La nuova diplomazia italiana: “Ambasciate al verde”

Ve l’avevano detto che gli ambasciatori rimetteranno nell’armadio tight e feluca per assumere il più dinamico blazer degli uomini d’affari? Beh, è così, succederà. Non lo dico io per sfottere, ma è lo stesso Frattini che non si stanca di ripeterlo. Naturalmente citando il Grande Carovaniere – Berlusconi dico dopo le assidue frequentazioni libiche – che fin dal lontano 2002, con il fumo che usciva dalle narici proclamava: “Non voglio più vedere diplomatici con il tight che fanno pranzi e cene, voglio vedere manager che promuovono il marchio dell’Italia nel mondo”. Passi per il caduceo, il bastone fatto di serpentelli intrecciati, antico simbolo degli ambasciatori che, come una volta si diceva, “non portavano pena”. Qui, però, sono messi in discussione anche i più consolidati abiti da cerimonia degli ambasciatori che invece le pene le debbono sbrogliare ogni giorno in dialogo con diplomatici e uomini di governo stranieri.
Debbo confessare che, non essendo un amante di cerimonie e di ogni sorta di messe in scena, istintivamente, una volta tanto, mi verrebbe di dire: “bravo, bene, spogliamo gli ambasciatori”. Ma, pensandoci bene, poiché quando nella tenda del Grande Carovaniere, dove le feste sono frequenti e variamente partecipate, ci si incomincia a spogliare si sa dove s’inizia e non si sa dove si arriva, me ne astengo, mi fermo prudentemente prima della soglia.
Tornando a noi, che l’Italia abbia bisogno di intensificare la sua proiezione nel mondo e le politiche di internazionalizzazione non ci piove. Anche per evitare che le misure di contenimento finanziario e le pesanti manovre in corso d’opera restringano i confini dell’Italia e ci consegnino tra qualche anno un Paese più piccolo e più isolato. E per evitare questo rischio non giova evidentemente il facile propagandismo, come quello in cui cade lo stesso Frattini quando dice che il recente miglioramento dell’export del Made in Italy dipenda dalla promozione che l’Italia sta facendo dei suoi interessi. Sappiamo tutti, invece, che solo l’indebolimento dell’euro ha migliorato l’acquisto dei nostri prodotti sul mercato internazionale.
Il problema, dunque, non è che gli ambasciatori e, con loro, tutto il personale diplomatico-consolare dislocato nelle varie postazioni internazionali diano o meno una mano nella promozione, anche commerciale, dell’immagine dell’Italia nel mondo. Se succede, ben venga. Piuttosto si tratta di capire come fare e quali risorse utilizzare per farlo succedere. E qui arrivano i mali di pancia. Perché la contrazione degli investimenti relativi alle politiche migratorie e alla promozione dell’Italia nel mondo che il governo di centrodestra sta adottando vanno in direzione precisamente opposta agli obiettivi che si proclamano. E non parlo solo delle sciagure che in questi due anni di legislatura abbiamo visto passare sotto gli occhi per quanto riguarda la lingua e la cultura, l’informazione, l’assistenza e la previdenza dei connazionali all’estero, le politiche verso i giovani e via dicendo. Parlo anche, anzi soprattutto, di quello che deve ancora accadere, visto che alla recente manovra finanziaria del Ministro Tremanti il Ministero degli Esteri deve partecipare con una contrazione di 43 miliardi per ciascuno dei tre anni futuri. E sapete in quale settore i tagli devono essere fatti? Nelle attività di promozione dell’Italia in Europa e nel mondo, tra le quali ci sono anche le politiche migratorie. Insomma, tanto per non perdere le cattive abitudini. E se il buon giorno si vede dal mattino, ad esempio dalla razionalizzazione dei consolati, sappiamo già dove si va a parare. A Firenze direbbero. “O bello, tu mi hai preso per un grullo?” (TRADURRE, SE POSSIBILE, IN UN’ESPRESSIONE GERGALE FIORENTINA). Insomma, siamo alle solite: le nozze con i fichi secchi. Anzi, restando in ambito internazionale, le nozze con le noccioline americane.
Eppure il nuovo corso della politica diplomatica italiana e la riforma del MAE, che passa da 13 direzioni generali ad 8 e che trasforma la precedente impostazione territoriale in approccio tematico, vengono presentati con una montagna di belle parole, come se la diplomazia italiana fosse in procinto di lanciare una irresistibile cavalcata sulle praterie della politica internazionale. Vecchi giochi, ammantati di novità e di progressismo. Ma se uno ha la pazienza di cercare, nella montagna di belle parole riesce sempre a trovarne una giusta che può aiutare veramente a capire. Io ho cercato e l’ho trovata. Verde. Sì, verde. Frattini, infatti, tra i nuovi progetti che annuncia, mette anche quello dell’”Ambasciata verde”, fatta di uffici che fanno i conti con la sostenibilità ambientale. A me pare che l’esigenza della sostenibilità ambientale a forza di tagliare risorse sarà soddisfatta tra poco per consunzione, o meglio per manco di oggetto. Il che mi fa credere che il piano Frattini sulla nuova diplomazia rischi di restare impigliato in una preposizione: “al”. Non “Ambasciata verde”, dunque, ma “Ambasciata al verde”. Il vero progetto Frattini è dunque questo.
Sicché, è bene dirlo subito agli ambasciatori: dopo avere dismesso tight e feluche è opportuno che continuino a spogliarsi, abbandonando anche il blazer del manager e assumendo le più modeste ma realistiche vesti del piazzista. Se vogliono veramente “piazzare” gli interessi dell’Italia nel mondo prendano spunto dall’esperienza degli emigrati italiani, che si sono dovuti adattare a mille lavori e a mille commerci prima di integrarsi e affermarsi. Abbiamo tutti negli occhi le immagini dei carrettini carichi di verdure e di ogni altro ben di dio che all’inizio del Novecento attraversavano Mulberry Street o Elisabeth Street. Quei tempi, grazie a Dio, sono passati. Ma non troppo. A quando, dunque, le bancarelle di Made in Italy agli angoli delle ambasciate italiane sparse nel mondo?

Gino Bucchino

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