E ora vinciamo le Regionali. Ecco perché …

Ed ora vinciamo le Regionali. L’obiettivo è a portata di mano, ed il Popolo della Libertà e il centrodestra hanno tutte le carte in regola per recuperare ai moderati una serie di regioni conquistate dalla sinistra in una stagione politica che oggi ci appare lontana, che potremmo definire preistorica: quella in cui i moderati, pur al governo centrale, soffrivano di diatribe e divisioni interne. Quella in cui, soprattutto, la sinistra poteva contrabbandare una parvenza di unità e perfino di buongoverno.

Vediamo perché possiamo e dobbiamo vincere.

Abbiamo il consenso. Già in base ai risultati delle Europee il Pdl è ovunque il primo partito ad eccezione di solo due delle tradizionali regioni rosse: Emilia-Romagna e Toscana. Perfino in Umbria, in Basilicata e nelle Marche il Pd, a giugno 2009, aveva perduto il suo storico primato. Un’affermazione, quella, che inizialmente parve velata dall’astensionismo ma fu poi confermata e amplificata dalle amministrative che portarono al centrodestra province e comuni di prima grandezza, al Nord, Centro e Sud. Rispetto ad allora i consensi e la fiducia nel governo ed in Silvio Berlusconi sono ulteriormente aumentati.

Siamo uniti. Non fatevi fuorviare dalle trattative sulle candidature o dalle diatribe di partito: è fisiologica dialettica politica. Il Pdl innanzi tutto, ed il centrodestra nel suo complesso, marcia unito. Così come il governo. In base a questa unità abbiamo potuto definire e presentare in largo anticipo quasi tutti i candidati per le regioni. I pochi nomi che mancano non sono frutto di divisioni, ma di attesa per le mosse degli avversari, che ovviamente tardano.

Abbiamo un leader certo e forte. Berlusconi è il leader del centrodestra, oltre che il capo del governo. Ha resistito alla campagna di veleni del 2009, ha portato assieme al governo l’Italia fuori dalla crisi, ha vinto tutte le elezioni di questi due anni, è il più stabile tra i governanti europei. I dissensi con Gianfranco Fini si sono ricomposti, in ogni caso fanno parte della distinzione di ruoli e di quella che, ripetiamo, è una fisiologica dialettica politica. La leadership di Berlusconi non è minimamente messa in discussione dagli alleati leghisti.

A sinistra, nessun leader. Panorama ben diverso quello dell’opposizione. Dopo aver triturato due segretari in meno di due anni, il Pd vede in serio pericolo lo stesso Pier Luigi Bersani. Al di là della buona volontà riformista manifestata all’inizio, Bersani è rimasto intrappolato nella guerra delle candidature tanto più nelle regioni finora amministrate dalla sinistra. Lazio, Campania, Puglia, Calabria, perfino l’Umbria: sono esempi di una guerra feroce tra bersaniani-dalemiani e veltroniani. Di fatto il Pd è in grado di schierare candidati veri, e “suoi”, solo in Piemonte, Liguria e Emilia-Romagna. In Lombardia, regione data per persa, c’è un candidato di bandiera fedelissimo bersaniano, Filippo Penati, già sconfitto alle Provinciali di Milano. In Veneto, altra regione persa, si è trovato un candidato che apprezza pubblicamente la politica del centrodestra. Nel Lazio ci si è dovuti affidare ad Emma Bonino dopo un fuggi fuggi generale. In Campania e Calabria è in corso una guerra tra Pd e Idv. In Puglia c'è stata una guerra, ancora peggiore, a colpi di dossier giudiziari, tra estrema sinistra (con l’appoggio dei veltroniani) e Massimo D’Alema. Perfino l’Umbria è coinvolta, e sfugge al controllo del segretario.

Il fallimento dei governi della sinistra. Tutto ciò non è frutto solo di faide interne, ma del crollo di un modello di governo. Lazio, Umbria, Campania, Calabria, Puglia sono regioni finora amministrate dalla sinistra, dove il malgoverno, gli scandali e le inefficienze hanno imperversato in questi cinque anni. Il tessuto sociale, il lavoro, l’economia ne hanno risentito pesantemente: la sinistra non ha un progetto, sempre indecisa tra riformismo a parole e mera gestione del potere nei fatti.

Noi abbiamo un progetto. Come per il Friuli, l’Abruzzo, la Sardegna – le tre regioni già conquistate – Pdl e centrodestra hanno un chiaro progetto per riportare alla normalità e al buon governo queste aree strategiche. Il rilancio dell’economia e del lavoro, l’impresa e il turismo, il credito, le infrastrutture, il rapporto trasparente con i cittadini, soprattutto la credibilità conquistata con i fatti del governo: questi sono i cardini del nostro programma, contrapposto all’ideologia della sinistra.

Ecco perché bisogna crederci. Tutti questi elementi possono portare, tra due mesi, ad una vittoria senza precedenti. Occorre crederci e impegnarsi nella campagna elettorale. Il centrodestra può conquistare il Nord, gran parte del Centro, praticamente tutto il Sud. E’ certo l’obiettivo massimo, i sondaggi ed il gioco politico inducono alla prudenza. Ma, appunto, perché non crederci?

La sinistra “partito appenninico”. In ogni caso, dopo le Regionali avremo una geografia politica dell’Italia molto diversa. La sinistra rischia di ridursi a “partito appenninico”, secondo una azzeccata definizione di Giulio Tremonti. Finirà la rendita di posizione del potere locale, finora usata spesso come freno al governo, ma soprattutto come freno all’Italia.

Conclusione: vinciamo le Regionali. E dopo completeremo il cambiamento del Paese.

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Regionali, ottimisti con prudenza

Ora vinciamo le Regionali. Non uno slogan, ma alcuni dati:

· in tutte le regioni ad eccezione di Emilia-Romagna e Toscana il Popolo della Libertà è il primo partito, e quasi ovunque il centrodestra è maggioritario;

· dappertutto questi consensi, registrati alle Europee 2009, sono in crescita; così come è in crescita la fiducia nel governo ed in Silvio Berlusconi;

· al contrario sono dovunque in calo consensi e voti per la sinistra e per il Pd in particolare;

· il Partito democratico è senza guida, nazionale e locale, i pasticci delle primarie rivelano una sconcertante incapacità di leadership mentre vicende come quella di Bologna (che segue di pochi mesi il caso Lazio) seppelliscono definitivamente il teorema fasullo della “superiorità etica” della sinistra;

· a tutto ciò si aggiunge il malgoverno e l’inefficienza che ha contraddistinto le regioni di sinistra, da Nord al Sud.

Ecco perché abbiamo tutti i numeri e tutte la carte in regola per vincere le regionali. E dunque, le vinceremo. Questa situazione, questi dati di fatto, non significano però avere già la vittoria in tasca. Ogni battaglia va combattuta, ogni partita va giocata: anche quella delle regionali.

Ciò vuol dire che il centrodestra non deve farsi cogliere dalla sindrome della pancia piena. La sinistra è stata travolta, oltre che dal suo malgoverno, dal distacco dalla gente e dalle faide interne: noi non corriamo questi rischi.

Ma, appunto, ogni campagna fa storia a sé. Il consenso esteso e maggioritario in tutta Italia dimostra due cose: il centrodestra ha ben governato, e Berlusconi è riconosciuto come unico leader nazionale. Tuttavia da una forza simile ci si aspetta, giustamente, che si facciano le scelte giuste sul territorio. Anche in termini di candidature.

In questi due anni siamo riusciti a rovesciare maggioranze che parevano inattaccabili, a scardinare feudi e sistemi di potere in apparenza collaudati. Parliamo per esempio della Sardegna, della provincia di Milano, di Prato, di Sassuolo. Ovunque, in partenza, numeri e sondaggi ci davano in svantaggio: la forza dei fatti, della credibilità di Berlusconi e il malgoverno altrui ci hanno consentito la vittoria.

Nelle Regionali la strada è in apparenza in discesa: dal Piemonte al Lazio, dalla Campania alla Puglia il centrodestra e le sue liste partono maggioritarie. E tuttavia in queste regioni esiste ancora un sistema di potere collaudato, al quale la sinistra si appiglia con operazioni anche propagandistiche.

L’esempio della Puglia è sintomatico. Il Pd ed i suoi dirigenti – Bersani e D’Alema in testa – sono andati incontro a una clamorosa sconfitta nelle primarie, eppure cercano di contrabbandarla come vittoria. Quanto a Nichi Vendola, esponente di quella sinistra estrema che tanti guasti ha prodotto al Paese ed a se stessa (basta pensare al governo Prodi), oggi si accredita come sinistra “nuova” e per così dire “dal volto umano”.

E’ una propaganda maliziosa e fasulla che tende a presentare come moderno ciò che in realtà è molto antico, un modello di sinistra che ha fallito ovunque e che non rappresenta certo un’alternativa per l’opposizione di un Paese come l’Italia. E dalla quale i moderati, in qualunque bandiera si riconoscono, non possono certamente farsi abbindolare, né tantomeno farsi sconfiggere.

Stesso discorso per il Lazio: qui la candidatura di Emma Bonino nasce da uno scandalo del governo regionale di sinistra, da una conseguente fuga dei dirigenti locali del Pd, dall’incapacità dei Democratici di assumersi le loro responsabilità, ingaggiando una candidata esterna. Emma Bonino ha avuto i suoi meriti in passato ed è inutile riesumare i suoi trascorsi abortisti. Più producente è ricordare il suo settarismo, il suo laicismo anticattolico, la sua totale incapacità di dialogare con il mondo moderato, soprattutto la storica inadeguatezza del mondo in cui milita, quello radicale, propenso alle polemiche e alle provocazioni spettacolari, ma incapace di amministrare la cosa pubblica; tanto più in una situazione complessa come quella attuale, ed in una regione strategica per i rapporti con il mondo cattolico, con il lavoro e con la sanità come il Lazio.

Sulla base di questi argomenti va condotta – e, ripetiamo, vinta, – la campagna per le Regionali. Forti di un consenso e di una credibilità che derivano in primo luogo da Berlusconi e dal governo nazionale. Con scelte azzeccate sul territorio, là dove sono ancora da compiere o da formalizzare; senza confidare sulle rendite di posizione. E con un atout che si è sempre rivelato vincente: l’impegno e la regia accorta, personale e politica, di Berlusconi. Vincere dunque la partita; ma ovviamente, prima, giocarla fino in fondo.

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Il Giornale

Piemonte:

“MACCHE' PAURA, VALIAMO IL DOPPIO”

Lombardia:

“QUI NON CI SUPERERANNO MAI”

ECCO IL “METODO LOMBARDIA”. COSI' L'ITALIA POTREBBE EVITARE UNO SPRECO DI 11 MILIARDI

Intervista a ROBERTO FORMIGONI: “NIENTE DERBY CON LA LEGA. IL PDL SARA' IL PRIMO PARTITO”

REGIONALI, PDL E LEGA A VALANGA: PRONTI A SFONDARE IL MURO DEL 60%

Veneto:

“IN VENETO COMPETIZIONE DURA, MA IL PDL RESTERA' IL PRIMO PARTITO”

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Quotidiano Nazionale
IL GIORNO / il RESTO del CARLINO / LA NAZIONE

Intervista a GIANCARLO GALAN

“LASCIO UN VENETO IN SALUTE. IO MINISTRO? AFFASCINANTE…”

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La Sinistra invece …

Tutti a casa, in un paese normale

di Gianfranco Pasquino

New York, 25 gen 2010 (Velino) – In quel paese normale che piace tanto a D’Alema, una cosa sola sarebbe successa in Puglia. Si sarebbero tenute le elezioni primarie non per accontentare chicchessia, ma perche’ stanno scritte nello Statuto del Partito Democratico. Tutto il resto e’ da paese anormale, a cominciare dai comportamenti di D’Alema. Primo, non si sfida l’incumbent, il detentore della carica, in special modo quando il giudizio sul suo operato non e’ negativo. Secondo, non si fanno prove tecniche di alleanze mai decise nel congresso, mai tenuto, di partito. Terzo, non scende in campo un leader nazionale (ovvero D’Alema stesso) per sconfiggere il presidente di una giunta appoggiata dal partito di D’Alema. Quarto, un partito federale, come il PD sostiene di essere, affida la scelta delle candidature ai dirigenti e agli elettorali locali. Non “unge” e non incorona nessuno. Quinto, non si ripresenta contro Vendola chi aveva gia’ perso cinque anni fa. Boccia doveva semplicemente starsene a casa, ovvero nel suo dorato rifugio parlamentare. Adesso, a casa, non alla presidenza di una commissione parlamentare, dovrebbe andare D’Alema, tirando le somme, non solo e non tanto delle molte sconfitte collezionate negli ultimi dieci anni, soprattutto quelle nella spasmodica ricerca di cariche, nazionali e europee, ma per la sua poIitica.

In compagnia di Veltroni e Fassino, ma piu’ di loro, D’Alema e’ un macigno sulla strada della costruzione di un partito normale, ovvero decente. Dove interviene D’Alema, dalla Puglia all’Umbria, si alza il livello del conflitto, ma non crescono i voti. Per rimanere ai fatti recenti, nel 2007 D’Alema spinse Veltroni a fare il segretario del PD, impedendo a Bersani di candidarsi a sua volta. Poi, ingaggio’ la sua classica guerriglia sotterranea, gia’ nota e raccontata anche da Achille Occhetto, nei confronti di Veltroni. Di recente, proprio mentre il PD ha bisogno di darsi un profilo alto e alternativo fece capire che, insomma, qualche accordo con Berlusconi, lo si potrebbe anche cercare e stringere. A casa, pero’, non dovrebbe andare soltanto D’Alema. Il secondo candidato ad abbandonate la politica e’, come d’altronde aveva persuasivamente annunciato lui stesso, Veltroni. Nel 2001 porto’ i Democratici di Sinistra al punto percentuale piu’ basso della loro gia’ non esaltante storia politico-elettorale. Nel 2008 condusse baldanzosamente il Partito Democratico ad una sconfitta memorabile dalla quale non si e’ ancora rialzato. In coda a quella sconfitta nazionale, qualcuno lo deve ricordare, si trova anche la sconfitta del revenant Rutelli al comune di Roma. Infine, proprio mentre Rutelli dichiara apertis verbis il fallimento del Partito Democratico e se ne va a cercare qualcos’altro, da lui confusamente definite, tocca a Fassino prendere atto che il progetto suo e di Rutelli non ha funzionato e, coerentemente, ad andarsene.

Attuata frettolosamente, la fusione fra DS e Margherita, non ha avuto nessun effetto di attrazione ne’, tantomeno, di “ibridazione” di non meglio precisati riformismi. Chi puo’ credere che sia sufficiente dichiarare che l’esperimento e’ riuscito soltanto perche’ i due cosiddetti ticket per l’elezione del segretario vedevano insieme un ex-DS e un esponente della Margherita e viceversa: Bersani-Bindi; Franceschini-Fassino, mentre a livello locale, che i dirigenti nazionali dovrebbero conoscere e non manipolare, si procedeva a spartizioni concordate? Se il Partito Democratico deve diventare un veicolo politico efficace, e’ imperativo che i responsabili delle scelte sbagliatissime se ne vadano, escano dal Parlamento e dalla politica. Almeno, questo e’ quello, proprio perche’ sono stati uomini di partito e al partito debbono molto, che fanno i dirigenti politici nei paesi “normali”. Lasciano, senza astio e senza rancore, e aprono la strada al rinnovamento, non quello che vogliono loro, ma quello che vogliono iscritti e elettori.

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