Vito Mancuso, impertinente e sognatore

di Fabio Anibaldi

Ma che vuole questo Vito Mancuso? Non si sarà mica montato la testa? Anche dai commenti più educati pareva trasparire un velo d’insofferenza dopo la presa di posizione del teologo su «Repubblica».
I fatti sono ormai noti. Un articolo denuncia che la Mondadori, grazie a una “provvidenziale” misura di legge, può chiudere un’annosa partita col fisco pagando una cifra irrisoria, pochi milioni di euro invece di diverse centinaia.
La notizia fa sobbalzare Mancuso, che racconta il suo dilemma morale: come posso io, autore Mondadori, continuare a pubblicare con una casa editrice che gode di così smaccati privilegi, dovuti all’essere proprietà dell’uomo più potente e ricco del paese?
L’articolo scatena un vespaio. Non interessa qui dare conto delle reazioni più volgari e aggressive (accuse a Mancuso di opportunismo, “di eroismo a tassametro”, avendo egli infine deciso di lasciare la casa editrice, ma solo dopo aver onorato, con un ultimo libro, gli oneri contrattuali). Quanto dei distinguo avanzati da intellettuali e scrittori molto autorevoli – alcuni chiamati in causa dallo stesso Mancuso – che riconoscono a loro volta la questione, ma non per questo lasceranno la casa editrice di Segrate.

Le motivazioni possono essere grosso modo raggruppate in quattro filoni. Il primo: proprietà e casa editrice non sono sovrapponibili, essendo questa composta da persone libere e di alta qualità professionale, come dimostra peraltro il catalogo, zeppo di grandi scrittori del passato e del presente. Il secondo: non sta agli intellettuali ma alla politica occuparsi di risolvere il conflitto d’interessi che soffoca da quindici anni la nostra democrazia. Terzo: il “nemico” va combattuto dall’interno, approfittando dei suoi potenti mezzi per veicolare dissenso e critica. Il quarto, e più gettonato, è che nessuno è stato vittima di censura: il gruppo Mondadori lascia piena libertà agli scrittori anche quando le loro idee non corrispondono a quelle della proprietà.

Si tratta di motivazioni rispettabili ma elusive rispetto all’obiezione di Mancuso, riassumibile nella seguente domanda: può darsi incoerenza tra idee e prassi, tra etica delle convinzioni e etica della responsabilità?
Mancuso è uno strano animale affacciatosi nel panorama culturale di questi anni. È un uomo di fede che ha avuto il coraggio di guardare nella crisi della fede (e delle fedi). Un teologo laico pronto a denunciare la miopia di una Chiesa che reagisce al nichilismo ripristinando vecchi ordini anziché incontrando con parole nuove il disorientamento delle masse. Ma la riflessione di Mancuso non si ferma per nostra fortuna alle questioni di Chiesa, alle dispute intorno alla dottrina. In ogni suo scritto si avverte il bisogno febbrile, mascherato appena da una scrittura pacata e razionale, di sottolineare come dal vuoto di senso in cui tutti, credenti o meno, annaspiamo, non si esce riesumando vecchie parole d’ordine, né praticando il disincanto cinico di chi ritiene di essere troppo evoluto per credere davvero in qualcosa. Per Mancuso colmare questo vuoto significa assumere noi il compito che un tempo assegnavamo alle ideologie e alle fedi: quello di dirci chi siamo e per che cosa viviamo. Se prima senso e identità potevamo ricavarli dalle appartenenze (o dal loro rifiuto), oggi la nostra identità poggia sulle fragili fondamenta delle nostre scelte. Siamo sì liberi di essere ciò che vogliamo, ma proprio per questo la libertà è diventata una faccenda tanto bruciante e seria (a dispetto della retorica del disimpegno costruitale attorno), una partita dove ci giochiamo la possibilità di diventare davvero quello che siamo o, più modestamente ma con maggiori vantaggi su altri piani, di recitare il ruolo di comprimari che la società dei consumi e l’ideologia dello “sviluppo” ci riservano.
difficile capire il senso dell’intervento di Mancuso se si prescinde dalla temperie morale della sua ricerca.

Poi certo si può storcere il naso su alcune cadute di stile (a qualcuno non sarà piaciuto il chiamare in causa, loro malgrado, altri autori, costringendoli di fatto a pronunciarsi, o il comunicare un travaglio interiore prima di prendere una decisione). Ma fermarsi a queste cose è guardare il dito invece della luna. Mancuso pone un problema reale, tanto più reale perché nascosto oggi da un velo di conformismo e di ipocrisia. È certamente vero, ad esempio, che Mondadori e le sue affiliate non operano censure, ma dietro non c’è il pluralismo liberale tanto sbandierato dalla casa editrice, quanto un semplice principio di convenienza: quei prodotti, firmati da autori prestigiosi, vendono, fanno profitti, e questo prevale su ogni altro genere di considerazione. La cultura conta ben poco in un paese che ha deciso da vent’anni anni di disprezzarla, e la briglia sciolta del gruppo Mondadori diventa arcigno controllo nei confronti dei giornali e delle tv – loro sì mezzi di condizionamento di massa – che fanno capo allo stesso gruppo economico, o di quelli pubblici che si trovano sotto l’influenza diretta del nostro premier.

Poi certo ha ragione chi osserva che il conflitto d’interessi deve essere affrontato in primis dalla politica, e lamenta l’inerzia di chi ha fatto finta di nulla o compatito le persone che non si stancavano di denunciarlo. Ma se oggi ci troviamo in una situazione abnorme, ostaggi di una plutocrazia che non ha eguali in Occidente, è perché la maggioranza di noi ha contribuito ad ingrassarla, che si trattasse di vedere un film, di fare la spesa, di comprare un libro o di guardare una partita di calcio alla tv. Fatte le debite proporzioni, è lo stesso meccanismo di anestesia delle coscienze studiato da Hannah Arendt durante il processo Eichmann: la consapevolezza e il senso di responsabilità stingono se il gesto della persona viene inserito in un ingranaggio più grande che cela le finalità della macchina. Uno ha semplicemente l’impressione di obbedire – come hanno rivendicato Eichmann e altri funzionari della morte – o ancor più semplicemente, come succede ai nostri tempi, di avere risposto ad un invito. Ogni sistema di potere (che siano le dittature totalitarie, quelle delle mafie, o i regimi soft della democrazia populista) si regge finché esistono coscienze assonnate o rassegnate che lo fanno funzionare, finché dalle singole persone, dai gruppi, dalle associazioni, non nasce la volontà di ribellarsi e dire di no.

Per questo uno come Vito Mancuso dobbiamo tenercelo caro, come cari avremmo dovuto tenerci Pier Paolo Pasolini, don Milani e tutte le coscienze inquiete che avrebbero voluto maggiore inquietudine e eresia attorno a sé. Voci marchiate come visionarie e apocalittiche spesso dagli ambienti a loro più vicini.
Tenerci caro un uomo che non ha perso l’anima impertinente e sognatrice del ragazzo (l’avventatezza che affettuosamente gli rinfaccia il cardinale Martini) e che ha il merito di riportare a galla il tema dell’impegno degli intellettuali. Nella speranza che la parola impegno, sfregiata da abusi e tartuferie, si traduca in una meno altisonante e più autentica responsabilità, collocandosi più dalle parti di un Camus che di un Jean Paul Sartre.
Fra tanti tiepidi, induriti e navigati complici del ristagno culturale, Vito Mancuso è un innamorato della vita che ha il dono della chiarezza e il coraggio di trarre conseguenze da quello che scrive.

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