Una volta molte erano le monache che entravano in convento perché costrette dai familiari. Ce n'erano alcune però che “sceglievano” la via del monastero come male minore. Il loro ragionamento a un dipresso doveva essere questo: “Se la do (la verginità) al marito, diventerò sua schiava e uno strumento per mettere al mondo pargoletti a suo piacimento; se la dedico al Signore (sempre la verginità) sarò sua devota serva, ma avrò la possibilità di studiare, di dedicarmi a ciò che mi piace, suonare, cantare, scrivere, leggere, pregare e pensare, fingere di pregare e pensare”. Fortunate, sempre che qualcuno non le denunciasse, altrimenti erano guai seri, le monache lesbiche, giacché non solo si sottraevano alla schiavitù resa ancora peggiore dalla loro omosessualità, ma avevano anche la possibilità di vivere meravigliosi segreti amori tra le mura del monastero. Splendida ineffabile libertà nella prigionia. Ancora più fortunate le monache lesbiche qualora, grazie alla loro intelligenza, giungessero a rendersi conto che come tutti gli amori, anche il loro era benedetto da Dio.
Veronica Tussi