I dati dell’Istat confermano che l’anno appena trascorso è stato il più duro dal 1971 a oggi per l’economia. Come aveva previsto il ministro Tremonti, il Prodotto interno lordo, vale a dire la ricchezza italiana, è calato di 5 punti, mentre il deficit è salito dal 2,7 al 5,3 per cento e il debito pubblico è arrivato al 115,8%.
Sono questi gli effetti della tempesta globale che prima ha travolto la finanza e poi l’economia reale in tutto il mondo, Italia compresa. Anzi, di fronte al disastro generale, l’Italia si è comportata meglio di molti altri Paesi europei che oggi sono costretti a reagire all’assalto della speculazione internazionale contro l’euro. Da un lato, hanno giocato a favore quelle riduzioni della spesa pubblica che la sinistra talvolta sembrava quasi incitare; dall’altro, ha tenuto bene il gettito fiscale.
E soprattutto, ecco l’elemento nuovo, il Governo Berlusconi ha saputo combattere in maniera innovativa l’evasione fiscale. Gli oltre nove miliardi di euro incassati nel 2009 rappresentano 1/3 in più rispetto all’anno precedente e un record assoluto: una vittoria clamorosa del Fisco, ottenuta in un momento difficile, proprio mentre la sinistra si affannava a spiegare che il centrodestra non faceva nulla contro gli evasori. Ancora una volta le chiacchiere dei nostri oppositori si sono infrante sul muro solidissimo dei fatti concreti del nostro Governo.
E si fa notare che anche il ribasso del Pil è rimasto perfettamente in linea con quanto è accaduto nello stesso anno in Germania e in Gran Bretagna, l’una Paese capofila all’interno dell’Eurozona e l’altra invece al di fuori. Lo scudo fiscale, altro bersaglio favorito di una sinistra moralista e parolaia, giunta ad incolpare il Governo di favoreggiamento nei confronti degli evasori fiscali, è riuscito invece a frenare quel calo delle entrate tributarie che era più che lecito prevedere dopo la riduzione della produzione e dei consumi, nonché della domanda estera. A questo proposito si tratta di 70 miliardi di euro in meno incassati dall’Italia per le vendite dall’estero, e 20 in meno per il calo all’interno dei consumi. La speranza per il 2010 viene dalle parole del ministro dello Sviluppo Economico Scajola: il 2010 farà segnare una crescita almeno dell’1-1,2% del Prodotto interno lordo mentre l’attività industriale sta dando cenni di buona ripresa.
L’opposizione in realtà guarda sempre lo specchietto retrovisore e non punta mai decisamente lo sguardo verso il futuro: lo dimostra il fatto che nessuno di loro si è dato da fare per presentare iniziative o proposte concrete, tese a risollevare veramente la nostra economia.
Tranquilli, il popolo è con noi
Tre indizi fanno una prova? Nei sistemi in cui i diritti di accusa e difesa sono davvero egualmente tutelati, no. Ma in Italia l’ultima parola, si direbbe, è quella della volontà dell’ordinamento giudiziario. E dunque, a differenza che in altre e più mature democrazie, spesso tre indizi possono fare una prova. Noi di indizi ne abbiamo già quattro in pochi giorni, e l’elenco potrebbe aumentare. Elenchiamoli questi indizi, dopo che ieri abbiamo censurato il comportamento di alcuni funzionari locali del Popolo della Libertà nel presentare le liste per le Regionali.
Dunque:
· A Roma esclusa la lista Pdl nella provincia, che vale oltre la metà del Lazio.
· A Milano esclusa la lista del governatore uscente Roberto Formigoni.
· Sempre a Milano, il Tribunale rifiuta il legittimo impedimento del Presidente Silvio Berlusconi nel processo Mediatrade (diritti tv). Secondo loro, per un capo di governo non è importante presiedere il Consiglio dei ministri, se i pm chiamano.
· Ancora: due giorni fa è stato rifiutato alla difesa di Berlusconi il rinvio del processo sul caso Mills per attendere le motivazioni della sentenza della Cassazione che aveva prosciolto lo stesso Mills. Vale a dire che le motivazioni per cui la Suprema corte ha dichiarato nullo il procedimento che ha originato quello contro il premier non paiono rilevanti a chi vuole processare Berlusconi.
Si tratta di casi distinti e distanti. Ma con un unico filo conduttore: la politica è in questo momento in mano ad aule di tribunale. E’ lì che si decide l’agenda e si influenza di fatto la vita pubblica.
Ripetiamo, ci siamo già soffermati su quanto non va in certe nostre aree locali. Ma siamo sicuri che a proposito di elezioni in Italia le leggi e le regole siano sempre stare rispettate a puntino? Noi ricordiamo almeno un episodio, clamoroso: quello delle politiche 2001, abbinate a varie tornate comunali. Allora il ministero dell’Interno (retto dal governo uscente di centrosinistra) consentì l’apertura ad oltranza dei seggi ben oltre il termine delle 22, ora di chiusura. Questo accadde in particolare a Roma, dove correva per il secondo mandato di sindaco Walter Veltroni.
Tutto bene allora? Regole rispettate? Non ci pare. E’ un esempio, ma anche un precedente. Oggi si vuole escludere dalle elezioni di Roma la maggior forza politica italiana, che ha nella Capitale il 40 per cento degli elettori e nell’intero Lazio il 55 per cento. E nelle elezioni lombarde si vuole escludere la lista del governatore uscente e ricandidato, accreditato di un vantaggio incolmabile.
Solo coincidenze? Accanto al centrodestra, rischiano qua e là l’esclusione i radicali: i quali, in alcuni casi, fanno e minacciano lo sciopero della fame, quando il danno è loro. Quando invece ne approfittano, chiedono il “rispetto delle regole”. Normale anche questo?
In attesa delle decisioni sui ricorsi, veniamo all’altro aspetto della vicenda. Dopo la sentenza della Cassazione sul processo Mills, a carico del premier restano aperti due processi. Quello connesso a Mills, che logica e diritto vorrebbero venisse chiuso visto che è uscito di scena il presunto corrotto. E quello sui diritti tv.
Per quest’ultimo il tribunale di Milano ha ieri stabilito che Berlusconi non doveva presiedere il Consiglio dei Ministri, ma essere in aula a Milano. Il dovere come capo del governo non rappresenta, per quei giudici, legittimo impedimento. Secondo loro, l’agenda “concordata” il 25 gennaio non poteva in alcun modo essere modificata: neppure da un Consiglio dei Ministri (che per inciso ha varato le norme contro la corruzione di politici e funzionari pubblici). La prossima udienza è prevista per l’8 marzo, ma il capo del governo sarà in visita di Stato in Brasile. E’ possibile che neppure quello sia considerato legittimo impedimento ma un’altra banale scappatoia per sfuggire ai processi.
· In tutte queste vicende esiste, come abbiamo detto, un filo comune. Che è rappresentato dal rapporto tra politica e magistratura. Anzi, tra democrazia e magistratura.
In anni passati la Corte costituzionale ha stabilito che tra i poteri dello Stato – che nella nostra Carta hanno eguale legittimità – deve esistere il principio di “leale collaborazione”. E’ nello spirito di questo principio che ci si è appellati al Capo dello Stato, il quale ha risposto che la decisione ultima sulle liste elettorali spetta ai giudici, ma ha egualmente aggiunto la propria preoccupazione affinché a tutti sia garantita la rappresentanza elettorale.
Ma come interpreta l’ordinamento giudiziario la “leale collaborazione”? Riservandosi l’ultima parola. Stabilendo quali atti di governo sono legittimi, a scapito di chi è stato eletto per governare. E tra poco, chi può concorrere alle elezioni e chi no.
Mentre riflettiamo (e possibilmente interveniamo) sulle nostre responsabilità in certa burocrazia locale, pensiamo sia legittima una riflessione ben più generale su chi in Italia, nella divisione dei poteri – esecutivo, legislativo e giudiziario – fissata dalla Costituzione, voglia prendersi più potere degli altri e riservarsi comunque l’ultima parola.
Tranquilli, uniti vinciamo ancora
Hanno il potere nei tribunali, ce l’hanno sui giornali e sui mass media. C’era una cosa che sfugge loro: il popolo. Chissà come mai, è bravo a votare contro di loro, contro la sinistra cioè. Ora vogliono provare a farne a meno. E a chi tocca decidere sulle note questioni delle liste elettorali? Ai giudici, accompagnati in questa sentenza dai giornali… Però per fortuna non è che tutta la magistratura sia della stessa pasta di quella politicizzata. E alla fine siamo dell’idea che in questa nostra Italia ci sia una stoffa forte, una fibra profonda ancorata all’idea che chi governa lo decide il voto dei cittadini, e non il sinedrio delle toghe rosse.
Certo. Se dovessero decidere i giudici d’avanguardia, allora accadrebbe questo: che in Italia nelle due Regioni di maggior peso (ci stanno la capitale politica e quella economica, Roma e Milano) si potrebbe votare praticamente solo a sinistra. Un esperimento del futuro in mano ai Di Pietro, De Magistris con il gregario Bersani e la finta passionaria Bonino. La sinistra sarebbe felice. Senza bisogno di finzioni ritroverebbe un po’ se stessa e la sua storia indimenticabile. Accadrebbe come all’Est al tempo del blocco sovietico, nei Paesi meravigliosamente ritornanti come Bengodi nei sogni di questa gente.
I radicali, da supposti difensori della democrazia americana, si sono trasformati (o forse erano già così) in guardie del corpo di una specie di totalitarismo del rigore burocratico pur di occupare le poltrone migliori senza battersi. Per loro ormai conta più l’orpello di un timbro rispetto a quella cosa ormai marginale per i pannelliani che è il popolo, la realtà della gente che ha un’idea, un partito di riferimento, e a cui si vuol negare l’espressione della sua idea e della sua scelta.
Tale e quale i Paesi satelliti dell’Urss, appunto. Stavolta più che altro sembriamo i Paesi satelliti dell’Iran o dei talebani. Non è che una volta nell’ambito del Patto di Varsavia ci fosse il partito unico. In Polonia quello dominante non si chiamava neanche Partito comunista ma Partito dei lavoratori e degli operai, il Poup, non c’era la K di komunismo, si vergognavano. E alle elezioni si presentava una lista con un mazzolino delicato di tanti partiti: il Partito contadino, persino il Partito cristiano. Tanti partiti meno quelli che avrebbero potuto rappresentare l’alternativa, quella cosa che si chiama gara democratica senza cui appunto non c’è sovranità del popolo, ma un gioco dove vincono quelli che hanno il timbro giusto: quello del potere dominante, unico, di magistratura, editoria, finanza. Un po’ come in Iran.
Noi andiamo avanti, vogliamo che il timbro ce l’abbia in mano il popolo. Il vero timbro è la matita con cui si segna il simbolo. E questo simbolo non è sulla scheda, è prima di tutto nella realtà. Al di là della superficialità di alcuni responsabili, è ovvio che la democrazia non può nella sua sostanza essere prosciugata dai cavilli che sono la sanguisuga del buon diritto. Certo le procedure e le regole sono importanti: ma se invece di fermare gli abusi e le truffe bloccano la realtà di forze vive, significa che queste regole negano la ragione stessa del loro esistere.
Dunque un po’ di buon senso non guasterebbe, un sano buon senso democratico che non manca a molti giudici. Ora infatti la parola spetta alla magistratura, com’è giusto, ricordando che deve decidere “nel nome del popolo italiano”, tutto il popolo però, e non solo quello minoritario che la esalta perché vede in essa la scorciatoia all’abbattimento del “nemico Berlusconi”. Ovvio: se dovessero decidere i giudici con la fissa di essere l’unico potere legittimo – del tipo di quelli che hanno stabilito che una riunione del Consiglio dei ministri non è un legittimo impedimento ad andare ad un processo, ma una specie di spiritosa invenzione nel mondo dove le uniche cose importanti devono essere i Consigli dei magistrati – se dovessero essere loro a stabilire come si fanno le elezioni regionali, staremmo freschi. Ma per fortuna non sarà così, non ci crediamo. Sarebbe buttata nel secchio la sostanza della nostra convivenza civile.
Intanto però non fermiamoci lì. Questo tentativo di truccare la partita, di squalificare metà del popolo italiano, dimostra una volta di più agli italiani che razza di totalitarismo minacci questo Paese. Vogliono tutto i tipi della sinistra, e pure senza neanche la strada delle elezioni. Li conoscevamo, ma non fino a questo punto. Abbiamo misurato in questa vicenda la capacità dell’avversario di trasformarsi in nemico, di usare tutto l’armamentario pur di impedire l’esercizio del libero arbitrio ai cittadini. Dei radicali abbiamo detto. Si sono sdraiati per impedire fisicamente la presentazione delle nostre liste. In realtà gli è venuto facile, abituati a stare sdraiati per avere dal Partito democratico e dall’Italia dei valori il posto d’onore hanno scelto la strada del loro disonore.
Comunque tranquilli. Se stiamo uniti, non ce n’è per nessuno.