corleonesi a Palermo, i Secondiglianesi a Napoli), in Calabria non sempre la malavita di città egemonizza la propria provincia né quella dei paesi circostanti pretende automaticamente di aver mire espansionistiche verso le città più grandi. Le cosche di San Luca, di Cirò, di Africo e Rosarno… esistono e si rafforzano, anche a prescindere da quelle di Reggio Calabria, Cosenza e Catanzaro. In questo vedo il segno di un’urbanizzazione malata e non andata davvero a frutto, nella nostra regione. Come alla politica a caccia di voti nelle consultazioni elettorali, anche alla malavita è servito tenere un piede in due staffe: referenti geograficamente e operativamente vicini ai palazzi del potere, un controllo ossessivo sia delle periferie e dei quartieri disagiati (ove reclutare manovalanza per lo spaccio, le faide interne, le estorsioni), sia dei numerosi centri rimasti votati a schemi economici palesemente arretrati e altrettanto palesemente ricattabili e manovrabili. L’attenzione di questo governo alla cattura dei latitanti svela un deficit di prospettiva serio: non solo perché in essa ben poco c’è di strategia governativa, ma anche perché il latitante in fuga è spesso soggetto già condannato, di cui è stata individuata la collocazione criminale, la forza egemonica ed economica. È, magari, delinquente pericoloso, ma la sua azione è già stata “mappata”, individuata nelle linee di fondo, nelle più evidenti (oltre che giudiziariamente accertate) efferatezze. Questa lacuna di coordinamento, anche ove fosse di buona fede, altro non fa che favorire l’inesorabile risalita della linea della palma. Lo stesso accade con le tante, valide, investigazioni relative agli ambienti della malavita che progettano attentati a giudici e forze dell’ordine: questi crimini sono inaccettabili e devono essere sventati. Però, è azione che risiede al basso dell’attività antimafia: ogni inchiesta conclusa, ogni attentato compiuto o minacciato, scatenano commenti estatici oppure esibiti slanci di solidarietà. In definitiva, allora, dichiarazioni di questo tipo, divenute rituali, non hanno né il merito di migliorare la qualità dell’impegno comune contro la malversazione né l’attitudine a definire il contrasto a tutte quelle forme di extralegalità seriamente invasive e radicate (sperpero di cosa pubblica, compensazione di crediti illeciti, irritualità nella messa in sicurezza dei cantieri e così via). Avere una decalcomania della criminalità organizzata costituita solo da bombaroli impenitenti e trafficanti d’armi è un ottimo servigio a chi, nella criminalità organizzata, ha da tempo imparato a diversificare le proprie attività. Come aggredire le transazioni fraudolente nei paradisi fiscali se siamo impegnati a commentare la virulenza delle armi da fuoco? Come promuovere il regolare svolgimento delle consultazioni elettorali se siamo affannati a cercare lo spacciatore di turno, il lercio presunto che immaginiamo chiuso in un appartamento a contare dosi e vendere soldi? E come aggredire sul serio anche i reati della cd “mafia militare”, come traffico d’armi e di stupefacenti, se non ne rinveniamo l’apice, il disegno, l’utilità diretta (cioè, il costante possesso di moneta liquida e la forza dell’intimidazione)? I luoghi comuni sono in agguato anche per quanto riguarda gli “zingari”. In Calabria vi sarà magari più d’altrove la presenza di una scaltra malavita d’origine allogena, in feroce ascesa, ed è fenomeno che merita il dovuto contrasto. Ma dietro l’allusione agli “zingari” parliamo spesso di cittadini italiani da più generazioni, perfettamente integrati nelle cittadine o nei quartieri dove spendono il loro potere: non è la malavita che rapisce i bambini -altro luogo comune, non è la malavita che ruba le autoradio… è la malavita che tiene la filiera dei rapporti con la criminalità balcanica, che riesce ad avere dalla propria anche commercialisti, avvocati, liberi professionisti d’ogni tipo. Ecco perché la gente di Calabria (poca, a dire il vero: fortunatamente) che si lamenta degli zingari e li addita a delinquenti incardinati nell’agire mafioso ha capito ben poco: gli “zingari”, in quanto etnia rom impaccata nelle baraccopoli e fresca di migrazione verso il nostro suolo, non ha nulla a che spartire con tutto ciò. Mi stupivo, anni addietro, a leggere come Santi Romano considerasse ordinamento giuridico anche la mafia. Mi stupivo e stupisco ancora a leggere le teorie lombrosiane sulla fisiologia criminale. A quel poco che spero di aver compreso, la mafia è senz’altro un attore sociale che mira a trainare l’intero ordinamento dalla propria parte. E più trova e assolda volti distanti anni luce dalla riconoscibilità e riferibilità a se stessa, più guadagna in santa pace e silenzio.

Domenico Bilotti

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