di Luisa Pezone
La macchina dell’Unione per il Mediterraneo comincia, lentamente, a muoversi. Era ferma, a parte qualche isolato passo in avanti, dalla fine del 2008. La recessione economica globale e l’eterna crisi israelo-palestinese riesplosa a Gaza avevano bloccato quasi del tutto la marcia della nuova organizzazione euro-mediterranea nata nel luglio del 2008, su impulso iniziale di Sarkozy e dopo una lunga e sofferta gestazione politico-diplomatica.
La missione dell’UpM, proclamata solennemente nell’imponente vertice di Parigi che le aveva dato i natali, era quella di imprimere una decisa sterzata ai rapporti euro-mediterranei che, tra la crisi del Processo di Barcellona e il basso profilo della Politica Europea di Vicinato, apparivano ormai agonizzanti.
Il Processo di Barcellona, o Partenariato Euro-Mediterraneo, era partito nel 1995 sull’onda della conferenza di Madrid del 1991 e degli accordi di Oslo del 1993 che lasciavano presagire per il Grande Medio Oriente un’era di pace e stabilità. L’Unione Europea intendeva dotarsi di uno strumento con cui gestire la pace costruita dagli Stati Uniti, consolidandola attraverso le “armi” ad essa più congeniali: il sostegno ai processi di democratizzazione, la cooperazione economica, l’integrazione sociale e culturale. Ma il disegno si era ben presto arenato sulle debolezze strutturali dell’UE, sulla priorità assegnata all’allargamento ad Est e sul mancato coinvolgimento dei paesi della riva Sud nelle decisioni prese a Bruxelles. Ma era stato soprattutto il fallimento del processo di pace in Medio Oriente e il nuovo unilateralismo americano dopo l’11 settembre a travolgere il progetto di Barcellona e ad infilarlo in un vicolo cieco.
Per questi motivi, la Commissione guidata dal Presidente Prodi cercò di inserire nel 2004 i rapporti euro-mediterranei all’interno della nuova Politica di Vicinato, destinata a promuovere stabilità e prosperità nei “nuovi vicini” dell’Unione Europea allargata a 25 e poi a 27. L’obiettivo, come si scrisse allora nei documenti istitutivi, era “sostituire una frontiera che separa con una che unisce”. Ma l’introduzione della nuova politica finì per strutturare le relazioni euro-mediterranee su un “doppio binario”, quello globale e multilaterale del Partenariato e quello tecnico e bilaterale del Vicinato, con il risultato di togliere coerenza ed incisività all’azione europea.
Fu in questo quadro che Sarkozy, prima da candidato e poi da inquilino dell’Eliseo, lanciò nel 2007 l’idea di un’ “Unione Mediterranea”. Il progetto era semplice e basato su due punti chiave: ripensare i rapporti tra le due sponde del Mediterraneo all’esterno del canale comunitario, costruendo un’organizzazione aperta solo ai paesi rivieraschi, naturalmente più interessati ad elaborare forme di cooperazione più avanzate; abbandonare i grandiosi progetti globali di Barcellona e ripiegare su un approccio più pragmatico, fondato su progetti concreti. Gli obiettivi di Sarkò erano altrettanto chiari: rimettere la Francia al centro delle dinamiche comunitarie e mediterranee, tracciare una strada alternativa all’ingresso della Turchia nell’UE, orizzonte strategico da sempre lontano dall’idea d’Europa del Presidente francese. Lungo la strada, però, l’iniziale disegno francese aveva cambiato volto e nome, grazie soprattutto all’azione della Merkel indisponibile a lasciare le relazioni dell’Unione Europea con i paesi mediterranei sotto l’esclusivo marchio di Parigi. Nasceva così nel luglio del 2008 l’Unione per il Mediterraneo, che abbraccia i 27 paesi UE e 16 partner mediterranei, compresi anche quelli dei Balcani occidentali: Croazia, Bosnia-Erzegovina, Montenegro e Albania. Rimanevano però, anche all’interno della nuova configurazione, alcuni degli elementi più originali della prima idea francese: l’approccio spiccatamente tecnico e progettuale, fondato su pochi e ben definiti settori di importanza strategica, e il tentativo di creare una reale co-ownership tra le due sponde, attraverso una struttura istituzionale che prevede una Co-Presidenza congiunta e un Segretariato diviso a metà tra i paesi UE e non UE.
Proprio la difficoltà di mettere in moto questo farraginoso meccanismo istituzionale ha costituito uno dei fattori che hanno rallentato la messa in moto dell’UpM a pieno regime. Ora le varie tessere del mosaico sembrano gradualmente tornare al loro posto. Dalla scorsa estate, i rappresentanti dei paesi arabi hanno ripreso la propria partecipazione alle riunioni tecniche, da cui si erano auto-sospesi in seguito all’offensiva israeliana a Gaza del dicembre 2008. Negli stessi mesi, la Commissione Europea ha stanziato, in occasione dell’anniversario dell’UpM, 72 milioni di euro, che vanno ad aggiungersi ai 28 già impegnati lo scorso anno. Più di recente, il 21 gennaio, ha avuto luogo il primo summit dell’Assemblea Locale e Regionale Euro-Mediterranea, uno dei pilastri istituzionali dell’Unione per il Mediterraneo. Infine, è stata finalmente individuata la figura del Segretario Generale nel giordano Ahmad Khalaf Masadeh, fino ad oggi ambasciatore giordano presso l’Unione europea e la Nato a Bruxelles. Il Segretariato rappresenterà il cuore pulsante della costruzione istituzionale dell’UpM, e avrà sede a Barcellona, nel Palazzo di Pedralbes.
Si riparte insomma da Barcellona, dove tutto era cominciato quindici anni fa.