MEETING DI RIMINI 2010. Quella natura che ci spinge a desiderare cose grandi è il cuore

PIU’ SOCIETA’, MENO STATO
L’esperienza del dono nella tradizione italiana

Lunedì, 23 agosto 2010

MAURIZIO SACCONI

Io vi parlerò di una rivoluzione che vedo possibile per ragioni oggettive e soggettive, di una rivoluzione nella tradizione. E della opportunità, in questa transizione che investe necessariamente anche la politica e i corpi sociali, in questo contesto per molti aspetti confuso, di un “Manifesto per la vita e per la sussidiarietà”, di un manifesto per l’antropologia positiva. Perché penso che la crisi che abbiamo vissuto – e dalla quale non siamo compiutamente usciti – abbia comunque generato cambiamenti irreversibili. E tra questi vi è certamente quello indotto dalla fine della impunità del debito sovrano. Ormai strutturalmente i mercati finanziari considerano con diffidenza il debito pubblico; verificano se esso sia sostenibile e non c’è più, comunque, una sua acritica accettazione nel presupposto di un prestatore di per sé solvibile. E la fine della impunità del debito sovrano – combinata con la concorrenza di Paesi senza debito e senza regole – rappresenta inevitabilmente il rapido declino del Leviatano, ovvero di quello stato pesante e invasivo disegnato, più o meno consapevolmente in tutte le democrazie moderne, sul presupposto di Hobbes e della sua antropologia negativa, sulla malfidenza nei confronti della persona e della sua attitudine alla socialità. “ Homo homini lupus”.
Le politiche pubbliche sono in conseguenza prevalentemente repressive e non premiali. Tutta la nostra regolazione è complessa perché insegue anche le più improbabili patologie nei comportamenti umani e si fonda sul presupposto “io non mi fido” e quindi sul controllo ex ante. L’iniziativa sociale è considerata con sospetto e solo l’offerta pubblica coincide con il bene comune. Si realizza addirittura un paradosso per il quale tanto si vorrebbe affermare la libertà di scelta nell’ambito privatistico delle preferenze individuali (della sessualità, di morire, di abortire, ecc.) quanto si vorrebbe limitare o negare la libertà di scelta nell’ambito pubblicistico delle preferenze sociali, come quelle riferite all’educazione.
La fine dell’impunità del debito sovrano è destinata a travolgere, per convinzione o per convenienza, tutto questo impianto pubblicistico, dalle sue strutture onerose alle sue regole opprimenti. Come non cogliere questa opportunità epocale per rimettere in discussione quell’antropologia negativa che non ha mai voluto comprendere che il bene comune nasce non dallo stato e dalle sue burocrazie ma – come voi dite nel tema del convegno – dal cuore delle persone.
E' quindi in forza della necessità di crescere e competere con meno spesa e meno regole che si può sviluppare la virtù di un percorso che potremmo definire “meno stato più società”. Se ne avvertono i sintomi in molti Paesi oltre al nostro. Nel Regno Unito il nuovo premier Cameron ha recentemente rivolto un messaggio alla Nazione in favore della “big society” opposta al “big government”. Negli USA si impiega il termine di new governance per evidenziare la necessaria collaborazione tra il pubblico e il privato sociale ai fini della affermazione del bene comune in un contesto di crescita geometrica della filantropia privata.

Io credo possa essere riconosciuta a questo governo una visione già all’atto di affrontare nei primi giorni della sua attività la ormai prossima tempesta perfetta dei mercati finanziari. Noi non ci limitammo ad avviare una qualsiasi disciplina di bilancio per rendere sostenibile il debito e consentire la sottoscrizione agevole dei titoli che lo rappresentano. Contemporaneamente alla prima manovra di finanza pubblica abbiamo esplicitamente confermato il disegno del federalismo fiscale e lo abbiamo completato, attraverso una grande consultazione pubblica, con il Libro Bianco sul futuro del modello sociale. Cioè federalismo fiscale e nuovo modello sociale sussidiario sono stati i due elementi di una unica visione di “meno stato più società”. Poi starà a voi giudicare con quanta coerenza siano stati prodotti gli atti di governo. Questa unica visione ha voluto sottolineare quanto sia importante incrociare la sussidiarietà verticale con la sussidiarietà orizzontale se si assume il presupposto della antropologia positiva. Perché non si costruisce un percorso virtuoso per la crescita economica, sociale e civile, una rivoluzione nella tradizione nel segno del “meno stato più società”, se non si muove dalla antropologia positiva. La riproposizione dello stato pesante fuori della porta di casa e secondo geometrie variabili nelle diverse Regioni avrebbe altrimenti l’effetto di soffocare ancor più il dinamismo della società e quindi la capacità di sviluppo.

E l’antropologia positiva a sua volta non presuppone necessariamente la fede. Molti non credenti, pur non comprendendo la natura sacrale della vita, riconoscono la ricchezza della persona perché attraverso l’esperienza ne individuano la vocazione relazionale, l’attitudine positiva verso l’altro. E così riconoscono il valore della vita, anche quale presupposto necessario per lo stesso vitalismo economico e sociale.
Non è un caso che nella politica del governo vi siano stati atti e documenti, come la recente Agenda biopolitica, con i quali esso ha assunto una posizione non equivoca circa una serie di profili legati al valore della vita come elemento basico dell’antropologia positiva. Vedete, io che ho lavorato per sei anni alle Nazioni Unite non moltissimo tempo fa, ricordo ancora le tesi sul controllo delle nascite. Recentemente ho guidato la delegazione di sistema in Cina e ho avuto una serie di colloqui. E’ stata una amara soddisfazione constatare quanto i cinesi si siano resi conto della follia di avere voluto controllare – anche con modalità odiose – le nascite determinando fortissime criticità nella loro coesione sociale. Oggi tutte le teorie sul controllo delle nascite sono state spazzate via dalla equazione tra dinamismo demografico e crescita economico-sociale. Quindi il primo atto del “meno stato più società”, il primo atto dell’antropologia positiva che lo sostiene è il riconoscimento del valore della vita. L'Agenda biopolitica che abbiamo presentato si riferisce ai tanti problemi che sono oggettivamente all’ordine del giorno, piaccia o non piaccia, imposti dalla tecnoscienza, da una magistratura creativa e invasiva, da circostanze oggettive che costringono i decisori a prendere posizione sui temi inerenti l’inizio della vita, i momenti più difficili della vita stessa come quelli nei quali ci si confronta con una disabilità grave o gravissima, il rapporto tra la vita e la morte, l’impiego dell’umano come materiale biologico, il rapporto fra la ricerca e l’etica. Su questi temi noi abbiamo presentato proposte e linee di lavoro sulle quali io sono certo che c’è una larga maggioranza politica in Parlamento determinata a sostenerle al di là dello schieramento di appartenenza.

Ma “meno stato più società” significa forse stato minore? C’è il rischio che si produca uno stato minore? Assolutamente no, meno stato significa uno stato migliore perché significa essenzialmente tre cose.
Innanzitutto Stato Strategico, che nella sua dimensione centrale si occupa dell’unità della nazione e, anche attraverso un patto federale con le regioni, definisce e garantisce livelli essenziali di prestazioni. Ma è uno Stato Strategico perché guarda anche a profili di lungo termine, ha un pensiero lungo ed opera in conseguenza nelle grandi decisioni interne e internazionali. Si rivitalizza in funzione della sua liberazione da altri compiti minori e si concentra appunto sugli interessi strategici della nazione.
E’ uno Stato Federale che si organizza secondo il criterio della migliore prossimità degli amministratori agli amministrati, ma anche della responsabilità degli amministratori. La novità del federalismo fiscale è soprattutto questa: introdurre il “far di conto”. E soprattutto lo Stato Federale è destinato ad aiutare il nostro Mezzogiorno, a liberare i suoi cittadini, spesso usati come scudi umani, da una cattiva politica che non vuole “far di conto” ma usa la spesa pubblica per organizzare dipendenza e consenso forzoso. Prima Borgomeo ha fatto due esempi della cattiva spesa nel mezzogiorno, ai quali aggiungo l’impianto socio – sanitario – assistenziale caratterizzato dalla regola per cui ove si spende di più si dà di meno. Perché quando la non auto sufficienza è trattata inappropriatamente in un ospedale generalista marginale, di piccole dimensioni, la persona è abbandonata a se stessa, mentre quando si pratica assistenza domiciliare con l’ausilio del volontariato, la persona è trattata amorevolmente nell’ambito in cui è sempre vissuta. E pensate che in questo secondo caso costa da sette a dieci volte di meno del primo caso, cioè del ricovero inappropriato. Premesso che la spesa socio sanitaria è l’ottantatre per cento della spesa corrente delle Regioni, essa si rivela come il simbolo della gestione dell’ordinario. Se non c’è buona gestione dell’ordinario pensate che ci possa essere una buona gestione dello straordinario? Allora migliore stato implica maggiore responsabilità con la quale si evita la formazione di interessi locali egoistici. E quindi il federalismo non è fonte di frammentazione, è esaltazione semmai di quelle diversità di cui parlava Vittadini nei giorni scorsi nella sua bella intervista sulla Stampa.
E infine è Stato Relazionale che si relaziona con la società e si pone al servizio sussidiario del libero gioco associativo di persone e di comunità. Esso vuole scatenare l’iniziativa sociale perché accettando l’antropologia positiva parte dall’idea che la persona è propensa a potenziare l’autonoma capacità dell’altro.
Allora “meno stato” non è minore stato ma è migliore stato. Perché è Stato Strategico, è Stato Federale, è Stato Relazionale.

Ed è proprio in questo percorso, ove si incrocia la sussidiarietà verticale con la sussidiarietà orizzontale, che si costituisce il presupposto finanziario e culturale per la nuova fiscalità, per la rivoluzione fiscale che Giulio Tremonti vuole da anni realizzare. Perché sono straordinariamente cambiati i modi di produrre, di organizzare, di distribuire la ricchezza. Perché, come ho dimostrato nel caso del servizio socio sanitario, ove si spende di meno si dà di più. Ma il processo di responsabilizzazione può dare ulteriori benefici anche in altri ambiti così come la sussidiarietà orizzontale porta a ridimensionare il perimetro delle strutture pubbliche e la conseguente spesa di funzionamento. Quindi presupposto finanziario ma anche presupposto culturale per una riforma fiscale che riduca la dimensione del prelievo e riconosca come priorità positiva la famiglia, il lavoro e le attività non profittevoli o filantropiche. La riforma fiscale è quindi il cuore dell’operazione “meno stato più società” perché è il fondamentale contenuto di un nuovo Patto Sociale fondato sull’antropologia positiva, sulla razionalizzazione della mano pubblica, sull’incentivazione delle attività relazionali.

Quindi “meno stato” ma dicevamo anche “più società”. Noi abbiamo usato il termine società attiva, l’abbiamo usato nel Libro Bianco nel quale abbiamo detto che la vita buona si costruisce solo nella società attiva. Noi abbiamo una grande tradizione alla quale possiamo fare appello. E’ la tradizione più antica, è la tradizione della fraternità, che non è stata certo concepita dalla rivoluzione francese ma ben prima da San Francesco. E nella nostra tradizione troviamo straordinarie esperienze e le troviamo non solo nelle opere di ispirazione cristiana ma anche nelle società di mutuo soccorso, nelle cooperative, nelle tantissime esperienze di volontariato. Noi dobbiamo riconoscere l’errore compiuto dopo il 1870 dallo stato unitario quando decise di nazionalizzare le opere pie, ritenendole strumento del nemico politico, perché si sono azzerati presidi della comunità che non sono poi stati sostituiti da altro.
Io credo che abbia ragione Cameron quando dice che ci sono le condizioni per un cambiamento culturale profondo, in base al quale le persone non si rivolgono sempre immediatamente allo stato e alle pubbliche amministrazioni, centrali o locali che siano, per cercare risposte ai propri bisogni, ma sono poste in condizione di essere libere e forti, di organizzare soluzioni per se stesse e per le comunità di appartenenza, libere e forti a sufficienza per tentare in primo luogo di associarsi realizzando risposte che abbiano una grande intensità umana, che abbiano un contenuto relazionale. Ebbene queste persone libere e forti vanno sempre più sostenute attraverso lo Stato Relazionale che stimoli il “più società”. La stessa tradizionale coppia inclusione/esclusione statuale deve essere sostituita da una nuova coppia, dal nuovo codice del relazionale/non relazionale.

Questa può essere una straordinaria operazione di trasferimento di potere dal centro a quelle periferie ove il potere stesso quando è pubblico è comunque più prossimo alla persona e come tale più salvaguardato dal rischio di autoreferenzialità. Ma anche “dal pubblico alla società” è una operazione straordinaria di trasferimento di potere e in quanto tale è una operazione altrettanto straordinaria di rafforzamento del popolo – e della democrazia attraverso la quale si esprime – rispetto a quelle élites tecnocratiche che, soprattutto nelle transizioni, pensano che sia giunto il loro momento, non per il bene comune ma per il loro bene particolare.
Credo quindi che questa grande occasione di redistribuzione di potere possa e debba essere praticata attraverso tre percorsi, in modo che l’individuo non sia isolato e inerme di fronte alla realtà di questi cambiamenti. Perché l’individuo isolato e inerme è l’ultimo esito del nichilismo, di quel nichilismo che in questo paese si è formato in modo particolare negli anni settanta, nei peggiori anni della nostra vita per quelli che come me li hanno vissuti. E’ questo individuo isolato e inerme che invece va accompagnato alle relazioni con gli altri.

Quali le tre vie per la società attiva?
In primo luogo la riorganizzazione del perimetro delle funzioni pubbliche ovviamente. Quella riorganizzazione che abbiamo avviato anche con la recente manovra cancellando enti, accorpandoli, rimettendo in discussione funzioni pubbliche, avviando una specie di concorso di bellezza per quanto riguarda proprio l’insieme delle pubbliche amministrazioni e delle loro società partecipate. Il saldo di tale riorganizzazione ovviamente deve essere negativo innanzitutto dal punto di vista quantitativo. Ma qual è il criterio ispiratore? Il criterio ispiratore è quello di un pubblico che attribuisce a sé la funzione di regolatore neutrale del bene comune – peraltro non chiuso in se stesso ma ascoltando le buone esperienze relazionali. Questo regolatore neutrale poi sa avvalersi di una pluralità di erogatori: del volontariato, dell’impresa sociale, della stessa impresa profittevole. Sa controllare adeguatamente, soprattutto ex post, le loro attività, e sa riconoscere il contenuto relazionale assegnando ad esso il valore economico che merita con indicatori adeguati nel momento in cui definisce le regole di appalto. Noi dobbiamo tendere a un regolatore rigoroso ed esigente per quanto riguarda il risultato del bene comune, impiegando più erogatori e controllandoli con molta efficienza. Il che significa sostenere più la domanda che non l’offerta e in questo modo la libertà di scelta.

La seconda linea di azione è quella della riorganizzazione delle relazioni industriali e del diritto del lavoro lungo le linee del Piano triennale che abbiamo recentemente presentato e in testa al quale abbiamo messo una bella espressione di uno di voi, di uno che il Meeting lo conosceva bene dalle prime edizioni, di Marco Martini. Egli disse che “la risorsa più nuova della società contemporanea non è costituita dalla terra o dalle fonti energetiche ma da uomini adeguatamente motivati a cercare liberamente di offrire risposte agli infiniti bisogni propri e degli altri sostenuti da una solida cultura del lavoro libero”. Per questo il Piano triennale del lavoro si preoccupa di rendere effettivi i tre diritti fondamentali del lavoro. Il diritto alla salute e alla sicurezza, il diritto alla giusta remunerazione del lavoro, il diritto alla conoscenza come premessa dell’occupabilità continua della persona. Ma non basta sostenere tali diritti attraverso strumenti sanzionatori. Noi che partiamo dall’antropologia positiva crediamo negli strumenti premiali, negli strumenti promozionali. Allora vedrete che in ciascuno dei sei punti in cui si articola il Piano triennale “liberare il lavoro per liberare i lavori”, c’è un forte contenuto sussidiario, soprattutto verso quegli straordinari attori della rappresentanza che sono le organizzazioni dei lavoratori e degli imprenditori, a partire da quelle che sanno in questo tempo mettersi in gioco, assumere responsabilità, guidare i loro rappresentati attraverso i cambiamenti. Ieri avete avuto qui l’intervento significativo di Raffaele Bonanni che è il leader del sindacato riformista, partecipativo e cooperativo, che bene ha espresso la vitalità delle parti sociali.
Il Piano dice “liberare il lavoro dall’oppressione fiscale, burocratica e formalistica” e a questo proposito vorrei ricordare la fiscalità di vantaggio per tutti gli accordi aziendali di produttività. Come a Pomigliano, ove a seguito del contestato accordo il lavoratore metalmeccanico di secondo livello riceverà tremila euro lordi in più all’anno che saranno sottoposti a una detassazione secca del 10%.
Dice ancora il Piano “liberare il lavoro dal conflitto collettivo e individuale” per cui ipotizza di deflazionare il contenzioso attraverso la conciliazione e l’arbitrato, quindi attraverso modi sussidiari.
Dice poi “liberare il lavoro dalla illegalità e dal pericolo” esaltando la funzione degli enti bilaterali, soprattutto per il controllo sociale dei mercati del lavoro particolarmente frammentati, pensate all’agricoltura, all’edilizia, allo stesso turismo. A mercati del lavoro nei quali si presentano intermediari pericolosi come quelli che riconduciamo al caporalato e che invece devono essere contrastati e sostituiti non solo dalle funzioni pubbliche ma anche dagli enti bilaterali promossi liberamente dalle parti sociali come intermediari positivi. O pensiamo a tutte quelle forme paritetiche per rendere effettiva la cultura della sicurezza e quindi rendere effettivo un ambiente di lavoro sicuro.
E ancora, “liberare il lavoro dal centralismo regolatorio” significa produrre Il nuovo Statuto dei lavori. Il disegno di legge ipotizza che una parte dell’attuale Statuto dei lavoratori, quella non inerente i diritti fondamentali che devono essere universalmente garantiti, possa e debba essere derogata e adattata dalle parti alle concrete condizioni delle aziende e dei territori. Il caso di Pomigliano è emblematico perché si tratta di un accordo nel segno del “meno stato più società”. Tradizionalmente la FIAT accettava, subiva, relazioni industriali onerose e improprie ma chiedeva incentivi pubblici, compensazione pubblica sotto vari profili. Oggi invece FIAT vuole realizzare un grande investimento in contro tendenza nel Mezzogiorno, riconoscendo che esso può essere piattaforma produttiva per un bacino di riferimento che dovrebbe essere l’intero Mediterraneo, vera e propria quarta economia emergente. E non cerca l’incentivo nel pubblico, cerca l’incentivo al grande investimento nella comunità dei lavoratori, nelle persone. E l’incentivo consiste nel garantire la piena utilizzazione di quegli impianti come nell’evitare forme di sabotaggio secondo il modello degli anni settanta, oggi ancora più anacronistiche di ieri.
Ove il Piano assume l’obiettivo di “liberare il lavoro dall’insicurezza” fa rinvio agli enti bilaterali per il sostegno al reddito o agli accordi aziendali per lo sviluppo di un welfare integrativo. Sono accordi ormai ricorrenti rivolti a rafforzare la formazione ricorrente, la sanità complementare o anche a introdurre sostegni ai percorsi di studio dei figli.
Infine “liberare il lavoro dall’incompetenza” significa riconoscere come in sussidiarietà nessuno più degli accordi tra parti possa indirizzare bene le politiche della formazione perché non si risolvano in mera festa dei formatori come abbiamo visto nell’esperienza che richiamava Borgomeo a proposito del Mezzogiorno.

La terza e ultima linea d’azione è quella della promozione del dono. Se c’è una cosa che sottolineiamo come utilità del Libro bianco – e mi ha fatto piacere che l’abbiate a vostra volta sottolineata – è di avere con esso restituito il principio di gratuità alla sfera pubblica rispetto alla propensione di molti a confinarlo nella sfera privata. Desideriamo quindi promuovere la cultura del dono quale componente fondamentale delle politiche pubbliche di inclusione sociale che affonda le sue radici nella tradizione italiana. C’è una bella espressione di Zamagni: “L’aiuto per via esclusivamente statale tende a produrre individui sì ben assistiti ma non rispettati nella loro dignità perchè non riesce ad evitare la trappola della dipendenza riprodotta”. Quindi noi abbiamo bisogno di pratiche estese di dono, di gratuità, di carità.

E io non mi preoccuperei di un dibattito che vedo ancora troppo novecentesco, se si tratti talora di conservatorismo compassionevole o meno: anche questo termine anglosassone è vecchio.
Certo sappiamo tutti che abbiamo bisogno di una combinazione del pubblico e del privato sociale per realizzare il bene comune, partendo sempre dal primato della persona, partendo sempre dal fatto il bene comune muove dal cuore degli uomini. Non c’è il pericolo che esaltare il dono significhi esaltare lo smantellamento dello stato sociale in un sistema così pesantemente pubblico. Deng Xiao Ping alla sua sinistra interna quando avviò il processo di liberalizzazione del comunismo in Cina, diceva: “C’è un tale tasso di comunismo che non vi preoccupate…”. Ma sappiamo anche che abbiamo bisogno di un dono che abbia una forte intensità umana, che abbia un forte contenuto relazionale. Noi dobbiamo dare valore soprattutto a quel dono che ha questa caratteristica, perché questa caratteristica spiazza qualsiasi concorrenza pubblica. Non c’è paragone tra una fredda erogazione monetaria top down nei confronti di una persona il cui bisogno è innanzitutto fondato sulla sua solitudine e la risposta che, per esempio, il Banco Alimentare sa dare. Sa dare attraverso non solo un pacco di pasta, che non è inviato per posta, ma che è portato da chi con esso realizza un incontro e lavora per alzare l’autonoma capacità dell’altro dimostrando che ci si può fidare della persona che bussa alla tua porta. Questo spiazza qualsiasi alternativa pubblica. Certo, io ho dedicato l’Anno europeo contro la povertà al dono. Qualcuno può dire, l’hai fatto perché sai che non puoi introdurre un sussidio pubblico generalizzato. E’ vero, è vero anche questo. Ma è vero che la crisi del debito sovrano non consentirà facilmente di allargare l’ambito dei cosiddetti diritti soggettivi, che significano spesa obbligatoria imponderabile in anni nei quali non sappiamo cosa succederà, non sappiamo quali difficoltà potremmo avere con la finanza pubblica. Ma questa necessità può e deve diventare virtù perché io non credo che la povertà sia soltanto individuabile, definibile, sulla base di una soglia reddituale. Sono convinto che la povertà si identifichi in termini di prossimità e non a distanza. Si identifichi attraverso la prossimità e si risolva attraverso la prossimità. Si libera la persona dal bisogno, dalla povertà, attraverso quella prossimità relazionale di cui prima parlavo ed è per questo allora che la stessa Social card è stata coscientemente una infrastruttura sperimentale, costruita inevitabilmente top down ma con l’obiettivo di una sua devoluzione agli attori prossimi alle persone bisognose, agli attori pubblici e agli attori sociali del territorio. Alimentando quella carta anche attraverso il dono meramente finanziario, la filantropia senza contenuto immediatamente relazionale. Anche in questi casi in realtà si stabilisce un ponte che può successivamente evolvere. E in ogni caso quel dono è lo strumento per lo sviluppo di reti relazionali.

La gratuità investe tutte le dimensioni della vita umana, compresa quella economica. Io credo che noi dovremo decidere, magari con questo Meeting che è la casa di grandissima parte del terzo settore, di cambiare definizione e di cancellare quel “terzo” che dà un’idea di residualità che nelle condizioni attuali non è più giustificata. Perché noi abbiamo bisogno invece di recuperare una pervasività, una centralità della cultura del dono e della gratuità. Certo occorrono anche atti responsabili dall’interno del mondo del dono, del volontariato: il recupero dell’idealità e soprattutto il superamento della mera rivendicazione verso lo stato che è espressione di dipendenza. Quando ho presentato l’Anno europeo contro la povertà a Milano collegandolo al dono e alla campagna Aiuta l’Italia che aiuta, qualcuno ha detto: “Sì, ma qual è l’aumento di spesa pubblica che ci vieni a portare? Ma è tutto qui? Tutta qui l’idea?”. Non è forse questo il tempo nel quale il razionamento della spesa pubblica può dare luogo alla maturazione ancor maggiore del volontariato? E quindi bisogna costruire efficienza gestionale e contrastare gli abusi. Occorre dunque nuova fiscalità e nuova regolazione. Il disegno di legge sulla riforma del Libro I del Codice civile sulla parte riguardante l’associazionismo, presentato da Alfano e dal sottoscritto, andrà presto all’esame del Parlamento. Stabilizzare il cinque per mille rinviando alla legge finanziaria la definizione delle risorse disponibili ogni anno nelle condizioni date. Ricordo che nel terribile tempo che abbiamo vissuto non abbiamo rinunciato al cinque per mille. Fatemi ancora ricordare che c’è stato tutto un mondo che quando Giulio Tremonti ebbe l’idea del cinque per mille, essendo stato lui l’ideatore anche dell’otto per mille, venne a dire che era uno strumento improprio e insufficiente perché non aveva fiducia nelle persone. Ma quegli stessi che allora lo contestavano sdegnosamente volendo qualcosa di più certo e immediato in termini di spesa pubblica, spesso sono ora i più attivi nel pretenderlo. Ammazzeremo il vitello grasso anche per costoro. Occorrono peraltro buone regole per il cinque per mille. Da quest’anno non si può usare il cinque per mille per fare pubblicità, bisogna che abbia una destinazione diretta ai beneficiari. Dobbiamo poi selezionare i soggetti che possono esserne destinatari.

Insomma io credo possibile questa rivoluzione nella tradizione. Questa rivoluzione nella tradizione è possibile non perché sono qui oggi a proporla io, perché sono semplicemente qui a constatare le favorevoli condizioni oggettive e soggettive. Io mi limito a vedere e per alcuni aspetti – mi auguro – a fare. Ci sono le condizioni, potremmo dire epocali, per uno spostamento di potere, le condizioni epocali per questa rivoluzione che affonda le sue radici nelle esperienze e nei principi della tradizione, che hanno resistito al tempo e che perciò si sono legittimati. Sono principi cristiani che non possono non essere accolti anche da chi non crede. Come diceva Benedetto Croce, “non possiamo non dirci cristiani”. Nel nome di quella laicità adulta che rifiuta il relativismo e muove dalla verità della tradizione. Che a ben vedere poi è anche rappresentata nella prima parte della Carta Costituzionale e quindi è una verità laica istituzionalmente accettata. Ma in questo tempo fatto di tanta confusione e ambizione – bellissima quell’espressione “narcinismo” – nel quale qualcuno ogni tanto fa capolino con una grande intervista e dice “sono pronto anch’io” senza che gli abbiamo mai visto battere il cuore; in questo tempo di pericoli ed opportunità può essere utile un “Manifesto per la vita e per la sussidiarietà”, un Manifesto per l’antropologia positiva. Perché decisori pubblici, privati, del privato sociale, rappresentanti delle parti sociali si iscrivano all’antropologia positiva e ne traggano tutte le conseguenze impegnandosi a comportamenti coerenti, a partire dal riconoscimento del valore della vita e dagli atti che lo sostanziano. Questo Manifesto noi oggi dobbiamo cercare di costruire affinché si dimostri che c’è nel paese una grande maggioranza nella società e nelle istituzioni. C’è in questo Parlamento una grande maggioranza che consente non solo l’adozione degli atti necessari a difendere il valore e la dignità della vita ma anche il prosieguo e la conclusione della legislatura sulla base di provvedimenti collegati alla visione “meno stato più società”. Basta con l’antropologia negativa, viva l’antropologia positiva! C’è in questo Parlamento, c’è nella società più in generale una grande maggioranza di persone, di uomini e donne liberi e forti che sono pronti ad assumersi le proprie responsabilità,che non chiedono al Leviatano di dipendere da esso. Io ho cercato tante citazioni per concludere e ne ho trovate tante profonde e autorevoli, ma quelle le conoscete tutte meglio di me perché riguardano il pensiero della Chiesa. Io ho voluto prendere da politico quella di un politico che non appartiene alla nostra tradizione e che disse un giorno una cosa che può sembrare banale ma è così vera. Era Winston Churchill. Disse che “si sopravvive con quello che si prende con il proprio lavoro ma si vive davvero grazie a quello che si dà”.

Lascia un commento

My Agile Privacy
Questo sito utilizza cookie tecnici e di profilazione. Cliccando su accetta si autorizzano tutti i cookie di profilazione. Cliccando su rifiuta o la X si rifiutano tutti i cookie di profilazione. Cliccando su personalizza è possibile selezionare quali cookie di profilazione attivare.
Attenzione: alcune funzionalità di questa pagina potrebbero essere bloccate a seguito delle tue scelte privacy