di Piercamillo Falasca
L’aumento dei rendimenti sui titoli di stato italiani di questi ultimi giorni, insieme al maggior premio assicurativo che gli investitori sono costretti a pagare per assicurarsi dal rischio default della Repubblica italiana, rappresenta il giudizio più esplicito dei mercati nei confronti della manovra economica del Governo e, più in generale, della solidità dei conti pubblici.
Il rigore imposto da Tremonti nell’ultimo biennio ha evitato che l’Italia reagisse alla crisi con soluzioni vetero-keynesiane, quando in giro per l’Europa s’alzava la voce di chi proclamava ormai imminente una nuova epoca d’oro dello Stato ‘creatore’ di reddito. Ma l’illusione di tenere l’Italia al riparo dalle più aspre conseguenze della crisi internazionale, in virtù di una supposta maggiore stabilità, e contemporaneamente evitare misure di rottura della ‘pax sociale’ é ben presto svanita: lo scoppio della bolla dei debiti sovrani europei (in un Continente che, per dirla con Cameron, sta vivendo al di sopra delle proprie possibilità, anzitutto per il welfare che si concede) rende automaticamente l’Italia uno dei paesi maggiormente esposti.
Con un livello di debito pubblico tanto elevato (e in qualche modo strutturale, a differenza di quello di altri Paesi), l’Italia non é ‘padrona’ dei propri conti pubblici e del proprio destino. Tanto che, anche in virtù di quanto sta accadendo sui mercati, la manovra economica – ben prima del suo sbarco in Parlamento per la sua conversione in legge – è sí importante ma non risolutiva.
Se, rispetto alle stime governative della Relazione unificata sull’Economia e la Finanza Pubblica, la spesa per interessi sul debito nel 2011 dovesse crescere di appena un ventesimo del suo valore, verrebbe vanificato il risparmio prodotto dal blocco delle retribuzioni del pubblico impiego (l’argomento è sviluppato nel focus n. 162 dell’Istituto Bruno Leoni). In altri termini, una misura politicamente coraggiosa e foriera di aspre divisioni sociali rischia di essere poco più che un castello di carta durante una tempesta.
Per ‘riappropriarsi’ della propria sovranità, l’Italia ha allora bisogno di affrancarsi dalla zavorra del debito pubblico e dai rischi di contagio internazionale che questo inevitabilmente produce. E’ ovviamente difficile immaginare come possa essere gestito e gradualmente ridotto un debito tanto elevato in assenza di una significativa ripresa della crescita economica (che non avviene per decreto-legge, ma riaprendo i ‘consueti’ dossier del mercato del lavoro, della contrattazione, delle tasse, delle liberalizzazioni e degli investimenti tecnologici; si veda Benedetto Della Vedova su Il Foglio di oggi). Ma nel breve-medio periodo per aggredire lo stock del debito e ridurlo a dimensioni più gestibili non c’è che una strada da percorrere: aprire una nuova stagione di privatizzazioni del patrimonio pubblico e delle imprese in mano allo Stato, alle Regioni e agli enti locali. Non possiamo più permetterci di conservare questo livello di debito pubblico e, allo stesso tempo, la proprietà della holding Repubblica Italiana SpA.
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