Ics anni dopo

Fu vera gloria? O non anche infamia?
Questo, in breve, il dilemma Craxi a dieci anni dalla scomparsa.

di Andrea Ermano

Le sue ossa stanno sepolte in Tunisia, nel luogo dell'autoesilio con cui egli reagì alle inchieste di Tangentopoli. Quando morì, per il suo rango istituzionale d'ex premier, Palazzo Chigi propose i funerali di Stato. L'offerta venne respinta dalla famiglia, con sdegno analogo a quello manifestato anni prima dai congiunti di Aldo Moro.

Fu vera gloria, quella di Bettino Craxi?

Un uomo di cui si dibatte accesamente a dieci anni dalla morte, e ognuno dice la sua, ognuno ha un sentimento un risentimento un odio un affetto… È sotto gli occhi di tutti il suo trionfo postumo nella memoria e nel sentimento del popolo garibaldino.

Ma fu anche infamia, la sua?

Senz'alcun dubbio Craxi, grande premier, non rappresentò la miglior leadership che la storia del socialismo italiano tramandi. L'uso delle mazzette, non solo come strumento di competizione verso Dc e Pci, ma anche come fattore strutturale nella lotta interna al Psi, finì per mutare quel vecchio e glorioso baluardo d'umanità scapigliata in qualcosa di molto differente.

Ma, si sa, il partito per i socialisti è strumento, non fine. E Craxi di quello strumento aveva bisogno per un suo disegno d'innovazione. Amava l'Italia. L'amava molto, moltissimo, troppo. Quando la prese in consegna, primo presidente del Consiglio socialista, l'Italia versava in uno stato pietoso, avvilita da una profonda crisi economica e attraversata da terroristi assassini. La trasformò in un paese meno violento, meno depresso e più contento delle proprie capacità.

Amava l'Italia. Avrebbe voluto riformarla. Capiva l'urgenza delle riforme. Detestava l'ipocrisia gattopardesca dei dollari e dei rubli. Voleva portare al governo una vera classe dirigente. E di fronte ai briganti decise di far “brigante e mezzo”, come dice Marco Pannella, vecchio sodale di Craxi fin dai tempi dell'università.

Primum vivere deinde philosophari, sentenziò una volta Ghino di Tacco. E imbarcò nel Psi un esercito di mercenari, sbarcando del pari quel coeacervo di correnti litigiose che gli parvero votate a soccombere nella morsa tra l'ortodossia comunista e l'unità politica dei cattolici.

Dimentico dell'insegnamento di Machiavelli sui mercenari – onerosi in tempo di pace, infami in tempo di guerra – finì travolto non dalle correnti e in fondo nemmeno da Tangentopoli (non s'offendano gli onorevoli giudici), ma da una fisima tutta craxiana e assurda: riformare la patria della Controriforma.

Così, quando l'establishment se lo ritrovò tra le mani o quasi, non vide l'ora di poterlo sottoporre allo scannamento rituale (una sorte oggettivamente diversa rispetto a quella toccata ad altri leader europei come Kohl o Chirac). E allora Bettino risolse: “Non tornerò in Italia né da vivo né da morto”.

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La scomparsa di Craxi è coincisa con il collasso del progetto diessino. Amato e D'Alema volevano restituirci (ricordate?) “una grande forza socialista democratica di stampo europeo capace di concorrere al governo del Paese”. Poi la doppia virata veltroniana ha condotto i DS dentro al PD, Prodi fuori dal governo e la sinistra, tutta, al naufragio.

Ora che Bersani è al timone del partito nuovo, Bobo Craxi giudica “evidente che il centrosinistra va sempre più verso la formazione di un soggetto socialdemocratico”. Speriamo. Sarebbe soltanto che ora.

Ciò detto a proposito della situazione in Italia sia consentito aggiungere qui alcune poche parole sul socialismo d'emigrazione.

“Socialismo d'emigrazione” è il filo di una continuità politico-organizzativa che finora ha retto alla lunga durata sfidando il tempo e l'arroganza del potere. Nel nostro Paese, infatti, l'esistenza stessa di una formazione politica socialista viene messa in forse ripetutamente e periodicamente. È successo varie volte durante il secolo trascorso. Eppure la nostra più antica tradizione politico-organizzativa batte bandiera rossa, grazie al socialismo d'emigrazione.

È stato Craxi, nel centenario del Psi, a mettere in luce questa funzione di continuità del socialismo d'emigrazione. Lo ha fatto pubblicando la raccolta de L'Avvenire dei lavoratori a direzione siloniana. Silone aveva assunto la guida del Centro Estero socialista dopo l'invasione nazista della Francia dove aveva sede la direzione del Psi in esilio. Il passaggio delle consegne avvenne nel 1941 e Silone mantenne la leadership fino alla “ricostruzione in Italia di un forte Partito Socialista”, resa possibile grazie al lavoro clandestino ed eroico di Colorni.

Nelle Avventure di Tonio Zappa Silone narra di un cafone abruzzese che prende la valigia e vaga per l'Europa, risucchiato in una ridda di miseria, di emarginazione e di lotta di classe (dall'alto) che egli subisce, fin dentro la galera: “Non ti basta che migliaia d'operai si spostino da un carcere d'Europa all'altro?”, chiede Tonio a fine racconto.

Sono gli anni della grande crisi, quando l'America vara il new deal mentre l'Europa scivola nel nazi-fascismo: “Migliaia di Tonio Zappa si spostavano da un paese all’altro in cerca di pane. Ma il pane sfuggiva loro. Peregrinavano di paese in paese, ma la crisi li precedeva”.

Ogni riferimento alla condizione migrante nel nostro Paese è puramente intenzionale.

Il socialismo d'emigrazione nasce a fine Ottocento, in un'epoca di sanguinose persecuzioni anti-italiane: quattro operai ammazzati e ottanta feriti all'imbocco della galleria del Gottardo. Protestavano contro condizioni inumane (ma, a ben vedere, non peggiori di quelle in cui versano certi immigrati nell'Italia di oggi).

La caccia all'italiano culmina a Zurigo nei violentissimi Krawalle, che perdurano diversi giorni: “Anche i nostri nonni furono portati in salvo come i neri di Rosarno”, ci ricorda Gian Antonio Stella dalle colonne del Corriere della Sera: “Le autorità furono costrette a organizzare dei treni speciali per sottrarli nel 1896 al pogrom razzista scatenato dai bravi cittadini di Zurigo”.

Queste, dunque, le radici del socialismo d'emigrazione, quello della continuità politico-organizzativa, stessa faccia e stessa razza degli schiavi di Rosarno.

Ciò detto, care e cari, andate. Planate pure sull'altra sponda del mare, tra le dune magrebine, con le vostre telecamere per grazia ricevuta. Ma, giunti a quella lapide, appoggiate tutto sulla sabbia. E portate anche il nostro saluto, per favore, unitamente a quello dei nostri fratelli schiavi d'Italia.

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O vi si sfaccia la casa,

La malattia vi impedisca,

I vostri nati torcano il viso da voi.

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