LA DIVISIONE ‘ACQUI’ A CEFALONIA E L’8 SETTEMBRE Le FFAA celebrano la data come un Mito ma i Documenti da loro posseduti lo smentiscono

Si avvicina settembre e con esso il giorno infausto dell’armistizio che causò non solo il crollo del nostro esercito ma anche una catena di fatti sanguinosi dovuti alla mala gestione del ‘tradimento’ dell’alleato tedesco che in modo peggiore non poteva essere concluso avendo lasciato le nostre truppe in Italia e soprattutto all’estero, alla mercè di quest’ultimo cui –nella fretta di scappare a Brindisi – Badoglio, la Corona e i generali vigliacchi e felloni del Comando Supremo ‘dimenticarono’ di dichiarare guerra ordinando contemporaneamente ai nostri reparti di combattere contro di lui che, però, in assenza di uno stato di guerra dichiarato, continuava ad essere pur sempre l’alleato di oltre tre anni di guerra.
Ciò, come è evidente, fece gridare giustamente al tradimento i tedeschi che scatenarono la loro rabbia proprio contro quegli appartenenti alle nostre FFAA i quali, obbedendo all’ordine di resistere contenuto nel testo del comunicato armistiziale, misero in atto una parvenza di resistenza che a nulla servì se non a procurare altre Vittime immolate sull’altare del cinismo ‘badogliano’ come avvenne per Cefalonia la cui resistenza fu -con ributtante cinismo- successivamente trasformata in un Mito sottacendo l’infame Ordine di Resistere -specificamente inviato alla div. Acqui- attribuendo la stessa ad una presunta SCELTA di resistere ai tedeschi manifestata addirittura attraverso un ‘referendum’(!) indetto tra i soldati proprio dal loro Comandante.
Per buona memoria riportiamo il testo di tale ordine inoltrato -attraverso il ponte Radio della Marina di Brindisi- a quella di Cefalonia: “N. 1029 CS (Comando Supremo, nda) Comunicate at generale Gandin che deve resistere con le armi at intimazione tedesca di disarmo a Cefalonia et Corfù et altre isole”.
Tale menzognero artificio servì ovviamente alle FFAA per assolvere il Comando Supremo dall’infamia di aver spinto alla distruzione la ‘Acqui’ attraverso un ordine ‘suicida’ perchè inviato nella consapevolezza di non poter mandare aiuto alcuno sostituendo ad esso una presunta volontà di combattere -ed eventualmente di morire (!)- attribuita all’INTERA divisione Acqui: di qui l’esaltazione sfrenata e spropositata dell’unanime desiderio delle nostre truppe di volersi opporre ai tedeschi e se necessario di immolarsi ‘consapevolmente’ come –con assenza di qualsiasi conoscenza dei fatti oltre che di logica- disse proprio l’ex presidente Ciampi a Cefalonia il 1 marzo 2001 divenendo da allora lo ‘STORICO’ di riferimento per tutti i sostenitori di tale fandonia reperibili, per lo più, nell’ambito della Sinistra storico-culturale per l’occasione alleata in un innaturale connubio con le FFAA sulle quali -tranne la vicenda in questione- è solita sputare veleno. Da questa ‘santa alleanza’ latita –come al solito- la Destra, la cui presenza in campo storico è priva di contenuti apprezzabili e, sul caso in questione, è praticamente inesistente.
Questa la premessa di quanto diremo ora sull’ incredibile manipolazione dei fatti avvenuti a Cefalonia la cui responsabilità è per intero da attribuire –e lo diciamo con l’animo colmo di tristezza- proprio alle FFAA che agevolarono l’opera di travisamento dei fatti malgrado ‘sapessero’ tutto fin dall’epoca in cui essi avvennero.
Nell’Archivio dell’Ufficio Storico dell’Esercito infatti è tornata a riveder la luce dopo mezzo secolo di ‘secretazione’ (leggasi ‘insabbiamento’) ordinata dall’alto, una “Relazione riservata sui fatti di Cefalonia” scritta nel novembre 1948 dal tenente colonnello Livio Picozzi, membro di una Missione italiana recatasi quell’anno a Cefalonia, dal 21 ottobre al 3 novembre, per ricostruire ‘in loco’ gli avvenimenti e per studiare la sistemazione dei resti dei caduti.
La Relazione fu trasmessa dal Capo dell’Ufficio Storico dell’epoca (generale Mondini) al Capo di Stato Maggiore dell’Esercito, generale Marras ed è stata pubblicata nel mio libro “La tragedia di Cefalonia. Una verità scomoda” (IBN ed. Roma 2004) stante l’esplosiva importanza del suo contenuto in cui si trovano spunti, considerazioni, ed osservazioni in netto contrasto con quello che oggi appare il pensiero ufficiale dell’Esercito sulla vicenda: di conseguenza il suo esame riveste un’ enorme importanza ai fini storici ed ai punti salienti di essa faremo riferimento in questa sede.
Nell’introduzione l’autore specifica che «nella ricerca di dati effettuata sul posto, nella visita estesa a quasi tutto il campo di battaglia, nei numerosi interrogatori di testimoni oculari e di autorità greche, nei confronti fra superstiti, sono emersi numerosi elementi che, senza modificare la sostanza delle cose, mettono i fatti di Cefalonia in una luce più completa».
Ciò premesso, al punto B, intitolato “All’atto dell’armistizio”, egli scrive: «Si giunge alle giornate dell’8-9 settembre. È già in atto una crisi disciplinare che si rivela attraverso un’accesa propaganda, dal nervosismo e da qualche atto di indisciplina che andrà a toccare la persona del Comandante stesso. Da questo momento inizia un drammatico contrasto fra il generale Gandin e una larga parte dei suoi dipendenti. La sua azione di comando è messa a dura prova e intralciata nei primi giorni da una pressione che viene dal basso, che assume in certi momenti un carattere sedizioso e che, pure essendo basata su un’imperfetta conoscenza della situazione, tende a forzargli la mano per fare iniziare, comunque, le operazioni a criterio degli elementi in sottordine.
«È un motivo del tutto ideale quello che spinge una forte parte delle truppe a voler combattere contro i tedeschi? Non sembra. Le testimonianze raccolte in proposito – vecchie e nuove – mettono in evidenza la stanchezza della guerra; la speranza del prossimo rimpatrio salutata con gioia anche se a un caro prezzo per la Nazione intera. I sentimenti affettivi e familiari prevalgono; soprattutto prevale la ferma intenzione di ritornare al più presto in Italia per non combattere né con l’una né con l’altra parte. Si era creata l’errata persuasione che l’Italia o gli anglo-americani mandassero delle navi ad imbarcare la Divisione Acqui. Perciò si assiste a uno strano fenomeno che si conclude con una disordinata e prevalente volontà di combattere avente per finalità la pronta liberazione dall’onere di dover combattere per chicchessia.
«In Cefalonia – prosegue la relazione – si viene a conoscenza (il 10 settembre) del telegramma che il generale Gandin ha ricevuto dal Comando della 11.a Armata, e che egli stesso comunica: cedere ai tedeschi le armi pesanti e le artiglierie. Questa circostanza spinge ad atti di ribellione vera e propria o di eccessiva iniziativa, atti destinati in seguito ad avere un forte peso, sia per avere accelerato il crearsi di una situazione male elaborata, sia perché tali da fornire ai tedeschi motivo di gravi rappresaglie».
Nel successivo punto C, dal titolo “I vari stati d’animo” – opinioni e atteggiamenti, Picozzi scrive che, dagli interrogatori effettuati a Cefalonia nell’ottobre 1948 emerge che «il capitano di artiglieria Apollonio Renzo, triestino, comandante di una batteria del 33° Reggimento, dislocato presso il ponte di Argostoli, fu uno degli animatori della “sedizione” del primo tempo. Subito dopo l’annuncio dell’armistizio, mentre il Comando della Divisione stava trattando con quello tedesco per addivenire a una chiarificazione, egli attaccò con i propri pezzi tre zatteroni tedeschi che da Lixuri trasportavano ad Argostoli alcuni pezzi di artiglieria; tali zatteroni vennero affondati e si ebbero vari morti nemici. Quasi contemporaneamente, egli diresse l’attacco in Argostoli contro un fabbricato, in cui esisteva un Comando del Genio tedesco; vi fu ucciso un ufficiale tedesco. È noto che fece anche opera non tanto di propaganda, quanto sobillatrice fra le truppe, per forzare la mano al Comando della Divisione. Non risulta che il generale Gandin abbia preso provvedimenti contro tale ufficiale; né che le truppe tedesche lo abbiano arrestato insieme a tutti gli altri ufficiali italiani.
Subito dopo la resa, l’Apollonio sparì. Non fu tra gli ufficiali arrestati. Venne visto, vestito da soldato, guidare autocarri per i tedeschi, mentre quasi tutti i suoi artiglieri erano caduti. Si constata poi il fatto che il Comando tedesco si servì di tale ufficiale in varie circostanze; 10-15 giorni dopo la resa avvenuta il 22 settembre 1943 a Keramies, l’Apollonio ricomparve insieme ai tedeschi. Egli si recò in tale località nel villino Vallianos, dove la resa aveva avuto luogo e (secondo le affermazioni di certo Spiros Vallianos, custode della villa e che aveva assistito alla resa stessa) si adoperò per ricercare alcuni documenti che sperava che il generale Gandin non avesse distrutto e che voleva consegnare al Comando tedesco. Processato dai tedeschi – in un secondo tempo – per l’uccisione dell’ufficiale del Genio, sarebbe stato prontamente assolto in seguito ad alcune testimonianze a lui favorevoli; è certo che dopo pochi giorni egli sedeva alla mensa degli ufficiali tedeschi, in perfetta armonia. Il Comando tedesco dette successivamente al capitano Apollonio il comando di una Compagnia lavoratori-prigionieri italiani, e la riorganizzazione di una batteria italiana; risulta infine da testimonianze come egli fosse stato inviato in missione dal Comando tedesco ad Atene e a Belgrado, allo scopo di effettuare colà ricerche e rifornimenti di materiali. Durante tutto il periodo dell’occupazione tedesca dell’isola, l’Apollonio tenne, all’insaputa del Comando tedesco e in modo assai abile, contatti con l’E.A.M. [formazioni partigiane greche di tendenza comunista; ndr] dell’isola, tanto è vero che appena le truppe tedesche ebbero sgomberato l’isola stessa, egli passò immediatamente a prestare servizio con le forze partigiane, dimostrando prezioso attaccamento alla nuova terza causa [comunistizzazione della Grecia, perseguita dall’Elas; ndr].
«Non è azzardato affermare – prosegue il rapporto del tenente colonnello Picozzi – che se il generale Gandin avesse subito adottato le più severe misure nei confronti del capitano Apollonio per le sue errate iniziative individuali, per gli atti da lui compiuti, mentre si svolgevano le trattative con i tedeschi, e per la azione sobillatrice da lui condotta, avrebbero potuto essere evitate non poche delle tragiche conseguenze.
Non si hanno elementi per stabilire a cosa sia dovuta questa mancata energica azione.
Probabilmente essa fu imposta dalla convinzione che poco vi era da fare di fronte allo stato di confusione e allo sfaldamento morale che già l’8 settembre si diffondevano quasi dovunque con crescente intensità».
Al punto F, intitolato “Contegno dei tedeschi e degli italiani”, dopo aver definito quello dei primi «inqualificabile per la mancata osservanza delle leggi dell’onore militare e di ogni civile convenzione» Picozzi aggiunge: «Non giustificabile, quindi, il contegno dei tedeschi: spiegabile tuttavia in parte, se ci si sforza di trovare un motivo, tenendo conto della loro mentalità e del risentimento per gli atti “proditori” che essi imputavano agli italiani. Infatti, l’aver colpito natanti dei tedeschi e l’avere ucciso un loro ufficiale, in sede di trattative, furono gesti che per primi provocarono quel risentimento».
In sede di conclusioni, il relatore si pone la domanda «Che cosa conviene fare?», formulando alcuni suggerimenti cui gli organi militari responsabili si sono attenuti fino a oggi, a totale scapito della verità.
Ecco, di seguito, il testo:
«1) Lasciare che il sacrificio della Divisione “Acqui”, sia sempre circonfuso da una luce di gloria. Molti, per fortuna sono gli episodi di valore, sia pure più individuali che collettivi. Sembra opportuno che siano messi in sempre maggior luce. Insistere sul movente ideale che spinse i migliori alla lotta. Non insistere sulla disparità di vedute, sulla crisi iniziale, sugli atti di indisciplina con i quali fu messo a dura prova il comando.
2) Non modificare la “storia” già fatta, non perseguire i responsabili di erronee iniziative, anche se dovessero sopraggiungere nuove emergenze, e ciò per non incorrere nel rischio che il “processo” a qualche singolo, diventi il processo di Cefalonia.
3) Spogliare la tragedia dal suo carattere “compassionevole”. Fare dei morti di Cefalonia, altrettanti “caduti in guerra”: non presentarli quindi come poveri uccisi. Questo vogliono il rispetto a essi dovuto, il riguardo alla sensibilità di migliaia di famiglie, e l’opportunità di secondare il “mito” di gloria che si è già formato intorno a questa vicenda, in una larga parte della pubblica opinione».
I suggerimenti del Relatore –degni di essere riportati in un manuale del ‘perfetto insabbiatore’- non restarono tali ma divennero vangelo per i vertici delle FFAA dell’epoca che si affrettarono ad accoglierli ‘insabbiando’ con la Relazione anche quanto essa aveva rilevato sugli aspetti più sconcertanti della vicenda, contribuendo con ciò -in modo decisivo- alla creazione di un inesistente Mito -come ho provato nel mio libro “I CADUTI DI CEFALONIA: FINE DI UN MITO” IBN ed. Roma 2006- di cui ancora oggi, malgrado sia stata provata con Documenti posseduti addirittura dalle stesse FFAA (e questo è il colmo!) l’inesistenza dell’immane eccidio o sterminio -variante da 4.000 a 10.000 morti (!!)- posto a base di esso, si vuole continuare a perpetuare l’esistenza in un singolare e innaturale connubio tra Forze Armate e Sinistra storico-culturale da sempre ostile alle prime ma ora, per motivi di convenienza ideologica, loro alleata in difesa delle menzogne e contro la verità.
Al termine di queste note una domanda cui lo scrivente –orfano del magg. Federico Filippini fucilato a Cefalonia dai tedeschi- ha già risposto da un pezzo in maniera più che NEGATIVA.
La ripropongo ora:
“ Che senso ha oggi commemorare l’8 settembre come giorno della ‘Rinascita della Patria fondata proprio sulla vicenda di Cefalonia ?”.
Non aggiungo altro: credo che basti.

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