Il “ghe pensi mi” sia assunzione di responsabilità 

di Italo Bocchino

Il “ghe pensi mi” di Berlusconi non ci preoccupa, anzi, ci conforta. Il presidente del Consiglio è uomo del fare e se ha deciso di passare dal “tutto va bene madama la marchesa” al “ghe pensi mi” significa che ha capito che ci troviamo a un bivio in cui serve un’assunzione di responsabilità da parte sua.
Sul tavolo ci sono molteplici problemi, dai rapporti con Napolitano e Fini ai casi Brancher, intercettazioni e manovra. Cominciamo dalla questione Brancher, per la quale non serve ripetere quanto abbiamo già detto. Per noi la vicenda deve chiudersi lunedì prossimo quando è prevista la prossima udienza del processo che lo vede imputato. O Brancher rinuncia formalmente al legittimo impedimento e si presenta dinanzi al suo giudice naturale o si dimette. Se va in tribunale nessuno può contestargli di restare ministro e il problema si porrà eventualmente in caso di condanna. Se invece usa il posto di ministro per sfuggire dal processo le dimissioni diventano necessarie. Su questo aspetto il “ghe pensi mi” ci conforta perché Berlusconi conosce bene il danno che questa vicenda gli sta procurando e se scende in campo lui siamo certi che lunedì Brancher andrà dal giudice o in caso contrario il premier gli consiglierà di dimettersi.
Passiamo alle intercettazioni. Berlusconi sa bene che la legge serve a evitare gli abusi e soprattutto la gogna mediatica dovuta all’eccesso di pubblicazione di testi non attinenti alle indagini e senza rilievo penale, ma sa anche che chi ha lavorato sul dossier gli ha combinato un pasticcio, dando vita a un testo che ha scarsissime possibilità di passare il vaglio del Quirinale e quasi nessuna possibilità di superare lo scoglio della Corte Costituzionale. Anche in questo caso il “ghe pensi mi” brianzolo di Berlusconi ci rende ottimisti, perché confidiamo sulla ricerca responsabile di una soluzione che salvi la legge e la renda accettabile non tanto al Quirinale e a Fini quanto a quei settori dell’elettorato di centrodestra che non la capiscono.
Infine la manovra. E’ certo che servono sacrifici, ma è altrettanto certo che questi rischiano di scaricarsi solo sul blocco sociale di riferimento elettorale del Pdl senza toccare gli interessi della Lega. E questo il Berlusconi che si è auto-investito del ruolo risolutore lo sa bene e non può accettarlo. Anche su questo siamo fiduciosi.
Se il premier scende in campo personalmente, poi, non può che trovare una forma di convivenza con Napolitano e con Fini. A Costituzione invariata non si può governare contro il Presidente della Repubblica, così come non si può governare in contrasto con il presidente della Camera che è anche il cofondatore del Pdl e può contare su pattuglie determinanti alla Camera e al Senato. Serve quindi una soluzione e se Berlusconi se ne occupa in prima persona è più semplice che attraverso ambasciatori vari.
Per concludere non possiamo nascondere che siamo a un bivio della vita del Pdl. I giornali riportano uno stato d’animo di Berlusconi che risponde alla pancia più che alla ragione, così come possono rispondere alla pancia alcune posizioni di Fini o di uomini a lui vicini. La politica è passione e sacrificio e spesso fa anche emergere la pancia rispetto alla ragione, la politica – come ci ha insegnato Rino Formica – è “sangue e merda” e ci si può anche trovare in situazioni conflittuali complesse, dalle quale comunque si ha il dovere di uscire per rispetto verso i propri elettori e verso il Paese.
A questo punto serve una via d’uscita perché è evidente che così non si può andare avanti. Fabrizio Cicchitto ieri ha ribadito questo concetto dicendo che il bivio indica da un lato la strada della pace e dall’altro quello della separazione consensuale, volendo escludere la traumatica terza via di una “guerra dei roses” che farebbe danni a tutti, a partire dall’Italia. Premesso che tutti vogliamo evitare una conflittualità permanente che non serve a nessuno, bisogna intendersi su che cos’è la pace e che cos’è la separazione consensuale. Se per qualcuno la pace è il “mettiti a cuccia” o il “rientra nei ranghi” che è stato più volte offerto a Fini diciamo subito che “non c’è trippa per gatti”. Se invece la pace è una coabitazione normata in cui è chiara la leadership di Berlusconi ma è altrettanto chiaro il ruolo politico di Fini si può discutere, ovviamente passando per una democratica fase congressuale con organismi interni di garanzia a tutela del pluralismo e del rispetto della minoranza interna. Il congresso ovviamente non dovrebbe essere soltanto un passaggio formale, ma una vera assise che ridisegni il Pdl caratterizzandolo come il Partito della Nazione e il Partito della Legalità, temi sui quali non possiamo indietreggiare neanche di un millimetro.
Se ciò non fosse possibile e se si vuole evitare la “guerra dei roses” c’è poi la formula della separazione consensuale. Su questo c’è un equivoco di fondo che va chiarito in fretta. Se qualcuno pensa che la separazione consensuale significa che Fini e gli uomini a lui vicini lasciano il Pdl per costituire gruppi autonomi e un’altro soggetto politico alleato sbaglia di grosso. Il Pdl è frutto di un lungo percorso, l’abbiamo immaginato prima di altri, l’abbiamo costruito con sacrificio e vi abbiamo conferito la leadership di Fini e i voti che questa per oltre vent’anni ha garantito prima al Msi e poi ad Alleanza Nazionale.
La separazione consensuale sarebbe più complessa di come appare perchè dovrebbe passare per la certificazione del fallimento del Pdl da parte dei fondatori Berlusconi e Fini e per la trasformazione dell’attuale partito in un cartello elettorale o in una federazione, costruendo poi a valle più soggetti politici che operano divisi per colpire uniti elettoralmente. Questa sarebbe vera separazione consensuale e non quella a cui qualcuno pensa, che sarebbe invece un’espulsione con obbligo di continuare ad apportare acqua al mulino berlusconiano.
Detto questo è evidente che l’unica soluzione in grado di non mettere a rischio Pdl, maggioranza e governo resta la coabitazione normata e confidiamo che il “ghe pensi mi” non sia un atto di politica muscolare, ma l’assunzione di responsabilità di un leader che ha il dovere di preservare il patrimonio costruito assieme e non di contribuire a liquidarlo.

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