Rettori e ‘baroni’

di Chiara Scattone

Qualche settimana fa, sui quotidiani nazionali sono state riportate le dichiarazioni del rettore dell’Università ‘La Sapienza’ di Roma, prof. Frati, il quale denunciava la sostanziale incompetenza dei ricercatori italiani, incapaci di produrre ricerca, di pubblicare articoli scientifici e, nei fatti, di compiere quella ricerca per la quale sono pagati dallo Stato. La denuncia è stata forte e ha causato un dibattito piuttosto animato tra professori e ricercatori universitari, dottorandi, dottori di ricerca, assegnisti di ricerca e semplici cultori della materia. Tra la confusione dei dati estrapolati dalle inchieste, dalle interviste e dalle valutazioni compiute dalle varie società statistiche, sembrerebbe effettivamente che la nostra ricerca sia piuttosto indietro rispetto a quella ‘prodotta’ dagli altri Paesi, europei e non. E non solo: apparirebbe chiaro che le nostre università siano incapaci di ‘produrre’ risultati competitivi con il resto del mondo, nonché totalmente richiuse al proprio interno, senza spirito di apertura verso l’esterno e l’estero. E se alcune spiccano per la loro ‘emancipazione’ e buona organizzazione, come Trento, il Politecnico e Bologna, la maggior parte rappresenta l’ultima ruota del carro accademico. A parte tutti questi discorsi e le statistiche, esistono alcuni dati essenziali che non sono quantificabili con elaborazioni informatiche, perché la loro natura non è meccanica o di tipo numerico o quantistico: uno dei fenomeni più preoccupanti è certamente quello dei ‘baroni’. Non smetteremo mai di dirlo: l’università italiana si basa su un processo di clientelismo globale che pregna tutti i soggetti che vi lavorano o che vi gravitano attorno, dall’impiegato amministrativo alla società cooperativa che svolge le pulizie, dal cultore della materia al ricercatore, dall’assegnista di ricerca al professore associato, dal professore ordinario su su fino al vertice della piramide: il preside e il rettore. Sono tutti coinvolti: chi con più dedizione, chi meno, chi con più fortuna e chi con minor capacità di persuasione. Il fenomeno è ben noto a chiunque e non ha avuto origine negli ultimi anni. Al contrario, la sua nascita è probabilmente legata alla stessa fondazione degli istituti universitari e dell’essere umano italico. La corruzione, il clientelismo, l’opportunismo sono elementi insiti nella natura dell’uomo italiano. E così, sono cambiati i tempi ma non le modalità, per cui se negli anni Sessanta e Settanta esisteva l’ambito ruolo di ‘assistente autopagato’, ovvero era lo stesso candidato che versava all’università all’inizio dell’incarico il proprio stipendio di un anno per poi riceverlo dall’istituto in rate mensili, oggi esistono diverse ambitissime figure di ‘ricercatori’ che operano pressoché gratuitamente nelle accademie italiane, come ad esempio il cultore della materia (il c.d. assistente del professore), ruolo totalmente volontario, privo di alcun rimborso spese, o il dottorando (colui che ha vinto il concorso di dottorato di ricerca e sta svolgendo i suoi canonici anni di ricerca) il più delle volte gratuito, poiché i posti con le borse di studio sono pochi e il più delle volte ‘riservati’ a persone ben determinate ante concorso dagli stessi professori, membri della commissione esaminatrice. Esiste poi la figura del dottore di ricerca, colui che ha sostenuto l’esame finale del dottorato e ha terminato il suo periodo di ricerca e permane in ambito accademico al seguito di un professore nella speranza di ottenere una borsa di studio di ricerca o di vincere uno dei concorsi annuali di ‘professore a contratto’. Quest’ultima posizione generalmente viene assegnata, sempre tramite concorso pubblico, a ricercatori già strutturati all’interno dell’istituto universitario, garantendo così l’espletazione della funzione di professore, ma a tempo determinato e con un guadagno annuale che si avvicina più a un rimborso spese o poco meno. L’università italiana è piena di figure ‘ambigue’, di giovani e meno giovani ‘ricercatori’ che con le unghie lavora, scrive e cerca di fare ricerca, anche se il più delle volte si trova davanti a un ‘muro di gomma’ insormontabile. La pubblicazione di opere e lavori scientifici, tanto decantata dal rettore Frati, è questione complessa, che non dipende esclusivamente dalle capacità dei singoli individui o dall’attitudine al lavoro, bensì dalla volontà del proprio dominus, che è il vero manovratore della ricerca italiana. Si pubblica solo con una sponsorizzazione, così come si vince un concorso pubblico. Quante volte i concorsi da ricercatori o da professori associati sono stati banditi ad hoc per uno specifico candidato? Quanti sono stati coloro che sono stati ‘bocciati’ ai concorsi in cui erano gli unici candidati, per vizi di forma o altro, appositamente ‘inventati’ per impedire l’accesso a chi non era ‘gradito’ da alcuni professori? Le casistiche sono infinite e tutte reali. Il rettore Frati, inoltre, prima di denunciare i ricercatori fannulloni avrebbe molto su cui riflettere. La ricerca italiana è scarsa, poiché priva delle risorse economiche necessarie che invece di crescere vengono costantemente falcidiate da ogni nuova legge finanziaria o dagli interventi di un ministero che ha perso la sua qualità di essere ‘pubblico’, per diventare ‘amico del privato’ (basti solamente guardare a quante sono state le università private spuntate come funghi in questi ultimi anni, grazie ai finanziamenti stanziati con i fondi pubblici). Una ricerca universitaria per lo più incapace di essere competitiva con il resto del mondo (anche se, per fortuna, esistono moltissime eccellenze), perché gestita da un sistema clientelare che la svilisce e la abbrutisce, così come mortifica il lavoro di tantissimi ‘ricercatori’ che ogni giorno combattono con le sole armi del loro intelletto e della dedizione, affinché le nuove generazioni siano preparate e pronte ad affrontare le difficoltà della vita lavorativa e intellettuale. Sono loro cui dovrebbe pensare il rettore Frati prima di lanciare veleno contro tutta una classe di lavoratori che svolge anche le attività di quei professori universitari che, invece di fare lezione, preferiscono la libera professione e l’assenteismo dal posto di lavoro. Sono i ‘ricercatori’ di oggi il motore e la forza dell’università italiana. E dovrebbe essere a loro che il Governo e il ministero dovrebbero rivolgersi prima di sancire l’ennesimo taglio alla ricerca e al futuro del nostro Paese.

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