Pensioni e vita delle donne

di Elettra Deiana

Forse sarà il caso di ripercorrere fatti e misfatti del claudicante – fin dall’origine – stato sociale nel nostro Paese; di ricordare e valutare quanto in quello stato sociale abbia pesato, come parte fondamentale, il lavoro di cura delle donne – vera e propria riproduzione sociale a gratis delle condizioni di vita per tutti. E sarà il caso di collocare la stragrande maggioranza delle donne, su cui oggi cade la scure dell’obbligo della pensione a sessantacinque anni, nell’accumulo di anni che abbiamo appunto alle spalle: quelli del Welfare all’italiana, a ossatura familiare e familistica, reso possibile, per quel tanto o poco che ha funzionato, dalla propensione al sacrificio delle donne, dal loro senso del dovere verso l’ambito domestico, dalla loro disponibilità di farsi carico della vita materiale, esistenziale, psichica di figli, partner, congiunti e quant’altro.

A gratis, come casalinghe. E egualmente a gratis come lavoratrici fuori casa, di corsa su tutto, per tenere insieme il lavoro esterno con quello interno. Fabbrica, ufficio, scuola, famiglia e vedete voi quello che manca. Per portare a casa reddito, sempre inferiore a quello maschile, e per contribuire, senza riconoscimento alcuno e spesso senza consapevolezza personale, alla ricchezza nazionale, facendosi carico di quel forte “di meno” di prestazioni sociali che in altri Paesi europei sono state invece a carico dello Stato. E qui erano a risparmio. La possibilità offerta alla parte femminile della nostra società di andare in pensione prima degli uomini costituì, per tutta una fase, una sorta di risarcimento, oltre che la manifestazione di un’idea arcaica della famiglia e del ruolo della donna nella società.

Si risarcivano le donne e, nello stesso tempo, ahinoi, non si metteva mano a una modernizzazione paritaria del mercato del lavoro e dei servizi sociali. Così l’idea arcaica si è ripresentata continuamente sul versante dello stato sociale e della vita delle donne e la situazione ha continuato a essere la stessa, anzi peggiora, soprattutto per le giovani donne di oggi, per molte delle quali la pensione è solo un miraggio. In anni socialmente meno barbarici di quelli che viviamo, alcune economiste di formazione femminista fecero i conti e resero pubbliche le cifre strabilianti del risparmio che quel lavoro permetteva allo Stato.

Altre chiesero salario per le casalinghe e l’idea del reddito sociale trasse anche da qui alimento e motivazioni. Altre ancora avanzarono la proposta che nella formazione del Pil rientrasse anche una voce riferita alla ricchezza prodotta dalle donne con il lavoro di cura. Nulla accadde, ovviamente. Eccessi e storture del pensionamento anticipato furono eliminati, la spinta all’aumento degli anni continuò, ma non fu eliminata l’asimmetria delle condizioni di vita e di lavoro tra uomini e donne. Il mantra paritario, nel frattempo, diffuso anche in ambiti sindacali e femministi oltre che negli uffici studi di Confindustria, ha coperto e disperso le analisi e la rappresentazione che studiose, sindacaliste, donne dei movimenti, attiviste dei diritti delle donne avevano fatto di quella dura asimmetria.

Personalmente, anche per quanto riguarda le scelte di vita e di lavoro, sono convinta che le cose debbano essere giocate soprattutto in base alla responsabilità delle persone. Alle scelte che loro sono in grado di operare. Per donne e uomini. E dunque se una vuole lavorare fino a sessantacinque e oltre, lavori. Ma c’è un punto che non può essere aggirato ed è che la disponibilità a restare o ad andarsene deve essere solo nelle mani dell’interessata, che non ci siano condizionamenti e inganni surrettizi che impongano nei fatti o suggeriscano come scelta obbligata il rimanere. La decisione insomma, categoricamente, sia sottratta alle mani dello Stato, che oggi fa cassa su tutto, dimenticando i suoi debiti verso le donne.

C’è qualcosa di violento e insieme di ottuso in questo diktat contro le donne, soprattutto quando, come in questo caso, si tinge di colori europei e di crismi paritari. L’Europa conosce bene la condizione delle donne nel nostro Paese, come i suoi continui rapporti dimostrano: il doppio lavoro (casa, ufficio o vedete voi) che pesa in grandissima parte solo sulle donne; la differenza di reddito rispetto agli uomini, a parità di mansioni; la disoccupazione femminile, che ci manda in coda nelle graduatorie europee; il welfare claudicante in progressiva e rapida sparizione. Dunque la parificazione forzata all’europea, che l’Ue sbandiera e invoca, è un imbroglio.

Che fare, allora? Si compiano – Brunetta, Tremonti e i vari ministri in continua esternazione paritaria – compiano, se sono in grado di farlo, scelte di reale perequazione del mercato del lavoro, degli stipendi, del lavoro familiare. Forse la loro ossessione paritaria dovrà arrendersi alla realtà: come si fa a rendere pari in uscita (pensionamento), ciò che nella vita di uomini e donne è stato asimmetrico e differente? Forse qualche idea meno iniqua verrà loro in testa. Forse l’ Europa approfondirà la questione e non si presterà a coprire le scelte misogine di questo governo senza pudore.

In ogni caso noi siamo contrarie (e contrari) ai diktat contro le donne in nome di una parità che non c’è.

Elettra Deiana

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