Il regime e la speranza

Mi aveva rincuorato, qualche giorno fa, un’intervista sull’Unità (23 settembre) ad Aldo Schiavone, un intellettuale che è stato tra l’altro direttore dell’Istituto Gramsci negli anni Ottanta. Mi ero detto: allora la mia diagnosi non è cervellottica. Berlusconi è al capolinea. Aggiungeva Schiavone: “Il berlusconismo è esaurito, evaporato”. Come chi segue queste note sa, grosso modo è la mia idea, anche se forse penso (anzi, pensavo?), che il berlusconismo è una delle forme eterne in cui si manifestano i mali d’Italia. Cambiano i nomi, e quei mali restano, anche se con il cavaliere la situazione ha imboccato una via senza ritorno.

Mi aveva rincuorato, dunque, leggere Schiavone, anche perché v’è bisogno di un minimo di ottimismo della volontà, pur temperato dal pessimismo della ragione: e lo stesso Schiavone, opportunamente, richiamava le analisi gramsciane sul “sovversivismo delle classi dirigenti” italiane. Solo che, a giudicare dalle ultimissime ore, davanti alle estreme esternazioni berlusconiane alla “festa” del suo partito (suo nel senso proprietario, che è la sola forma di relazione che quell’uomo concepisca), il conforto si è rovesciato in sconforto, e quella vena di ottimismo sia pur pallido si è assottigliata. Un’amica residente in Spagna, felicemente, mi ha telefonato stasera per commentare, tra sgomento e compatimento per me che vivo nel fu “Bel Paese”, quelle esternazioni, cosa che peraltro aveva fatto con me, poco prima, un medico da cui mi ero recato per una visita; e il giorno prima, uno sconosciuto in ascensore. Come dire: non ne trovo uno, che si dichiari per lui, che ne approvi le gesta, e anzi non ne sia disgustato dai gesti, dalle battute, dal ghigno. Non ne trovo uno: eppure ci sono. Esistono. E sono fra noi. E sono tanti: anzi, come recitava il primo inno forzitaliota, sono «tantissimi». Molti di quei tantissimi, erano a Milano, l’altro giorno, in visibilio, a spellarsi le mani davanti alle ultime beceraggini da circo di quart’ordine del loro capo, che ormai come un vecchio pugile provato dai colpi ricevuti alla testa nella sua carriera, ripete sempre le stesse frasi. E, incredibile a dirsi, quelle grevissime balordaggini, o peggio, quelle ingiurie, quelle minacce, suscitano applausi, festeggiamenti, ovazioni.

Un caso clinico, non v’è dubbio. L’egolatria di Berlusconi costituisce un caso all’interno del caso di studio rappresentato dall’Italia che “ha in mente”, l’Italia che egli sta destrutturando per costruirne una a sua immagine. Immagine, appunto, non sostanza. La sua, lo sappiamo, è una straordinaria politica di visibilità, di sonorità, di gestualità: l’apparire, conta, null’altro. Il parlare, parlare, parlare: non importa se oggi si dirà bianco e domani si dirà nero, non importa se ci si contraddirà ora dopo ora, importa stordire di parole chi hai davanti: in un teatro o nella gigantesca piazza mediatica della televisione.

Importa promettere l’impossibile, ché tanto il mondo è pieno di ingenui o sprovveduti pronti a crederti, se tu offri loro il sogno. E lui, il neoduce, è un abilissimo venditore di sogni. Ma un po’ alla volta la sua mano carezzevole si sta irrigidendo, il sorriso diventa un ghigno, e lo spiritoso intrattenitore si rivela un minaccioso ducetto, che usa i suoi scherani, giornalisti e ministri, veline e mezzibusti, per sondare il terreno: una volta Nanni Moretti ebbe a dire che Emilio Fede era uno squadrista, e che uno come lui in tv non faceva ridere, semmai faceva paura. Ora, che diremmo dei Brunetta, dei Sacconi, dei Calderoli, dei Maroni, e, buon ultimo, degli Scajola?

Ho scritto più volte in questo spazio che un nuovo fascismo si sta addensando nel cielo d’Italia. Ho ricevuto critiche, ma anche adesioni. Ora non posso che ribadire il concetto, che, giorno dopo giorno, appare, almeno a mio avviso, nulla più che la sintesi radiografica dell’Italia berlusconiana. La quale, come quella che diede il potere a un altro cavaliere, tale Mussolini, non si fa convincere solo a suon di manganellate, ma di promesse, di canzonette e programmi tv: ma soltanto quelli che siano diretta o indiretta emanazione del capo e del suo entourage. Per gli altri non dev’esservi spazio alcuno. Anzi, presto o tardi, l’epurazione, come mi è già capitato di sostenere, esprimendo un timore peraltro non infondato, colpirà oltre la tv, al di là dei media, nella scuola, nella cultura, e poi si passerà agli uffici e alle fabbriche.

Ebbene, se lo scenario è così fosco, davanti alle ovazioni riservate a Feltri e alla Gelmini, davanti al tifo per Silvio, dell’altro ieri a Milano, il barlume di ottimismo per un momento ha vacillato, e come diceva Bobbio, mi sono ripetuto: per questo Paese non c’è speranza. E invece no! La speranza deve esserci. Esiste “un’altra Italia”, quella “Italia civile” per cui appunto un Bobbio, un Galante Garrone, un Eugenio Garin (tre grandi intellettuali, tre grandi italiani, di cui ricorre quest’anno il centenario della nascita) hanno operato. Non imbracciando fucili, certo. Ma a volte le penne possono valer quanto e più dei fucili. Ed è per questo che dobbiamo lottare affinché, innanzitutto alle penne sia preservata la libertà. La libertà di lottare contro la menzogna, che contrasti l’altra libertà, quella di aggiogarsi al carro del padrone. Ma la gente seria, in politica come in cultura, nell’arte come nello sport, non lavora in vista di essere tra i vincitori dell’oggi. C’è tempo. Abbiamo tempo. Aspetteremo, lottando, con i nostri mezzi. Pazienza e ironia, ci hanno insegnato Gramsci e, prima di lui, Leopardi. E pazienza e ironia avremo.

Allora, su, non deprimiamoci. L’altra Italia alzi la testa. I pochi di oggi possono essere i molti di domani.

Angelo d’Orsi

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