Rai, la notte del servizio pubblico

di Giuseppe Giulietti

Se fossimo in un paese normale o almeno semi normale, i dirigenti della Rai che dovessero leggere questo libro dovrebbero alzare il telefono e ringraziare l’autore Gilberto Squizzato e l’editore che, nonostante lo spirito dei tempi, hanno deciso di scrivere e di pubblicare un libro che rappresenta un vero e proprio atto d’amore per il ruolo e la funzione di quello che un tempo veniva chiamato il servizio pubblico radiotelevisivo.
C’era una volta potremmo, infatti, sottotitolare le pagine scritte, con ironia e competenza, da Squizzato, non a caso giornalista di razza, ma anche regista, autore, instancabile scopritore di temi e persone oscurate, dimenticate, relegate ai margini della storia e della cronaca. Il servizio pubblico, per l’autore, non è qualcosa di astratto e tanto meno dovrebbe essere una riserva di caccia per i partiti vecchi e nuovi; al contrario proprio perché di tutti e pagata da tutti la Rai dovrebbe essere il luogo dove dovrebbero trovare cittadinanza e possibilità di espressione tutti quei linguaggi, quelle identità, quelle diversità che altrove non hanno ospitalità, perché considerate ostili, non in linea con le volontà dell’editore, non utili alla raccolta pubblicitaria.
Lo spazio pubblico, proprio perché tale, può e deve garantire anche i diritti di chi non possiede un giornale o una tv, di chi vorrebbe comunque godere di quel diritto ad essere informato per poter scegliere in modo libero e consapevole previsto dalla Carta Costituzionale, in particolare dall’articolo 21, e più volte rafforzato dalle sentenze della Corte Costituzionale.
Abbiamo usato sempre il condizionale perché così non è mai stato e tanto meno lo è ora; anzi in questo periodo si stanno raggiungendo punte di degrado che neppure il più perfido tra noi sarebbe mai riuscito a prevedere. Neppure nel passato è esistito quel servizio pubblico che Squizzato delinea e auspica per il futuro: ma nel passato almeno si è tentato di fare della Rai una azienda inclusiva, preoccupata di ridurre la frattura sociale, di unificare linguisticamente l’Italia, di aprire ai nuovi linguaggi del giornalismo, del cinema, delle nuove tecnologie.
Tra lottizzazioni e censure, tra sacrestie e sezioni, restò aperto uno spiraglio che consentì a quella Rai di non essere solo un palazzo della politica, ma anche di aprire porte e portoni ad alcune delle migliori energie e professionalità del settore. Basterà ricordare i nomi di Umberto Eco, di Angelo Guglielmi, di Ermanno Olmi, di Andrea Camilleri, di Ugo Gregoretti, di Sergio Zavoli, di Enzo Biagi, per fare solo qualche esempio. In quella stagione vi era un tentativo di coniugare le ragioni dell’impresa, della professionalità, della ricerca con le ragioni, non sempre nobili, anzi spesso ignobili, dei partiti della maggioranza e della opposizione, sinistra compresa.
Quel nesso, quel difficile e non sempre felice equilibrio, si è rotto con la discesa in campo di Berlusconi e del conflitto di interessi. La mancata soluzione di quel nodo e la cecità che ha caratterizzato la stessa analisi del centro sinistra sono alla base della stagione attuale. Per la prima volta nella sua storia la Rai vive in un regime di doppia fedeltà. L’appartenenza politica, altrimenti detta lottizzazione, è stata rafforzata con la necessità di essere fedeli alle esigenze non solo politiche ma anche aziendali del Presidente del Consiglio editore.
Da qui il neologismo Raiset, che deriva dalla sostanziale coincidenza di interessi politici e di interessi aziendali. L’anomalia italiana sta tutta qua: una sola persona controlla il suo impero ed esprime il gruppo dirigente della azienda concorrente. Quale dirigente dunque sarà mai così sciocco da contrapporsi su entrambi i piani al proprietario unico? Questo regime di doppia fedeltà ha aggravato la crisi, per altro già iniziata, del Servizio Pubblico. La Rai ha assunto come modello di riferimento il concorrente privato, rinunciando al suo primato in termine di ascolti, di linguaggi, di offerta, di capacità di ideare, di produrre facendo leva sul patrimonio di professionalità e sulla parte migliore della sua tradizione. Adesso è la Rai ad imitare i linguaggi, le modalità organizzative, i format che avevano segnato l’ascesa del privato, sul piano industriale e su quello politico.
La legge Gasparri, che ha reintrodotto il governo nel controllo diretto del Consiglio di Amministrazione, ha esaltato le funzioni del comando e del controllo rispetto a quelle del Pubblico Servizio che dovrebbe essere la casa comune di tutti cittadini, la meno condizionata dal controllo dell’esecutivo e dei partiti tutti. Quella legge ha segnato un ritorno indietro, determinando la sostanziale unificazione dei controlli e del comando nello stesso gruppo, dando luogo ad una situazione che non ha possibili raffronti almeno all’interno dell’unione europea, ma non solo.
Il quadro generale, mentre il libro era ancora in stesura, si è ulteriormente peggiorato. Il Contratto di Servizio che regola i rapporti tra la Rai e lo Stato, per la prima volta, ha previsto l’istituzione di una sorta di Commissione Etica che dovrebbe esaminare la corrispondenza tra il contratto medesimo e le modalità della programmazione, persino i modi e le forme del contraddittorio o la composizione degli ospiti in studio. Per l’ennesima volta vengono amplificate le ragioni del controllo e del comando e non a caso queste regole sono state pensate e introdotte nel pieno dell’ennesima campagna contro quel poco che resta del giornalismo d’inchiesta, da Milena Gabanelli a Michele Santoro. Invece di essere premiato, chi cerca di portare luce nelle tante oscurità nazionali viene trattato alla stregua di un ospite indesiderato, di un abusivo del Servizio Pubblico. La parabola si è così completata: la Rai non può e non deve essere la casa delle libertà, per fare il verso all’altra casa, ma una sorta di casa di intolleranza dove chiunque provi ad uscire dal confine della piaggeria, della banalità, del format prefabbricato, deve essere accompagnato alla porta o messo in condizione di non nuocere.
Questo desiderio di omologazione ha finito per colpire anche l’ambizione di essere la grande azienda del decentramento, del federalismo mediatico, dell’integrazione tra le diverse realtà culturali e produttive del paese. Il desiderio di controllo ha ridotto i Centri di Produzione della Rai a prefetture di serie b, con buona pace della Lega che tante parole aveva speso sulla questione settentrionale e si è ridotta a dover pietire una manciata di posti elargiti da “Roma ladrona” con la complicità degli amici di Arcore.
In questo schema c’è davvero poco spazio per chi come Squizzato, e tanti altri come lui, continua a sognare una Rai libera dai vincoli non solo dei partiti, ma anche delle lobbies, delle logge, degli interessi consolidati dei signori degli appalti. Del resto proprio Squizzato ha dovuto fare i conti non solo con le logiche della brutale spartizione ma anche con quelle, più coperte e dunque più pericolose, degli interessi. Guai a mettere fuori la testa, guai ad avere l’ambizione di produrre fiction a basso costo, con storie nazionali: peggio ancora se questa creatività trova anche un suo pubblico, non sia mai che la Rai ritrovi l’orgoglio perduto e persino il gusto di far da sé: e chi glielo racconta poi ai feudatari dell’appalto esterno e ai mediatori d’affari che ormai hanno preso le chiavi della produzione e degli acquisti, relegando ai margini i creativi, quegli odiati intellettuali o meglio quegli odiati professionisti che ancora avrebbero l’ambizione di fare programmi popolari ma saldamente legati a intramontabili parametri di qualità, di stile, di rispetto per il cittadino spettatore che non può essere considerato uno dei numeri che riempono la lista dei possibili acquirenti dei prodotti reclamizzati?
La Rai che qualche volta si è vista nel passato e la Rai sognata per il futuro da Squizzato fondavano e dovrebbero fondare le radici sulla esistenza di un cittadino critico, consapevole, desideroso di conoscere, di essere informato in modo completo per poter scegliere sempre e comunque in modo consapevole. Da questa idea, da questa necessità discendono le proposte qui formulate dall’autore.
Utopie? Sogni che non si realizzeranno? In questo momento storico dovremmo propendere per il sì. Si può ipotizzare oggi un sistema dei media libero dal conflitto di interessi? Si può pensare ad una Rai-fondazione lontana dagli appetiti dei governi e dei partiti? E’ possibile immaginare un ritorno ad una tv di qualità capace di coniugare coraggio e rispetto delle diversità? Ci sarà mai un effettivo trasferimento di ruoli, di funzioni, di produzioni da Roma ai grandi centri di Milano, Torino, Napoli? Si arriverà mai a promuovere dei pubblici concorsi non solo per le assunzioni ma anche per selezionare la classe dirigente?
Certo, ora come ora, queste domande possono sembrare fuori dallo spirito dei tempi, persino ingenue o il residuo del tempo che fu; ma prima di liquidarle con una alzata di spalle o con il sorriso gelido dei cinici, sarà bene aspettare un momento e prendersi una pausa di riflessione. E se il sistema, nonostante le apparenze, fosse già entrato in agonia? E se la lunga stagione del conflitto di interesse avesse imboccato l’ultimo tratto del suo viaggio?
Persino le nuove tecnologie e la rete stanno contribuendo a mettere in discussione antiche certezze, le notizie viaggiano in mille modi, l’ossessione del controllo rischia di mettere in crisi i controllori e non solo l’Italia. Non a caso, pochi giorni fa, il governo ha immaginato un decreto per mettere le mani sulla rete, suscitando una protesta fragorosa, trovandosi impreparato a gestire la comunicazione del presente e del futuro.
La nascita di nuove forme della produzione e della comunicazione sta minando dall’interno le forme tradizionali e quello che oggi appare impossibile potrebbe rivelarsi possibile in tempi brevi: quello che appare solidissimo potrebbe sciogliersi, ridursi allo stato liquido, piegarsi su se stesso, aprendo un vuoto che andrà rapidamente colmato sul piano delle idee, delle azioni delle proposte, dei linguaggi, dell’etica pubblica.
In quel momento torneranno buone le proposte e i cittadini come Gilberto Squizzato, quelli che, nonostante tutto e nonostante anche i colpi subiti personalmente, non hanno mollato, non si sono fatti omologare, non hanno rinunciato a pensare e a esercitare una funzione critica, e soprattutto non hanno mai rinunciato alla propria dignità.
Se e quando la lunga notte della politica e dell’informazione finirà, sarà il caso di ringraziare anche quei giornalisti e quegli editori – come chi ha pensato e voluto queste pagine – che non hanno mai rinunciato ad esercitare la loro funzione civile, anche quando amici e magari compagni li invitavano a lasciar perdere e ad adeguarsi allo spirito dei tempi.
Non era e non è obbligatorio farlo, questo libro ne è una testimonianza…

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