L’Onda verde diventa una rivoluzione

Fino alla domenica di sangue del 27 dicembre nessuno osava dare questa etichetta al movimento L’opposizione non contesta più le sole elezioni: vuole cacciare Ahmadinejad e l’ayatollah Khamenei

di Gian Micalessin

La grande scommessa adesso si chiama rivoluzione. Fino al 27 dicembre nessuno pronunciava quella parola, nessuno si sognava di pronosticarne l'avvento. Fino alla domenica di sangue segnata dalla morte di dieci dimostranti e di cinque esponenti delle forze di sicurezza trucidati dalle folle nessuno ci credeva. Nessuno osava attribuire all'«onda verde» di Mir Hosein Mousavi la capacità di far tremare il regime, metterlo con le spalle al muro, minacciarne la sopravvivenza.
Adesso quella sottile linea rossa è stata superata. Da domenica l’opposizione non si limita a contestare il risultato delle elezioni presidenziali dello scorso giugno. Da domenica Mir Hosein Mousavi e Mehdi Karrubi, i due grandi sconfitti di quelle elezioni, sono alla testa di un movimento di popolo che pretende innanzitutto la destituzione della Guida Suprema Alì Khamenei e di quel presidente Mahmoud Ahmadinejad considerato suo strumento e creatura.
Il primo a metterlo nero su bianco è Karroubi, un ayatollah figlio e protagonista della rivoluzione del 1979, un ex presidente del Parlamento che per molti anni ha occupato posti cruciali nella gerarchia del potere iraniano. Karroubi ora paragona quel potere a quello dell'«odiato Scià» accusandolo di aver le mani sporche di sangue e di utilizzare «gruppi di selvaggi» per tenere a bada la rivolta popolare. Accuse che sottintendono la necessità di riservare a Khamenei e ai suoi accoliti la stessa fine del monarca. La decisione di trafugare il cadavere di Ali Habibi Mousavi, il nipote dell’ex primo ministro freddato da un proiettile delle forze dell’ordine durante gli scontri di domenica, è un sintomo evidente dell'insicurezza del regime. I responsabili delle forze di sicurezza sanno che i funerali scatenerebbero nuove e più violente dimostrazioni e temono di non essere in grado di contenerle. Prima d’ora non era mai successo. Adesso invece uomini in divisa e miliziani hanno paura. E i filmati degli scontri di domenica lo dimostrano. Il più drammatico mostra un gruppo di agenti anti-sommossa schiacciati contro una cancellata da una folla di dimostranti. Mentre piovono pugni e bastonate un poliziotto insanguinato alza le mani e accetta di pronunciare la frase della resa «La Suprema guida Ayatollah Khamenei è un bastardo e noi siamo i suoi servi».
In un altro un furgone della polizia si lascia circondare e prendere a sassate da una ventina di giovani.
Quelle immagini richiamano con drammatica evidenza gli eventi di 30 anni fa. Anche allora la protesta inizialmente debole e isolata acquistò forza e volume spingendo le forze dello scià a deporre le armi per unirsi ai dimostranti. Molti ricordano che l’«onda verde» di Mousavi e Karroubi è un coacervo di forze tenute insieme soltanto dal desiderio di ribellione contro gli abusi e la protervia del regime. Il movimento che portò al tracollo la monarchia non era molto diverso. Le grandi dimostrazioni del 1978 e del gennaio 1979 non avevano un vero leader perché l’Imam Khomeini era in esilio a Parigi. E il movimento islamico, seppur più organizzato grazie all’appoggio delle moschee, era in netta minoranza rispetto ai gruppi nazionalisti, alla sinistra e al resto dell'opposizione.
La vera forza della «rivoluzione islamica» fu la sua capacità di continuare a rotolare aggregando come un sassolino diventato valanga giovani, donne e anziani accomunati dalla voglia di cambiamento. Da sei mesi il movimento di Mousavi fa lo stesso. Continua, nonostante la spietata repressione, a rotolare e ad acquistare forza e volume. La differenza a questo punto possono farla gli uomini all’interno della struttura di potere e l'appoggio degli Stati Uniti e dell'Occidente. La fuga dello Scià non venne seguita dall'immediata trasformazione del sistema, ma da un periodo di transizione in cui rivoluzionari e forze dell'ex regime scesero a patti per garantire il controllo del Paese.
Oggi il passato potrebbe ritornare. Basterebbe che un personaggio come Alì Akhbar Rafsanjani riunisse gli 86 ayatollah dell’Assemblea degli Esperti e facesse votare un decreto in cui si sanciscono l’indegnità della Suprema Guida e l’improrogabilità delle sue dimissioni.
Ma a far la differenza possono contribuire anche le pressioni esterne. Aiutare concretamente l’opposizione iraniana è oggi molto difficile perché tutti gli sforzi della Cia e degli organi d'intelligence occidentali si sono concentrati in questi ultimi anni sul dossier nucleare.
Un sostegno troppo esplicito al movimento di Mousavi rischiava inoltre di delegittimare i riformisti offrendo ai duri del regime l’opportunità di liquidarli come burattini dei nemici dell’Iran. Barack Obama potrebbe però rilanciare la politica di sostegno alle minoranze iraniane già intrapresa durante la presidenza di George W. Bush. Finanziando e appoggiando i curdi del Pejak, il movimento indipendentista azero, le minoranze arabe in subbuglio nelle province petrolifere del Kuzhestan e delegando ai pakistani la gestione di alcuni movimenti terroristi sunniti come quello di Jundallah nel Balucistan la Cia può costringere l'apparato repressivo iraniano a disperdere le proprie forze su più fronti e amplificare il senso d'insicurezza del sistema. A quel punto spetterà a Mousavi e alle piazze in rivolta assestare la spallata finale.

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La tv di Teheran adesso ammette: «È strage, 15 morti negli scontri»

Retata di capi dell’opposizione ma i manifestanti non si fermano Obama: «Usa con chi aspira alla giustizia». Protesta anche Mosca

Ancora violenti scontri di piazza. E retate di oppositori. E la sparizione del corpo di un nipote, ucciso domenica, di Mir Hosein Mousavi, il più acclamato leader anti Ahmadinejad. Sono i fotogrammi di un’altra giornata rovente della nuova sollevazione popolare iraniana, cominciata con il blitz degli apparati di sicurezza per arrestare una decina di riformisti, tra cui alcuni stretti collaboratori di Mousavi e dell’ex presidente Mohammad Khatami. Il giro di vite è una ritorsione dopo i gravi incidenti scoppiati domenica in varie città, con le manifestazioni a cui hanno partecipato decine di migliaia di oppositori sfociate nel sangue. Dalle Hawaii, dove è in vacanza, ieri è arrivata la «dura condanna» del presidente americano Barack Obama. Gli Stati Uniti stanno con chi aspira alla giustizia, ha detto.
I blog dell’opposizione ieri hanno riferito che nuovi scontri sono avvenuti in serata a Piazza Haft Tir, nel centro di Teheran, dove la polizia avrebbe sparato lacrimogeni per disperdere un migliaio di manifestanti, ma non è chiaro a che punto anche ieri siano scoppiate violenze. Due degli arresti di ieri sono stati effettuati nel corso di una irruzione nella fondazione Baran, che fa capo a Khatami: la polizia avrebbe arrestato il direttore, Morteza Haji, ex ministro delle Cooperative, e il suo vice, Hassan Rassuli, secondo quanto riferito dal sito dei deputati riformisti Parlemannews. Allo stesso tempo i servizi di sicurezza prelevavano tre dei consiglieri di primo piano di Mousavi: Ali Reza Beheshti, Ghorban Behzadian-Nejad e Mohammad Bagherian. Un altro sito riformista, Jaras, ha detto che è stato arrestato anche Ebrahim Yazdi, 78 anni, già ministro degli Esteri nel primo governo rivoluzionario, nel 1979, e leader dell’organizzazione dissidente Movimento per la liberazione dell’Iran. In manette è finito anche il giornalista Emadeddin Baqi, responsabile dell’Associazione per i diritti dei detenuti. Ma è un’altra la novità che ha incuriosito gli osservatori dei fatti iraniani. Per la prima volta la tv di Stato ha ammesso che gli scontri hanno causato morti (si è parlato di 15 vittime), descrivendo tra l’altro, e anche questo è sorprendente, un quadro diverso rispetto a quello raccontato dai comunicati ufficiali della polizia.
Le cifre della strage di domenica tra l’altro non coincidono con quanto comunicato da Press Tv, la tv in lingua inglese che trasmette all’estero, secondo la quale i morti sarebbero stati otto in tutto il Paese. Notizia che invece coincide con il bilancio stilato dai siti dell’opposizione, i quali hanno svelato anche le identità dei caduti. Tra loro c’è Ali Habibi Mousavi, il nipote del leader dissidente, al centro di un piccolo giallo. Le autorità hanno ritardato la consegna alla famiglia del corpo. Forse è anche un modo per ritardare lo svolgimento dei funerali, sicuro spunto per nuovi raduni di protesta. L’agenzia ufficiale Irna si è limitata a far sapere che la salma è trattenuta «per l’autopsia e l’inchiesta giudiziaria». Secondo i ribelli, Mousavi e almeno altri tre dei morti di domenica, sarebbero caduti sotto i colpi di armi da fuoco, mentre la polizia sostiene di non aver sparato. Del resto l’avevano già sostenuto quando morì Neda Aqa-Soltan, la giovane uccisa nelle manifestazioni di giugno, le immagini della cui agonia erano finite sul web.
Diversi Paesi occidentali, tra i quali l’Italia per voce del ministro degli Esteri Franco Frattini («L’Occidente non può restare impassibile di fronte ai morti e allo straordinario anelito di libertà del popolo iraniano») hanno condannato ieri le violenze sugli oppositori. Ma anche la Russia, che con il governo di Teheran ha ottimi rapporti, ha chiesto «moderazione» per «evitare una escalation del confronto interno».

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Il portavoce «Ucciso il nipote di Mousavi È un’esecuzione»

L’uccisione del nipote del leader dell’opposizione iraniana Mir Hosein Mousavi, Ali Habibi, è stata una vera e propria esecuzione. Lo ha detto il regista iraniano Mohsen Makhmalbaf, portavoce di Mousavi all’estero, citato da un sito riformista.
«Ali Habibi aveva ricevuto diverse minacce di morte per telefono», ha detto il regista al sito iraniano www.mardomak.biz. «Ieri, nel giorno dell’Ashura, una Patrol si è fermata davanti alla sua abitazione. Un uomo è sceso dall’auto e gli ha sparato al petto in modo che la pallottola uscisse dall’altra parte. Il fratello della moglie di Ali Habibi lo ha caricato in macchina per portarlo all’ospedale ma durante il tragitto è morto. Il cadavere è stato portato via dall’ospedale per impedire una cerimonia funebre di grande portata», ha aggiunto Makhmalbaf.

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Tutti i giovani sono in piazza e i leader sono scomparsi

di Marta Allevato

Sembrano lontani, lontanissimi, i tempi in cui dal tettino della sua auto, immerso in un fiume di gente che scandiva il suo nome, Mir Hosein Mousavi incitava gli iraniani a protestare contro la rielezione fraudolenta del presidente Ahmadinejad. Lontani i tempi in cui le strade di Teheran, infiammate dalla rivolta antiregime, erano un brulicare di striscioni e manifesti col suo ritratto. Eppure era solo giugno scorso. Eppure sembrava avere il popolo ai suoi piedi.
Mentre l'Iran scende in piazza per rovesciare definitivamente il regime islamico, dove sono finiti i leader dell'Onda Verde? Dove i loro principali sponsor, gli ex presidenti Mohammad Khatami e Akbar Hashemi Rafsanjani?
A Teheran la gente grida «Mousavi aiutami», ma sia lui che l'altro ex candidato, il religioso moderato Mehdi Karroubi, sono ridotti al silenzio. Controllati a vista dalle forze di sicurezza, da mesi minacciati in ogni modo, ma anche incapaci di portare avanti una rivolta che li ha visti protagonisti quasi involontari e che ormai ha preso una direzione che va ben oltre i loro primi intenti. In questi giorni entrambi non sono scesi in piazza, né hanno diffuso comunicati significativi. Karroubi, un mullah moderato, si è limitato (dopo 48 ore di sangue) a criticare il regime per la violenta repressione delle manifestazioni di domenica, nella ricorrenza religiosa sciita dell’Ashura. Su di lui pende la concreta possibilità di arresto: da ottobre è al centro di un'indagine per le sue denunce di sevizie sui manifestanti detenuti nelle carceri di Stato.
Tra gli uomini più potenti del Paese, l'ex presidente riformista Khatami è anche lui con le spalle al muro. Sabato stava tenendo un discorso pubblico in una moschea nel nord di Teheran, ma l'irruzione di un gruppo armato di basij lo ha costretto a interromperlo e a darsi alla fuga. Non solo: secondo il sito vicino ai riformisti Parlemannews, agenti della sicurezza hanno perquisito ieri la sua fondazione «Baran», arrestando due suoi collaboratori e sequestrando numerosi documenti.
Il movimento riformista sembra rimasto orfano anche del suo principale sponsor politico (e economico), l'ayatollah Rafsanjani. Era sua la regia dell'«insubordinazione» di Mousavi, ma ora lo «squalo» (come è chiamato l'ex presidente) sembra aver mollato la preda. Si sente parlare di più della figlia Faezeh, fermata già due volte in cinque mesi dalla polizia per la sua partecipazione ai movimenti di piazza.
Ma è all'ex primo ministro Mousavi che il regime del Grande Ayatollah Khamenei sta mandano i segnali più inquietanti. La morte, domenica a Teheran, di suo nipote Ali Habibi Mousavi è stata una vera e propria esecuzione. Non un caso. A detta di analisti iraniani, la scomparsa immediata della salma del giovane conferma la mano del regime dietro l'omicidio: è un avvertimento a Mousavi di non oltrepassare la linea.
La certezza è che nessuno di loro la sorpasserà. Perché né Karroubi, né Mousavi hanno scelto di essere leader: sono stati quasi trascinati dal popolo e hanno guidato un movimento che ora è diventato più grande di loro. Perché la gente non grida più contro i brogli, bensì «Morte a Khamenei», uno slogan mai pronunciato da nessuno dei due riformisti. Perché la gente chiede di rovesciare un sistema, che è quello della dittatura islamica, di cui entrambi gli ex candidati presidenziali fanno pienamente parte.
Già da alcune settimane su Twitter e nei blog circolano commenti come «Mousavi, questo è il momento di agire, devi condurci e fare il prossimo passo», «Quando deciderai di combattere veramente?». Nei cortei iraniani oggi si inizia a gridare un generico «leader, dateci le armi». Il popolo dell'Onda Verde ormai è maturo e cerca chi lo guiderà alla meta finale.

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Corriere della Sera

PRIMA PAGINA DI LUNEDI' 28 DICEMBRE 2009

CAMBIARE STRATEGIA

di Franco Venturini

PROTESTE IN IRAN, I PASDARAN SPARANO SUI MANIFESTANTI

“TUTTO IN RETE”. UNA SFIDA IN DIRETTA MONDIALE

L'ANNIVERSARIO DEI MARTIRI SCIITI

NEL NOME DI NEDA, VITTIMA GLOBALE

IRAN, IL PUGNO DI FERRO DEL REGIME SULLA PIAZZA

L'UE RICHIAMA TEHERAN AL “RISPETTO DEI DIRITTI VIOLATI”

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