di Luigi de Magistris
Parlare per mezzo del tritolo, inviando un messaggio minaccioso alla magistratura e alle forze dell’ordine per ricordare loro quanto possa essere salato il prezzo da pagare quando si decide di mettere i bastoni fra le ruote al crimine organizzato. L’attentato alla Procura generale di Reggio Calabria non è purtroppo una novità per questa città divenuta da tempo teatro di attentati dinamitardi compiuti dalla ‘ndrangheta nei confronti delle Istituzioni democratiche. E’ accaduto infatti spesso, soprattutto negli ultimi anni, che l'attività inquirente calabrese si sia concentrata ad illuminare i rapporti illeciti tra politica e crimine organizzato, cercando di far luce su come gli interessi economici mafiosi siano stati favoriti da personaggi “deviati” dello Stato.
L’obiettivo è stato quello di colpire i boss in ciò che hanno di più caro: il patrimonio e gli interessi economici su cui le nuove mafie hanno costruito la loro forza, infiltrando lo Stato e l’economia, cercando di inghiottire i finanziamenti pubblici, conquistando gli appalti, corrompendo le amministrazioni. Ecco che di fronte a questa operazione di legalità, arriva l’ennesima risposta delle ‘ndrine, arriva la voce minacciosa del tritolo posizionato davanti ad un palazzo delle Istituzioni, davanti una Procura generale.
Si chiama strategia della tensione ed è il mezzo di comunicazione più diretto che la 'ndrangheta possiede per mettere il suo stop al tentativo di contrastarla, soprattutto nei suoi interessi economici. Le confische ai beni criminali anche al di fuori del territorio calabrese, l’individuazione delle varie forme di riciclaggio, la scoperta dell’infiltrazione nell’uso dei finanziamenti pubblici, gli arresti importanti degli ultimi mesi: è questo che la ‘ndrangheta vuole azzerare, inviando un messaggio non solo alla magistratura e alle forze dell’ordine, ma anche alla politica. Non tanto forse a quella che ancora resiste, operando nella limpidezza istituzionale e perseguendo il bene comune, ma a quella corrotta e corruttibile, che fa da sponda al crimine organizzato, che lo favorisce concedendo le risorse pubbliche e gli appalti. Quasi a ricordargli il patto occulto di fedeltà, i suoi doveri immorali verso il crimine. E perché no, anche al Governo. Lo stesso che a parole propaganda la lotta alle mafie e che tenta di attestarsi impropriamente meriti che sono solo dei magistrati e delle forze dell’ordine, ma poi introduce misure che sembrano dettate da Riina e Provenzano piuttosto che da ministri e sottosegretari: ronde, ddl intercettazioni, possibilità di vendere all’asta i beni sottratti dallo Stato alle mafie, sottoposizione del pm al Governo.
Di fronte a questo scenario, che vede realizzarsi di fatto un asse di interessi tra parte della politica ed il crimine organizzato, si deve mantenere alta la vigilanza democratica ed essere vicini a quelle donne e a quegli uomini delle Istituzioni impegnati per l'attuazione e la difesa della legalità, che pagano spesso il prezzo dell’isolamento e della delegittimazione da parte del loro stesso ambiente, perché rei di contrastare proprio quell’asse criminale e immorale che fa detonare anche la contraddizione dello Stato e dei suoi poteri. Sempre deve poi guidarci la consapevolezza che la lotta alle mafie è emergenza nazionale e internazionale e che la liberazione da questo cancro significherebbe non solo la conquista della libertà morale del Paese, ma anche una liberazione dell’economia dal gioco soffocante dei boss che la condizionano ai danni dello sviluppo collettivo.