Quarant’anni fa, il 7 giugno 1970, il popolo svizzero decise le sorti dell’immigrazione italiana in Svizzera. Era stato chiamato a votare su un’iniziativa popolare che mirava a ridurre drasticamente il numero degli stranieri presenti in Svizzera e ancorare nella Costituzione che la loro proporzione nei singoli Cantoni non doveva superare il 10% (nel Cantone di Ginevra il 25%) della popolazione svizzera. Se l’iniziativa fosse stata accettata, entro quattro anni non meno di 200.000 stranieri avrebbero dovuto lasciare la Svizzera.
Un solo partito era favorevole all’iniziativa, quello della destra nazionalista di J. Schwarzenbach. Tutte le altre forze politiche, il parlamento, il governo, i sindacati, gli ambienti economici, le chiese, i media erano contrari. Per il governo, l’accettazione dell’iniziativa avrebbe provocato gravi perturbazioni economiche e la chiusura di diverse imprese, con grave danno non solo all’economia ma anche alla manodopera svizzera.
Pur senza conoscere le reali implicazioni dell’iniziativa, qualora fosse stata accettata, l’opinione pubblica avvertì chiaramente che si trattava di una decisione importante, forse decisiva, per l’avvenire del Paese. Per questo si recò alle urne una percentuale straordinaria (74,7%) di votanti (allora solo uomini, perché il diritto di voto alle donne fu introdotto solo nel 1971), la più alta in assoluto dopo quella record del 6 luglio 1947 quando, con una partecipazione del 79,7 per cento, fu approvata la legge sull'assicurazione vecchiaia e superstiti.
Nessuno, alla vigilia, osava fare previsioni perché la propaganda xenofoba del partito di Schwarzenbach aveva saputo esasperare il diffuso disagio popolare nei confronti degli stranieri. Si racconta che molti emigrati italiani tenevano le valige pronte per rientrare senza aspettare di essere cacciati via. In effetti la paura, soprattutto tra gli italiani, allora il gruppo di stranieri maggioritario, era grande. Se l’iniziativa fosse stata approvata, circa duecentomila di essi sarebbero stati costretti a terminare anzitempo la loro esperienza migratoria.
L’iniziativa fu respinta dal 54% dei votanti. Fu indubbiamente una grande prova di democrazia e una vittoria, anche se di stretta misura, del buon senso. Ma l’alta percentuale dei voti favorevoli all’iniziativa non poteva non costituire un elemento di preoccupazione. Se ne rese conto il governo, che si sentiva obbligato a intervenire con misure appropriate per ridurre la dinamica dell’immigrazione e avviare un processo virtuoso d’integrazione degli stranieri residenti. Se ne resero conto anche gli immigrati e specialmente gli italiani. Quel risultato, pur avendo allontanato il pericolo di un rientro forzato di decine di migliaia di loro, sapeva tanto di amaro. Esso significava che, magari tra gli stessi compagni di lavoro, una persona su due era forse favorevole a rimandare a casa una parte consistente di lavoratori immigrati.
Già nel 1970 e soprattutto negli anni seguenti, molti italiani rientrarono in patria delusi dell’esperienza in terra elvetica. La maggioranza decise tuttavia di restare, con motivazioni diverse. Alcuni, pochi, perché già integrati e con figli inseriti nella scuola locale, altri perché avevano pianificato una permanenza più lunga in Svizzera o perché convinti che soprattutto nel Mezzogiorno non esistessero nemmeno le premesse per uno sviluppo economico e altri ancora per i motivi più disparati, spesso di carattere familiare (matrimoni misti, integrazione della seconda generazione, ecc.).
I primi anni Settanta furono tutt’altro che facili. La convivenza tra svizzeri e stranieri continuava ad essere difficile. Molti pregiudizi e diffidenze da una parte e dall’altra non si lasciavano scalfire. Eppure proprio in quegli anni furono gettate le basi per l’integrazione soprattutto delle seconde generazioni. Si pensi al crescente numero di naturalizzazioni, al progressivo inserimento completo dei bambini italiani nella scuola svizzera, al conseguimento sempre più frequente di qualifiche professionali anche da parte immigrati di prima generazione.
Certo, il cammino da percorre nella direzione di una soddisfacente integrazione da una parte e dall’altra sarebbe stato ancora lungo, forse troppo; ma fu importante, guardando retrospettivamente, aver imboccato quella strada. Sarebbe difficile oggi negare che il 1970 abbia rappresentato per l’immigrazione italiana una svolta fondamentale. Ben più difficile sarebbe rispondere alla domanda se quella scelta è stata per tutti una scelta giusta, perché solo gli interessati possono dare una risposta. Oggettivamente però si deve affermare che la collettività italiana è tra le meglio integrate in Svizzera.
Giovanni Longu
Berna 7.6.2010