Il paradossale caso Nardini

Scritto da Katia Anedda

Fin dalla sua nascita, l’intento dell’associazione “Prigionieri del silenzio” e del suo presidente, Katia Anedda, è stato quello di dare sostegno agli italiani detenuti all’estero, e alle loro famiglie. sappiamo, infatti che non sempre le condizioni di coloro che sono costretti a scontare una pena carceraria, a volte anche ingiusta, lontano dalla propria patria, sono delle migliori. E a confermarlo, sono le varie testimonianze dirette, quelle appunto dei carcerati che spesso si vedono negati alcuni dei fondamentali diritti dell’uomo, e indirette, quelle delle famiglie che molte volte non hanno nemmeno la possibilità di essere in contatto con i propri cari.

Secondo le stime della Farnesina, nel 2009 il numero degli italiani detenuti nei paese stranieri ammontava a 2852. In Paesi come l’Asia, l’Oceania e l’Antartide si contano fino a 53 detenuti italiani. Sappiamo bene come la legge in questi Paesi orientali sia completamente differente da quella italiana. E lo sanno bene anche tutti i nostri connazionali che, giustamente o ingiustamente, sono costretti a subirla. È il caso di Ferdinando Nardini, condannato all’ergastolo in Thailandia, Paese del sud asiatico.

Ferdinando Nardini nasce a Roma nel 1954, figlio di un agente di polizia di Stato, Nestore Nardini, e di una casalinga, Diana, cresce a Velletri, assieme alla sua famiglia. I suoi studi come perito elettronico gli permettono di trovare un posto di lavoro nell’azienda della Galbani. Dopo un primo matrimonio finito male, convola a nozze con una cittadina thailandese. Dalla relazione tra i due nascerà un figlio, Lorenzo Nardini. Dopo qualche anno, causa anche un riassetto dell’azienda per la quale lavorava, il Nardini decide di dare una svolta alla sua vita: lascia l’Italia e si trasferisce in Thailandia. Con i risparmi di una vita decide di aprire un’attività ricettiva turistica a Patthaya, che servirà anche a dare una possibilità futura al figlio. Nel frattempo anche il suo secondo matrimonio arriva al capolinea, anche se Nardini rimarrà in buoni rapporti con la sua seconda moglie. Quest’ultima successivamente instaurerà una relazione con un cittadino tedesco, relazione poco duratura. Il rapporto fra i due, inclinato da beghe per interessi economici, finisce con l’omicidio dell’uomo, il cui assassino rimane ignoto. La polizia thailandese accusa e arresta la moglie di Nardini. Egli, ancora legalmente legato in matrimonio alla donna, si precipita in suo aiuto. Più tardi verrà accusato di complicità nel delitto e sarà costretto a firmare, con metodi poco ortodossi, una dichiarazione di colpevolezza fasulla, che in seguito verrà smentita dallo stesso Nardini.

Dopo varie controversie giudiziarie, il nostro concittadino subisce un processo, una vera farsa in quanto molti suoi diritti sono stati violati. Ancora oggi ci sono molte perplessità sullo svolgimento del processo ai danni del Nardini, conclusosi con una condanna all’ergastolo.

Katia Anedda, presidente di “Prigionieri del Silenzio”, ha incontrato il dott. Paolo Battaglino, corrispondente consolare per la zona di competenza di Patthaya, dove, ricordiamo, è detenuto il nostro connazionale, Ferdinando Nardini. Aiutata da lui, ha voluto capire in quale situazione si trova il Nardini, quali siano i possibili sviluppi del caso, e soprattutto cosa si potrebbe ancora fare per poter dare un sostegno, non solo a livello umano, ma giudiziario, al nostro connazionale costretto a scontare la sua pena ingiusta lontano dalla sua casa e dalla sua famiglia.

Il dott. Battaglino, spiegando in cosa consista il suo lavoro in ambasciata, ha sottolineato come la sua posizione preveda una relazione diretta con l’ambasciata stessa e che qualsiasi sua azione deve necessariamente essere concordata con essa e con il ministero degli Affari Esteri.

In nessun caso egli può decidere di agire in completa autonomia, in quanto ricopre la carica di console onorario. Per i lettori meno informati chiariamo la differenza tra un console di carriera e un console onorario: il primo ha poteri e mansioni attribuitegli dall’ambasciata, ma può in alcuni casi agire in autonomia, mentre il secondo è completamente dipendente dall’ambasciata.

Il dott. Battaglino ci informa inoltre che in Thailandia ci sono 4 rappresentanti del nostro governo, precisando che spesso non è il numero dei rappresentanti il fattore che rassicura se una zona è correttamente rappresentata, ma maggiore importanza è rivestita dalla volontà e dalla capacità di organizzazione della rappresentanza stessa.

Qualche tempo fa, grazie all’interesse del rappresentante consolare è stata convocata un’assemblea della comunità italiana, al fine di poter raggiungere un elevata sensibilizzazione alla problematica situazione in cui si trova il nostro connazionale, con la speranza di avere dei risultati positivi per migliorare le sue condizioni soprattutto processuali.

“Le maggiori difficoltà per un detenuto – spiega il dott. Battaglino – “è che non ha le libertà che hanno i normali detenuti nelle carceri italiane. In Paesi come la Thailandia, il modo di concepire la giustizia è ancora molto retrogrado. Difatti molti diritti umani vengono meno: un esempio è la difficoltà ad avere, nel caso del Nardini, un sostegno religioso (difficile infatti far avere dei permessi per le visite ad un prete cattolico). Inoltre, una delle più grosse difficoltà per i detenuti italiani in questi Paesi è che le visite mediche, sono spesso del tutto assenti. Capita spesso, come nel caso del Nardini, che per ingenuità o per mancanza di mezzi, ci si affidi a persone sbagliate, poco competenti. I consolati e le ambasciate, che negli ultimi anni versano anche loro in condizioni di crisi economica, sono costrette a gestire tutto, nonostante le ristrettezze economiche. La condizione dei detenuti non e’ sempre prioritaria. I detenuti all’estero, investiti anche loro da questa crisi economica che tutto travolge sul suo cammino, vengono abbandonati a loro stessi”.

“Prigionieri del Silenzio” però continua la sua lotta affinché questi uomini possano avere giustizia. Nel caso Nardini già è stato appurato, e confermato ulteriormente dal dott. Battaglino, che il nostro connazionale non è stato ben rappresentato, sappiamo che molti dei suoi diritti non gli sono stati rispettati, e che sono tante le convenzioni che, durante l’interrogatorio e il processo, sono state violate, tra cui quella di New York del ’59, per cui Nardini avrebbe dovuto avere il diritto di essere rappresentato da un avvocato al momento dell’interrogatorio e alla presenza di un interprete giurato.

Inoltre c’è da sottolineare che il nostro Ministero degli Esteri mai ha chiesto chiarezza sul caso Nardini e sulle motivazioni che hanno spinto la Thailandia, firmataria della Convenzione di New York, a venir meno a tale convenzione con una violazione ai danni del nostro connazionale.

“Prigionieri del silenzio” richiede dunque un intervento forte da parte del Governo Italiano soprattutto su questo punto, del caso, di porre la semplice richiesta di chiarezza proprio sul perche’ sia stata violata la convenzione di New York, perché, come ha giustamente affermato il dott. Battaglino “e’ fondamentale che il sistema giudiziario che deve giudicare un nostro connazionale sappia che non sta giudicando una persona abbandonata a se stessa, e che il nostro Governo e’ vigile su eventuali violazioni”. Solo in questo modo si potrà ottenere un procedimento legale il più possibile equo e giusto.

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