Dada e surrealismo riscoperti

Una delle più imponenti e complete mostre mai realizzate su Dada e Surrealismo a cura dello storico dell’arte, saggista, poeta e filosofo Arturo Schwarz. Oltre 500 opere tra olii, sculture, readymade, assemblaggi, collage, disegni automatici ripercorrono nella sua interezza la nascita, il susseguirsi dei Manifesti e delle principali mostre, il cammino figurativo dei tanti protagonisti di questi due movimenti rivoluzionari che tanto potere eversivo hanno avuto tra le avanguardie artistiche del Novecento e tanta influenza hanno esercitato sull’arte successiva alla prima metà del secolo scorso.
La maggior parte delle mostre dedicate a questi due movimenti si sono limitate, quasi sempre, a presentare i protagonisti più conosciuti, dimenticando quelli – e furono numerosi e non di minor importanza storica – che vi militarono, contribuendo decisamente a precisarne l’etica e l’estetica. Entrambi non si limitarono ad essere una mera corrente artistica, ma proposero invece anche una filosofia della vita. Dada fu una rivolta per la rivolta, senza secondi fini e senza quindi, nella maggioranza dei casi, alcuna ambizione di carattere etico o estetico. Nichilisti convinti, i dadaisti partivano dalla tabula rasa per negare in modo radicale tutti i valori. Il Surrealismo, invece, nacque e si sviluppò sotto il segno dell’impegno, altrettanto radicale, e a tutti i livelli. Anzitutto a quello etico e politico nel senso più esteso del termine, implicando quindi una volontà di rinnovamento che non conoscesse mezze misure. La nostra mostra ha il pregio di offrire una panoramica – probabilmente unica per la completezza e la qualità delle opere esposte – dei soli due movimenti artistici delle avanguardie storiche che, oggi più che mai, hanno conservato la loro attualità e la loro carica eversiva. Singolare destino, quello del Dadaismo. Per cinquant’anni è stato ignorato quasi completamente sia dal pubblico di lettori e collezionisti, sia dagli “addetti ai lavori” – storici e critici letterari e artistici. Poi ci si è accorti che questa corrente, dimenticata da tutti – nata dopo i fauve, i cubisti, i futuristi, gli astrattisti, gli espressionisti, e che precedette solamente i surrealisti – ha inciso, in modo determinante, sulle teorie e la prassi dell’avanguardia contemporanea di questo dopoguerra.

Dada e il Surrealismo sono stati gli unici due movimenti dell’avanguardia storica a non limitarsi a una rivoluzione visiva, ma a propugnare invece una rivoluzione culturale, nel senso maoista di “rivoluzione ininterrotta” e di abolizione dell’antinomia tra teoria e pratica. Mentre gli altri movimenti di quegli anni proponevano una nuova ricetta culinaria – limitandosi alla ricerca di una nuova tavolozza pittorica o di un’inedita strutturazione dei volumi – Dada e il Surrealismo suggerivano una nuova filosofia della vita che contestava, tra l’altro, anche il senso della sperimentazione puramente formale dell’artista, ingabbiato in un ruolo elitario dalla sua specializzazione e vittima consenziente della divisione del lavoro. Torniamo all’inizio del secolo scorso per capire perché Dadaismo e Surrealismo abbiano rappresentato una rottura cosciente e radicale di una tradizione plurimillenaria. Nel 1933, Max Planck aveva già diagnosticato il momento di crisi generale di tutti i valori che l’umanità stava vivendo: “È un momento di crisi, nel senso letterale della parola. Si direbbe che in ogni ramo della nostra civiltà materiale e spirituale siamo arrivati ad una svolta critica”. Anche l’artista ? o forse l’artista più di altri – insorge contro le tavole del conformismo tradizionale e fa del proprio lavoro una testimonianza diretta della crisi storica in cui si trova a vivere. Tutte le leggi e gli imperativi che chiudevano il suo orizzonte gnoseologico ed esistenziale sono scetticamente sospesi e finalmente respinti. Una radicale problematicità investe l’intero codice della saggezza e della sapienza ereditarie. Urge violare quelle norme di “ragionevolezza” e di “buon senso” borghesi che, rivoluzionarie esse stesse alle origini, avevano preteso di trasformare in “naturale” la loro effettiva dimensione “storica”. Così il dadaista spinge ai limiti estremi la carica eversiva che era contenuta, alle origini, negli stessi termini ultimi della cultura romantica, e la dialettica di “ordine” borghese e “avventura” anarchica si pone, in concreto, sul piano estetico, come dialettica di “imitazione” e “invenzione”, cioè appunto nei medesimi termini in cui si era collocata all’inizio della rivoluzione romantica, ma rovesciandone il significato. All’inizio del Novecento, un artista o un poeta aveva davanti a sé, molto schematicamente, due direzioni possibili: perseverare nello stile della tradizione, dell’“ordine”, accettando un ruolo di semplice epigono, oppure rinnovare radicalmente i termini dell’espressione artistica e letteraria, scegliendo la strada dell’“avventura”. A questo punto Dada proclama la volontà di interrompere, con la sua tabula rasa, la continuità storica col passato. “A questo punto”, ma quando? La maggior parte degli storici dell’arte stabiliscono la data di nascita del movimento dada nel febbraio 1916, e cioè all’apertura, a Zurigo, del Cabaret Voltaire, per iniziativa di Hugo Ball e della sua compagna Emmy Henning, con la collaborazione di Arp, Huelsenbeck, Marcel Janco e Tzara. Come ogni data storica anche questa è ingannatrice. Se ci si riferisce a Dada a Zurigo, allora bisogna spostare l’atto di nascita dello spirito dada in Svizzera di quasi tre anni, cioè al dicembre 1918, quando, nel terzo fascicolo di Dada, viene pubblicato il Manifeste Dada 1918 di Tzara. Sino a quel momento, infatti, Dada rimane un movimento genericamente innovatore che differisce poco o niente dalle altre correnti dell’avanguardia storica. Così, accoglie tra i suoi collaboratori, e tra gli espositori alle sue collettive, cubisti, futuristi, astrattisti ed espressionisti. Questo eclettismo è particolarmente evidente nei primi due fascicoli di Dada, in cui appaiono pêle-mêle testi di Alberto Savinio, Francesco Meriano e Nicola Moscardelli e illustrazioni di Pablo Picasso, Robert Delaunay, Vasilij Kandinskij e Giorgio De Chirico. Le mostre della Galleria Dada sono altrettanto generiche e ospitano, per esempio, oltre a cubisti e astrattisti, anche il gruppo espressionista Der Sturm di Berlino.

Ricordiamo che Dada non fu mai una scuola, ma uno “stato d’animo”, un incontro tra giovani arrabbiati accomunati dallo stesso spirito libertario. Oggi assistiamo a una vera e propria rinascita di questo spirito perché le condizioni sociali e filosofiche dell’ultimo ventennio sono molto simili a quelle che avevano favorito lo sviluppo di Dada negli anni 1916-1923. È chiaro però che la rivolta, appunto perché tale, non può ripetere i gesti precedenti. Ricadrebbe in un nuovo conformismo, condannerebbe i suoi protagonisti al ruolo d’epigoni. Eraclito lo ricorda: non si può entrare due volte nello stesso fiume. Ogni generazione scoprirà dunque i propri strumenti di rivolta e creerà la rivolta a sua immagine e somiglianza. Ne siamo d’altronde testimoni. Probabilmente stiamo vivendo un secondo Rinascimento. Intuirlo, cercare di capirlo, è una sensazione esaltante poiché non vi è più esplicito atto di fede nelle possibilità dell’uomo quanto quello nella sua creatività. E la creazione è sempre vitale per essenza e ottimista per natura. Spero non sia necessario ricordare l’importanza considerevole che ha avuto il Surrealismo nella cultura della nostra epoca, importanza che oggi non è certo diminuita, anche se agisce in modo più sotterraneo, se pensiamo all’attuale ampia diffusione internazionale dei gruppi surrealisti – oltre una ventina disseminati tra l’Europa, le Americhe, l’Asia, l’Oceania e l’Africa – e all’abbondanza delle loro pubblicazioni (oltre duecento periodici). Puntualizziamo però che, a sua volta, il Surrealismo non è certo nato nel 1924, con il primo Manifesto del Surrealismo redatto da Breton, ma nel 1914. Limitiamoci a ricordare la scoperta da parte di Breton, degli scrittori che ebbero un ruolo determinante nello sviluppo del pensiero surrealista- Arthur Rimbaud, Jacques Vaché, Alfred Jarry, Guillaume Apollinaire, Sigmund Freud e Lautréamont- avvenuta tra il 1914 e 1918. Freud fu l’ultima scoperta cruciale fatta nel 1916. In quegli anni lo psicanalista viennese era quasi sconosciuto in Francia – la traduzione francese di una sua opera fu edita a Ginevra solo nel 1921. All’inizio della guerra Breton era uno studente di medicina. Fu nel corso delle sue letture psichiatriche che egli scoprì Freud. Lo colpirono la qualità poetica delle associazioni verbali spontanee dei malati mentali, e la tecnica della scrittura automatica derivò proprio da queste osservazioni. Ricordiamo pure che il suo primo testo automatico, Usine, fu pubblicato tre anni dopo, nel settembre 1919, in Littérature. In Lautréamont – anch’egli quasi totalmente sconosciuto allora, ,, e infatti Breton lo leggerà solo nel 1918 – egli trovò la “rivelazione totale” e la conferma di tutte le proprie intuizioni: l’anticipazione dello spirito moderno in tutti i suoi aspetti più sovversivi; l’importanza del linguaggio e della poesia, strumento di conoscenza destinato a illuminare la via verso la rivoluzione; il ruolo fondamentale dell’immaginazione (e della sorpresa); il rifiuto dell’aspetto utilitario-borghese delle attività intellettuali; il significato più profondo della crisi di tutti i valori. Nel suo celebre saggio del 1928, Il Surrealismo e la pittura, Breton rilevava che assegnare all’arte soltanto una funzione mimetica ne snaturava e ne limitava la natura: “Un’idea molto limitata dell’imitazione, indicata all’arte come fine, è all’origine di un grave equivoco che vediamo prolungarsi sino ai nostri giorni. Partiti dal presupposto che l’uomo sia capace soltanto di riprodurre, più o meno felicemente, l’immagine di ciò che lo tocca, i pittori si sono mostrati sin troppo concilianti nella scelta dei loro modelli”. Nell’arte dei surrealisti predomina l’esigenza della fedeltà al “modello interiore”, non vi è posto per una ricetta estetica o un cliché figurativo: niente accomuna la pittura di Max Ernst, André Masson, Man Ray, Joan Miró o Yves Tanguy (per citare solo alcuni dei partecipanti alla prima collettiva surrealista del 1925); niente salvo, appunto, una comune esigenza ideale – quella d’essere fedeli a se stessi, e non, certamente, la preoccupazione di fare una “bella pittura”. Le esigenze estetiche passano quindi in secondo ordine dal momento che primeggia la volontà di esprimere, con la maggiore autenticità possibile, i propri sogni e desideri, la propria visione del mondo. È un fatto occasionale anche se non irrilevante che questa esigenza abbia prodotto alcuni tra i maggiori capolavori dell’arte moderna e contemporanea. Quello che conta, per il surrealista, è la valenza iniziatica ed eversiva dell’opera. Il criterio che permette di decidere se un’opera plastica è surrealista, “è forse necessario ripeterlo? non è di ordine estetico”, confermerà Breton, aggiungendo: “Quello che qualifica l’opera surrealista è, prima di tutto, lo spirito con il quale è stata concepita. Se si tratta di un’opera plastica, il valore che le diamo può essere funzione o del sentimento di vita organica che libera o del segreto di una nuova simbologia che porta in sé”. In conclusione vorrei precisare che la mia ambizione è stata quella di essere il più fedele possibile – anche dal punto di vista filologico – alla storia di questi due movimenti: quindi, gli artisti presenti in questa rassegna sono esclusivamente quelli che hanno partecipato, in prima persona a queste due esperienze, tutt’ora, come già detto, più vitali che mai. Per motivi di spazio ho chiuso la scelta degli artisti surrealisti a quelli che hanno esposto nelle collettive surrealiste vivente Breton, e quindi al 1965. Ciò, nonostante il movimento surrealista ha continuato a svilupparsi, non solo in Francia ma anche nelle due Americhe e in Europa. Infatti, come ricordava André Breton, l’attività surrealista “non corre alcun serio rischio d’aver termine, finché l’uomo sarà in grado di distinguere un animale da una fiamma o da una pietra”.

Informazioni:
Comunicare Organizzando
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info@comunicareorganizzando.it

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Informazioni Evento:
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Data Inizio:09 ottobre 2009
Data Fine: 07 febbraio 2010
Costo del biglietto: 10,00 euro
Luogo: Roma, Complesso del Vittoriano
Orario: Dal Lunedì al Giovedì: 9.30-19.30 Venerdì e Sabato: 9.30-23.30 Domenica: 9.30-20.30

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Dove:
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Complesso del Vittoriano
Il nome deriva da Vittorio Emanuele II, il primo re d'Italia. Alla sua morte, nel 1878, fu deciso di innalzare un monumento che celebrasse il Padre della Patria e con lui l'intera stagione risorgimentale. Il Vittoriano doveva essere uno spazio aperto ai cittadini.
Il complesso monumentale venne inaugurato dal Vittorio Emanuele III il 4 giugno 1911. Fu il momento culminante dell'Esposizione Internazionale che celebrava i cinquanta anni dell'Italia unita.
Il modello generale del Vittoriano si ispira ad esempi greci e latini classici.

Proprietà: Comunale
Città: Roma
Indirizzo: Piazza Venezia
Provincia: Rm
Regione: Lazio
Sito web:

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