Archeologia: Test Dna sui monti Simbruini alla ricerca degli avi

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Viene dalle caverne la verità sulle origini degli abitanti della valle del Sacco e dell’Aniene, nel Lazio meridionale e orientale. A fare luce sulla loro discendenza saranno le analisi genetiche condotte dall’università di Tor Vergata nell’ambito del progetto “Gens”. A dare il via alla ricerca, il ritrovamento casuale di 23 scheletri del Neolitico antico (5.400 a.C.) in un condotto secondario e di difficile accesso della grotta Mora Cavorso a Jenne, in provincia di Roma. Una scoperta eccezionale (le comunità di pastori dell’epoca erano composte mediamente di una decina di unità), tanto da aver fatto raddoppiare in un solo colpo gli individui di età neolitica rivenuti nel Lazio. Un autentico cimitero, dove per almeno un paio di secoli una piccola comunità di pastori nomadi ha seppellito i propri membri. Ma non è stata questa l’unica scoperta. I frammenti di vasi trovati hanno mostrato infatti una modalità di decorazione più simile a quella in voga Abruzzo, ovvero al di là della catena montuosa che divide le due regioni. Da qui l’idea di mappare il dna degli abitanti dei centri abitati a ridosso dei Simbruini per avere conferma dell’origine “abruzzese” delle popolazioni della valle del Sacco e dell’Aniene. A Cappadocia (Aq) e Jenne, con un centinaio di volontari che si sono sottoposti al prelievo della mucosa boccale, sarà possibile ricostruire le linee genetiche dei paesi. Nei prossimi giorni sarà la volta di Trevi nel Lazio (Fr), un polo pre-romano di rilievo che fra l’altro permetterà di capire quanto la popolazione attuale discenda dal grande insediamento equo. A seguire Rocca di Botte, Pereto e Oricola (Aq).

“Si tratta di ‘aree conservative’, zone isolate dove i dati genetici dovrebbero essersi mescolati poco nel tempo – afferma al VELINO Mario Federico Rolfo, archeologo e docente di Protostoria a Tor Vergata -. Ma gli attuali abitanti potrebbero anche essere ‘figli’ del ripopolamento e rimescolamento di genti avvenuto nel Medioevo. L’obiettivo resta comunque arrivare verso la piana del Fucino, dove i ritrovamenti neolitici sono stati molto numerosi e dove pensiamo che gravitassero anche i pastori che abbiamo rinvenuto”. A condurre le analisi sarà il centro di Antropologia molecolare per lo studio del Dna antico del dipartimento di Biologia di Tor Vergata, guidato dalla genetista Olga Rickards. Ma i risultati del progetto Gens permetteranno anche di capire la provenienza di questi primi produttori di cibo. “Pecore e grano sono arrivati dall’Oriente, ma con quest’analisi potremo sapere se sono stati ‘scambiati’ con genti autoctone del centro Italia o se sono state intere popolazioni a spostarsi”.

L’obiettivo prioritario resta comunque ricostruire la storia dei 23 scheletri della grotta di Jenne. Per quelli per i quali è stato possibile risalire al sesso, le analisi hanno mostrato una preponderanza femminile (otto donne, sei uomini), oltre ad alcuni molto giovani (15-20 anni), un paio di bambini e uno appena nato, forse addirittura un feto. “Hanno tutti gambe molto robuste, segno che non erano stanziali, erano abituati a camminare e svolgevano attività di pastorizia o di allevamento – spiega Rolfo -. Lo confermano i resti ossa di pecora e di cane che abbiamo trovato, animali tipici di questo tipo di economia”. Eppure di loro, per il momento, non è stato possibile sapere altro. Nessuno sa se la grotta era un cimitero utilizzato in particolari periodi dell’anno, magari durante la transumanza e le fasi di passaggio nella zona, o se avesse uno scopo funerario esclusivo, al punto che i cadaveri venissero portati dietro dal gruppo in attesa di arrivare a Jenne. Nella valle dell’Aniene e del Sacco non ci sono testimonianze simili e gli archeologi non hanno saputo ricostruire la rete di movimenti e relazione dei pastori. Di qui l’attesa per i primi risultati del Dna.


fonte dati: Il Velino Cultura

Redattore: RENZO DE SIMONE

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