Monsignor Giuseppe Casale, vescovo emerito di Foggia, ha affermato che va “rivista” la norma che vieta ai divorziati di ricevere la comunione poiché “una volta che una persona anche divorziata abbia intrapreso un cammino penitenziale, non ha senso escluderlo dalla vita cristiana”. Non è una novità. Già nell'agosto del 2006, fece la stessa considerazione don Alberto Bonandi docente di teologia morale presso la Facoltà Teologica di Milano, il quale propose ai divorziati risposati una via di pentimento indispensabile per essere ammessi alla comunione. Bonandi dimenticò, e oggi Casale dimentica, che uno dei coniugi può non essere causa della rottura del rapporto, e quindi non avere nulla di cui pentirsi. Il fatto è che se ne dimenticò anche Gesù: “Ora io vi dico: chi ripudia la propria moglie…e sposa un'altra, commette adulterio; e se sposa una donna ripudiata, commette adulterio” (Mt 19,9). Il Signore non considerò che spesso la donna “ripudiata” (in Palestina solo gli uomini “ripudiavano”) era innocente, innocentissima.