SEGNALI DI RIPRESA E USCITA DALLA CRISI: “Passata la tempesta, odo augelli far festa….”

1. Introduzione e sintesiIl rapporto del Centro Studi Economia Reale si basa sull'analisi del quadro economico internazionale, secondo quanto emerge dai maggiori centri di previsione e dalle più importanti istituzioni economiche e finanziarie mondiali.Il consenso corrente in questo mese di settembre indica un andamento a “V” del ciclo economico internazionale. Sembrerebbe cioè che dopo la forte caduta del PIL in questo 2009 si profili una ripresa relativamente consistente già dal 2010.Rispetto a questo scenario, relativamente “ottimistico”, molti osservatori e centri studi internazionali pongono però alcuni elementi di rischio che porterebbero invece a un andamento a “W” o a “U” o addirittura a “L” del ciclo economico internazionale. A ciò si aggiungerebbe per l'Europa il “rischio” di un ulteriore forte apprezzamento dell'euro fino a 1,60-1,70 in rapporto al dollaro al quale resta agganciato comunque lo yuan cinese che quindi si svaluterebbe ulteriormente rispetto all'euro penalizzando ancor più le produzioni europee.Nonostante questi elementi di rischio, il consenso internazionale assegna ancora oggi maggiori probabilità allo scenario di un ciclo economico internazionale a “V”.Da questo quadro “esterno” dell'economia mondiale – relativamente ottimistico – abbiamo derivato l'andamento tendenziale dell'economia italiana per i prossimi anni, valutando i profili della produzione, dell'occupazione, dell'inflazione e della finanza pubblica conseguenti agli effetti che l'economia mondiale ed europea in particolare esercitano sul sistema economico italiano. In queste condizioni l'economia italiana avrebbe una lenta e modesta ripresa nei prossimi anni, fatto in sé positivo, ma troppo lento e troppo lungo sarebbe il percorso di recupero almeno delle condizioni esistenti nel 2007 prima della crisi.Infatti, il PIL in valore reale tornerebbe al livello del 2007 soltanto nel 2014, così come il livello di occupazione e il tasso di disoccupazione. I consumi recupererebbero quello stesso valore del 2007 tra il 2012 e il 2013. La pressione fiscale continuerebbe a rimanere elevata, attorno al 43% del Pil. Il deficit pubblico scenderebbe sotto il 3% del PIL soltanto nel 2015 e si riporterebbe a quell'1,5% registrato nel 2007 soltanto dopo il 2016. Il rapporto Debito Pubblico/PIL continuerebbe a crescere fino al 2015 e tornerebbe sotto il 105% registrato nel 2007 non prima del 2020.In realtà si tratta di essere consapevoli che normalmente crisi finanziaria, crisi produttiva e crisi occupazionale si alimentano tra loro con un anno di ritardo l'una dall'altra. Nell'attuale crisi, infatti, abbiamo avuto il picco maggiore della crisi finanziaria nel 2008, abbiamo nel 2009 la massima caduta della produzione e avremmo nel 2010 il picco maggiore della disoccupazione. E' evidente pertanto che accettare supinamente questo profilo tendenziale significherebbe subire a lungo condizioni di quasi stagnazione e comunque bassa crescita, elevata disoccupazione subendo inoltre il rischio permanente di una finanza pubblica in condizioni di estrema fragilità. Per di più, ingenti sarebbero le risorse da destinare agli ammortizzatori sociali anche oltre il prossimo anno per fronteggiare una evidente emergenza sociale.Rispetto a questo andamento “tendenziale” dell'economia italiana il Centro Studi Economia Reale ha valutato una manovra di politica economica, quantitativamente tale da potere incidere in modo significativo sui quegli andamenti tendenziali. Dal punto di vista qualitativo, la manovra poggia su riforme strutturali e permanenti, che dovrebbero produrre effetti anche in termini di equità sociale con più concrete opportunità di libere scelte per le famiglie e le imprese.Tale manovra si articola in un contenimento di spesa pubblica corrente pari a 35 miliardi di euro da concentrare sulle voci “Acquisti di beni e servizi delle Amministrazioni Pubbliche” e “Trasferimenti pubblici a fondo perduto”. Le risorse così liberate consentirebbero pertanto, senza determinare neanche un euro in più di deficit pubblico, un taglio strutturale e consistente del carico fiscale sulle famiglie (15 miliardi) e sulle imprese (12 miliardi), un aumento degli investimenti pubblici in infrastrutture (5 miliardi), maggiori risorse per la sicurezza e la difesa (2 miliardi), e per la ricerca scientifica e l'innovazione tecnologica (1 miliardo). Questo tipo di riforme strutturali rafforzerebbe in modo consistente la ripresa della produzione e dell'occupazione, introdurrebbe elementi di maggiore equità sociale, accelerando, per di più, il rientro del deficit e del debito pubblico.Il PIL, l'occupazione e il tasso di disoccupazione tornerebbero infatti ai livelli del 2007 due anni prima, tra il 2011 e il 2012, così come l'andamento dei consumi che tornerebbero al livello del 2007 tra il 2010 e il 2011.La pressione fiscale si ridurrebbe consistentemente già nel 2010 come effetto diretto della manovra e continuerebbe a ridursi progressivamente fino a scendere sotto il 41% nel 2013, dato di poco superiore a quello storico del 2006.Il deficit pubblico scenderebbe sotto il 3% del PIL nel 2012 e sotto il livello del 2007 nel 2013, cioè tre anni prima rispetto all'andamento “tendenziale”. Il debito pubblico comincerebbe a ridursi rispetto al PIL già nel 2012 e tornerebbe al 105% del PIL del 2007 nel 2015, cioè 5 anni prima rispetto al tendenzialeVa subito sottolineato che il nodo “politico” della manovra proposta sta nel taglio della spesa piuttosto che negli sgravi fiscali, perché solo così è possibile reperire risorse al fine di non determinare ex-ante maggiore deficit e debito pubblico, e anzi, al contrario, ottenere ex-post una ben più solida situazione della finanza pubblica italiana.Tale manovra appare inoltre necessaria anche alla luce delle condizioni dell'economia mondiale, e sarebbe ancor più necessaria qualora il ciclo economico internazionale non dovesse percorrere l'ottimistico profilo a “V” qui considerato ma le altre meno ottimistiche prospettive. 2.- Il quadro economico internazionale, le prospettive di ripresa e l'uscita dalla crisi: il Mondo e l'Europa Sul quadro internazionale, ci soffermiamo in particolare sulle prospettive di ripresa dell'economia mondiale dopo la fase acuta della crisi finanziaria, e sulle strategie di politica economica necessarie per assicurare, oltre che l'uscita definitiva dalla crisi dell'economia reale, anche il ripristino delle condizioni necessarie per assicurare una crescita dell'economia globale in condizioni di equilibrio strutturale.Due considerazioni preliminari ci sembrano rilevanti.La prima riguarda i “segnali di ripresa” che da settimane sono al centro della scena. In realtà ad oggi i dati dicono che la caduta dell'economia si è finalmente arrestata. Questo è certamente un segnale positivo perché abbiamo toccato il fondo e possiamo aspettarci nei prossimi mesi il segno dell'inversione di tendenza del ciclo economico internazionale.La seconda considerazione riguarda invece il rischio che si corre una volta innescata la fase di ripresa del ciclo internazionale. Il pericolo è che la ripresa poggi sui medesimi meccanismi e comportamenti che hanno determinato gli squilibri reali nell'economia mondiale (eccesso di consumo americano, eccesso di risparmio cinese) all'origine della precedente crisi. Per essere più precisi, per esempio, tutti ritengono che la ripresa del ciclo possa o debba essere trainata ancora una volta dalla locomotiva americana, cioè dai consumi americani. E questo senza avere ben chiaro il fatto che la precedente crisi ha avuto origine proprio dall'eccesso di consumo, dalla carenza di risparmio, dal deficit delle partite correnti e da un esponenziale accumulo di debito estero americani. E il dato di fatto che la Cina, con il suo enorme risparmio, continui a finanziare il debito americano non è certamente una condizione di equilibrio sostenibile per l'economia mondiale.La bolla dei mercati finanziari è stata originata proprio da quei meccanismi, messi in piedi attraverso le varie tecnicalità offerte dall'innovazione finanziaria, con il fine ultimo di alimentare “oltre modo e oltre tempo” la spesa dei consumatori americani.Il pericolo dunque è quello di una ripresa che ricominci a “caricare la molla” di una nuova crisi economica e finanziaria internazionale. Ma le conseguenze di una nuova crisi, nelle condizioni attuali, sarebbero molto più gravi rispetto alla precedente. Sotto questo profilo vanno tenuti in considerazioni due aspetti.Anzitutto le condizioni della finanza pubblica americana. La precedente crisi partiva da un debito pubblico americano molto più basso di quello attuale, risultato dall'accumularsi degli esborsi di denaro legati ai tanti provvedimenti di salvataggio varati dall'amministrazione americana negli ultimi due anni. E per di più, anche la riforma sanitaria promessa dal presidente Obama non potrà che agire in negativo sulla situazione dei conti pubblici USA.In secondo luogo la posizione della Cina come principale detentore dei titoli di debito emessi da soggetti americani, ivi compreso il settore pubblico. Ebbene, negli ultimi anni la Cina è diventata il principale detentore del debito americano superando così anche lo storico primato del Giappone, introducendo nel quadro complessivo anche un fattore di rischio geopolitico da non trascurare. Ovviamente, come più volte i leader cinesi hanno pubblicamente dichiarato, è nelle loro intenzioni contribuire a mantenere la stabilità del sistema finanziario internazionale, perché sarebbe contrario al loro interesse adottare comportamenti che determinino le condizioni per una crisi del debito degli Stati Uniti. Nessun creditore, infatti, ha interesse a che il proprio debitore entri in crisi. Ma evidentemente sotto il profilo geopolitico la questione si pone in termini molto diversi, aggiungendo ulteriori rischi e vincoli stringenti al governo dell'economia globale, sia nello scenario di una ipotetica crisi dei mercati e del debito americano, sia anche in assenza di tale eventualità.È evidente che l'economia globale di questo XXI secolo richiede con urgenza una nuova governante. Questo rapporto esce per altro contestualmente alla riunione del G20 a Pittsburgh. Occorre un nuovo G “qualcosa” anche se il “G20 o più” rischia di sfociare in una sorta di “riunione condominiale”.Altrettanto rischioso però sarebbe un percorso che porti nei fatti al G2, cioè a un accordo diretto ed esclusivo USA-CINA basato sulla perpetuazione dei loro squilibri reciproci che solo apparentemente si compensano.Gli USA continuerebbero ad accumulare debito e la Cina continuerebbe a usare enormi risorse per investire all'estero invece che per migliorare lo standard di vita dei cinesi. A ben vedere, già negli ultimi anni sono chiaramente emersi elementi che esprimono un G2 “di fatto”. Basti pensare al consenso implicito che Stati Uniti e resto del mondo hanno dato alle autorità politiche cinesi che, agganciando la loro moneta al dollaro con un vero e proprio pegging, hanno portato si alla forte svalutazione della moneta americana illudendo gli USA di poter guadagnare competitività e riequilibrare il loro deficit estero, ma anche all'iper-apprezzamento dell'euro sia verso il dollaro, sia automaticamente verso lo yuan cinese. E questo dal punto di vista europeo assume contorni masochistici.Secondo le previsioni dei maggiori istituti internazionali anche l'economia cinese avrà un andamento “V”. Volendo indicare con ciò una crescita che è semplicemente rallentata nel 2008-2009, ma che già a partire dal 2010 tornerà a tassi molto simili a quelli a due cifre visti nell'ultimo decennio. Ma gli effetti della ripresa cinese, sia sulle proprie prospettive interne sia sull'intera economia mondiale, saranno diversi a seconda che la ripresa stessa dipenda finalmente da una spinta della domanda interna o che invece sia nuovamente trainata solo ed esclusivamente dalle esportazioni. Ed è questo in un certo senso il vero dilemma della politica economica cinese e di fatto anche dell'economia mondiale. È vero infatti che in Cina diventa sempre più pressante l'esigenza quanto meno di adeguare il livello di benessere e gli standard di vita di un larga parte della popolazione che finora è rimasta in gran parte esclusa da un processo di sviluppo economico concentrato soprattutto nelle grandi città. Si contano in circa trecento-quattrocento milioni i cittadini cinesi, soprattutto contadini, che nei prossimi anni muoveranno sempre più in massa verso le città.Non può essere allora perpetuato all'infinito il modello “export led” sul quale si è basata la prepotente crescita del gigante asiatico negli ultimi venti anni. In altri termini, è una contraddizione che, a fronte di una politica commerciale fortemente aggressiva ed “espansionistica”, le condizioni di vita di gran parte della popolazione rimangano ferme a quelle di 50-60 anni fa. In proposito basti pensare che negli ultimi dieci anni gli ingenti surplus delle partite correnti cinesi sono stati utilizzati esclusivamente per accumulare un enorme stock di titoli di debito estero soprattutto americano e per acquisire pezzi di attività produttive anche di carattere strategico all'estero, in Europa, in Africa e nelle Americhe. Si tratta evidentemente di una contraddizione che rischia di diventare sempre più dirompente anche all'interno della stessa Cina.Per quanto riguarda l'economia americana gli scenari di ripresa sono più di uno. Quello considerato più probabile fino a questo momento è quello a “V”, che anche noi abbiamo scelto come ipotesi centrale per le nostre previsioni. In questo scenario, dopo la recessione del 2009, il tasso di crescita dell'economia americana torna ad essere positivo nel 2010 per collocarsi vicino al 2% – nuovamente sopra a quello dell'Area Euro – dal 2011, trainando in questo modo la ripresa dell'economia mondiale.Un secondo scenario, al quale sono attribuite probabilità inferiori ma comunque da non trascurare, è quello detto a “W”, secondo cui negli Stati Uniti si assisterebbe a una ripresa che interessa quest'anno e la prima parte del 2010 seguita da un nuovo rallentamento a partire dal 2011. Il rallentamento dell'economia sarebbe il risultato del riemergere degli stessi squilibri alla base della precedente crisi e che sono rimasti fondamentalmente irrisolti: eccesso di consumo, eccesso di debito, deficit gemelli. A questo andrebbe ad aggiungersi il freno della politica monetaria della FED che reagirebbe prontamente per scongiurare il rischio che si riaccenda l'inflazione.In questo quadro si colloca un'Europa che, si può dire, “c'è e non c'è”. In tutti gli scenari considerati le previsioni di crescita del vecchio continente sono pressappoco le stesse dello scenario pre–crisi. Cioè, se l'America cresce al 3%, la Cina cresce all'8% e se tutto il resto va bene, l'Europa cresce all'1-1,5%. Se il mondo e la Cina rallentano, e soprattutto se l'America va sotto il 2%, l'Europa va a zero o sotto zero. Questo dato che ormai è diventato strutturale e permanente è risultato di due fondamentali handicap.Il primo riguarda più direttamente l'economia reale e i grandi nodi strutturali, come per esempio la mancanza di una dotazione di reti infrastrutturali adeguata, nonché la mancanza di una politica economica e industriale e quindi la minore competitività dell'apparato industriale europeo.Il secondo riguarda invece gli aspetti finanziario e monetario. Per essere più precisi dipende dalla politica “dogmatica” della Banca Centrale Europea che, in preda al terrore dell'inflazione, ha tenuto a lungo i tassi di interesse troppo elevati senza curarsi delle conseguenze sul cambio dell'euro. La moneta unica europea si è apprezzata oltre modo danneggiando la competitività delle produzioni europee e quindi la crescita. Si tratta di una politica fondamentalmente miope, che non tiene conto tra l'altro del fatto che il cambio dello yuan cinese è da circa dieci anni tenuto di fatto fisso rispetto al dollaro, per esplicita volontà politica delle autorità cinesi accettata supinamente dal resto del mondo.Le conseguenze pratiche di tutto ciò sono dinanzi a tutti. E cioè che in questi dieci anni abbiamo regalato via cambio alla Cina un 40-50% di competitività in più rispetto a quella che il gigante asiatico si assicura autonomamente via “dumping sociale”. Come abbiamo avuto modo di mostrare nei precedenti rapporti di previsione, ogni 10 centesimi di apprezzamento dell'euro costa all'Europa circa 0,3 punti di crescita in meno. Quindi, la differenza tra la parità e il cambio attuale di 1,47 ci costa a livello europeo quasi 1,5 punti di crescita in meno all'anno. È facile calcolare l'ulteriore freno che deriverebbe all'economia europea nell'ipotesi che l'euro si apprezzi fino a 1,60-1,70. Ad ogni buon conto in questo rapporto abbiamo mantenuto l'ipotesi, a questo punto ottimistica, che l'euro si attesti attorno o poco sotto a 1,40.TABELLA QUADRO ECONOMICO INTERNAZIONALE E ESOGENE 3.- Gli andamenti tendenziali dell'economia italianaPassiamo ora all'andamento dell'economia italiana e in particolare al “bivio” di politica economica di fronte al quale appare trovarsi il nostro Paese.Come abbiamo più volte sottolineato, l'andamento dell'economia italiana (e quello di ogni altro paese europeo singolarmente considerato) è determinato per circa 2/3 dalle condizioni “esterne” – il quadro internazionale ed europeo appena descritto – e per il restante 1/3 dalle politiche nazionali.Anche l'economia italiana si trova pertanto dinanzi a un bivio. Se per l'economia mondiale la direzione assunta dipenderà dalle politiche di riforma della governance economica e delle istituzioni internazionali (la nuova Bretton Woods), per l'economia italiana dipenderà, seppure come detto per un terzo, dalle decisioni e dalle strategie della politica economica nazionale.La prima scelta possibile per l'Italia consiste nel limitarsi semplicemente a governare un'economia trainata “inerzialmente” dalla ripresa dell'economia internazionale. Di fatto, senza fare nulla di più che accettare gli andamenti tendenziali.Questa “non scelta” comporta in ogni caso delle conseguenze fortemente negative per la nostra economia. In particolare, si andrebbe incontro a una prospettiva di bassa crescita almeno per i prossimi cinque anni, e soprattutto incontro al picco della crisi occupazionale previsto in tutti gli scenari per il prossimo anno, con un modesto e lento rientro della disoccupazione.Per citare di dati fondamentali, il PIL in valore reale tornerebbe al livello del 2007 soltanto nel 2014, così come il livello di occupazione e il tasso di disoccupazione. I consumi recupererebbero quello stesso valore del 2007 tra il 2012 e il 2013. La pressione fiscale continuerebbe a rimanere elevata attorno al 43%, mantenendosi stabilmente sul picco raggiunto nel 2007 dal governo Prodi dopo il balzo determinatosi rispetto al 40,4% del 2005. Il deficit pubblico scenderebbe sotto il 3% del PIL soltanto nel 2015 e si riporterebbe a quell'1,5% registrato nel 2007 soltanto dopo il 2016.Il rapporto Debito Pubblico/PIL continuerebbe a crescere fino al 2015 e tornerebbe sotto il 105% registrato nel 2007 non prima del 2020. In queste condizioni di estrema fragilità della finanza pubblica, nei prossimi anni, il probabile rialzo dei tassi di interesse associato al continuo aumento del debito andrebbe a pesare ancor più sul conto economico delle Amministrazioni Pubbliche con una spesa per interessi che rischia di essere di molto superiore agli attuali 70 miliardi di euro all'anno.Le previsioni fornite dal governo, sia nel DPEF di luglio, sia nella recente Nota di Aggiornamento, pur essendo basate sul medesimo quadro economico internazionale utilizzato in questo rapporto, propongono un profilo di crescita tendenziale più ottimistico rispetto a quello che risulta dalle nostre previsioni tendenziali. Non essendo indicate le manovre da effettuare negli anni futuri, risulta piuttosto incerto un profilo programmatico di crescita indicato al 2% per tutto il triennio 2011-2013.Dal nostro quadro tendenziale risulta infatti che questo 2009 il PIL dovrebbe ridursi del 5,3% per crescere poi dello 0,4% nel prossimo anno e attestarsi all'1,5-1,6% nel successivo triennio. Come vedremo in seguito, solo con una manovra di politica economica quantitativamente rilevante l'economia italiana potrebbe avvicinarsi all'1% di crescita già nel 2010 e attestarsi tra il 2,2% e il 2,5% nel triennio successivo. Riportiamo qui di seguito i valori tendenziali delle più significative variabili dell'economia italiana nei loro andamenti tendenziali (vedi Tav. 1 e grafici 1-17). 4.- Una proposta di manovra quantitativamente rilevante e qualitativamente significativa Non è certamente auspicabile che l'Italia rimanga “appesa” a questo precario equilibrio finanziario per i prossimi dieci anni. E ciò anche alla luce dei rischi che si profilano nello scenario internazionale, in particolare alla eventualità che l'economia americana non segua il profilo a “V” bensì quello a “W”, l'euro subisca un nuovo e forte apprezzamento e soprattutto se dovessero crearsi le condizioni di una nuova e più grave crisi finanziaria internazionale.In estrema sintesi, dopo avere fronteggiato meglio di altri paesi la fase di emergenza della crisi finanziaria e reale, non è sufficiente limitarsi a governare l'andamento tendenziale dell'economia. È invece più che mai urgente intraprendere un percorso di riforme strutturali. Per rafforzare le modeste prospettive di ripresa non basta una Finanziaria “leggera”, pur nell'obiettivo necessario di salvaguardare i saldi della finanza pubblica, ma pur sempre limitata a pochi interventi che limano il profilo delle entrate e delle spese. Certamente ulteriori risorse potranno rendersi disponibili con il gettito del provvedimento per il rientro dei capitali. Ma 3-4 miliardi di gettito una-tantum in più sono pur sempre lo 0,3% del PIL, cioè una “quantità” tale da non poter modificare gli andamenti tendenziali dell'economia italiana.Occorre una manovra quantitativamente rilevante e qualitativamente significativa, capace cioè di modificare quegli andamenti tendenziali e di introdurre al tempo stesso elementi di coesione sociale.E a questo proposito vanno ribaditi con chiarezza due importanti principi.Il primo è che lo Stato interviene non incentivando i singoli settori produttivi ma sostenendo i soggetti economici, famiglie e imprese. Soltanto in questo modo si tutela la loro libertà di scelta. Invece di usare il gettito fiscale, che sono “i soldi di tutti”, per dare incentivi diretti a singoli settori (es. rottamazione di automobili, elettrodomestici etc.) le stesse risorse dovrebbero essere lasciate direttamente nella disponibilità di famiglie e imprese, in modo che siano loro stesse a scegliere cosa comprare e cosa produrre.Il secondo principio è un patto molto chiaro tra Stato e cittadini, secondo il quale lo Stato non può intermediare il 50% o più della ricchezza nazionale. Si deve invece delineare una strategia di politica economica che affronti i nodi strutturali del bilancio pubblico e dell'economia italiana.In questo senso è importante disegnare un percorso di rientro della pressione fiscale, riportandola almeno al livello del 40,4% raggiunto nel 2005. Si deve quindi cominciare da un taglio di spesa pubblica corrente e utilizzare le risorse per un taglio consistente del carico fiscale su famiglie e imprese.É vero che siamo in una profonda crisi economica internazionale, ma proprio perché c'è la crisi non possiamo aspettare 5-10 anni per ritrovarci al punto dove eravamo nel 2007. Si deve adottare una strategia di politica economica e finanziaria in grado di ridurre il peso dello Stato nell'economia e di riallocare nel contempo le risorse pubbliche in modo più efficace ed efficiente.Cinque sono i grandi aggregati di spesa pubblica corrente: salari e stipendi dei dipendenti pubblici, pensioni, interessi sul debito pubblico, acquisti di beni e servizi, trasferimenti a fondo perduto. Sulle prime due voci si può ottenere un contenimento soltanto nel medio-lungo periodo. La spesa per interessi dipende dalle condizioni internazionali dei mercati finanziari e purtroppo dall'ingente stock di debito pubblico accumulato negli ultimi decenni. Pertanto, restano due voci della spesa corrente sulle quali si può incidere procurando sostanziali risparmi: la spesa per Acquisti di beni e servizi delle Amministrazioni Pubbliche e i Trasferimenti pubblici a Fondo Perduto.Riportiamo qui di seguito in valori assoluti e in percentuale del PIL l'andamento storico della spesa per Acquisti di beni e servizi delle Amministrazioni Pubbliche dal 2001 al 2008.Tale spesa nel 2001 è stata pari a circa 96 miliardi di euro. A fine 2008 risulta aumentata a oltre 128 miliardi di euro. Nelle proiezioni tendenziali al 2013 dovrebbe sfiorare i 150 miliardi di euro. Ciò significa che abbiamo avuto un aumento di 32 miliardi di euro dal 2001 al 2008 e dovremmo subire un aumento di altri 20 miliardi circa da qui al 2013.L'incremento di tale spesa è risultato ben superiore non solo all'andamento dell'inflazione ma anche alla crescita complessiva del PIL. In percentuale dello stesso PIL si è passati da meno dell'8% a quasi l'11%.Dei 32 miliardi di spesa in più, 29 sono stati determinati dalle Amministrazioni Locali (Regioni, Province e Comuni) e soltanto 3 miliardi dalle Amministrazioni Centrali (Stato ed Enti di Previdenza) a seguito del forte contenimento negli stanziamenti dei Ministeri. L'aumento di spesa delle Amministrazioni Locali origina per 23 miliardi dalle Regioni, quasi totalmente dovuto alla spesa sanitaria che risulta aumentata di 21 miliardi.Nelle proiezioni tendenziali per i prossimi anni questi dirompenti andamenti appaiono proseguire immutati nel trend e nella composizione.Appare qui evidente che l'efficacia dello strumento “Patto di Stabilità Interno” risulta scarsa, anche perché, all'interno del comparto degli enti locali si rischia di penalizzare, da un lato, la spesa per investimenti rispetto alla spesa corrente e, dall'altro lato, molti comuni virtuosi rispetto alle tante regioni dove la spesa per la sanità appare completamente fuori controllo.Si tratta di incrementi forti e difficilmente giustificabili sotto il profilo della quantità e qualità delle prestazioni fornite dalle Amministrazioni Pubbliche ai cittadini. Non risulta infatti che nel 2001 i servizi e le prestazioni della PA fossero inferiori rispetto a quanto erogato oggi, e non si vede in prospettiva per i prossimi anni quali migliori servizi potrebbero derivare ai cittadini dall'ulteriore incremento di 22 miliardi previsto nel triennio 2010-2013 (Vedi grafici 18-21). Per quanto riguarda la seconda voce di spesa – i trasferimenti pubblici a fondo perduto – si è passati dai circa 30 miliardi di euro del 2000 a oltre 45 miliardi nel 2007. L'efficacia di tali strumenti si è dimostrata quanto meno dubbia, anche alla luce di studi teorici ed empirici. Dall'analisi dei dati storici a disposizione emerge molto chiaramente che, in media, circa 2/3 delle imprese beneficiarie dopo tre anni non sono più operanti, nel senso che sono fallite o sono state liquidate. Le imprese che risultano ancora attive realizzano con pesanti ritardi gli investimenti a fronte dei quali hanno ricevuto i trasferimenti a fondo perduto.La proposta di Economia Reale in questo caso è quella di tagliare in modo consistente tale ammontare di trasferimenti, incentivando investimenti e occupazione delle imprese attraverso un nuovo regime di “fisco zero” per cinque anni, o comunque fino alla concorrenza del tetto massimo di aiuto deciso dall'Unione europea, noto come Equivalente Sovvenzione Netta (ESN). Saremmo in tal caso nel pieno rispetto della normativa europea in materia di aiuti di stato. Abbiamo pertanto valutato, attraverso le consuete simulazioni econometriche, una manovra di contenimento di spesa pari a un totale di 35 miliardi conseguente a un taglio di 20 miliardi della spesa per acquisti di beni e servizi e di 15 miliardi dei trasferimenti a fondo perduto, rispetto ai dirompenti andamenti tendenziali prima indicati.Con queste risorse è possibile, senza determinare neanche un euro in più di deficit, introdurre uno schema di coefficiente familiare attraverso deduzioni pari a 5000 euro all'anno per ogni membro del nucleo familiare che determinerebbe uno sgravio dell'IRPEF di 15 miliardi per le famiglie. Tale sgravio fiscale sarebbe per di più doppiamente progressivo: rispetto ai livelli di reddito e rispetto al numero di componenti del nucleo familiare.Per le imprese, in particolare le piccole e medie, si potrebbe eliminare dalla base imponibile dell'IRAP il monte salari, con un conseguente sgravio di circa 12 miliardi.Si potrebbe inoltre aggiungere 5 miliardi di risorse alla spesa per investimenti pubblici in infrastrutture, 2 miliardi per il comparto difesa e sicurezza, 1 miliardo per la ricerca scientifica e l'innovazione tecnologica.La manovra potrebbe poi essere completata con altri due provvedimenti.Il primo che introduca una tassazione sostitutiva per i proprietari di immobili “persone fisiche” del 20% sugli affitti e in parallelo una deduzione IRPEF con tetto a 5000 euro l'anno a favore degli affittuari.Il secondo che innalzi da “quota 95” a “quota 100” il criterio del pensionamento come somma dell'età anagrafica e dell'anzianità contributiva.Queste ultime due proposte di intervento non sono state quantificate nel presente rapporto. In entrambi i casi però si tratterebbe di rendere disponibili ulteriori risorse.Nel caso della proposta sulla tassazione degli affitti e relative deduzioni occorre considerare i recenti dati dell'Agenzia del territorio dai quali risulta che in Italia esistono 59 milioni di unità immobiliari di cui circa 32 milioni di abitazioni. Di queste, sempre secondo i dati dell'Agenzia del territorio, il 44% risulta essere abitazione principale (prima casa e relative pertinenze). Delle altre, circa il 31% risultano non affittate, o perché ufficialmente a disposizione del proprietario, o perché non riscontrate in dichiarazione dei redditi, o infine perché non se ne conosce l'effettivo utilizzatore (Vedi grafici 25 e 26).Pertanto queste 10 milioni di case e oltre, possono essere un potenziale riferimento per una forte emersione di affitti in nero. Se soltanto la metà di queste situazioni dovessero emergere (5 milioni di case), calcolando un affitto medio di 10.000 euro l'anno, si determinerebbe un maggiore gettito pari a 10 miliardi di euro all'anno conseguente dalla tassazione sostitutiva al 20%. Per contro, anche nelle ipotesi estreme in cui tutti gli affittuari potessero dedurre il tetto massimo di 5000 euro l'anno e la loro aliquota marginale fosse pari al 33%, ciascuno di loro avrebbe uno sgravio fiscale pari a 1650 euro l'anno che determinerebbe una perdita di gettito pari a 8,25 miliardi di euro. In conclusione, il provvedimento assicurerebbe 1,75 miliardi di euro di maggior gettito.Nel caso della proposta dell'introduzione di “quota 100” come criterio di pensionamento si determinerebbero minori spese pensionistiche per poco meno di 2 miliardi di euro.Entrambi questi eventuali maggiori gettiti potrebbero essere quindi utilizzati per la riforma degli ammortizzatori sociali e/o per sostegni all'affitto e all'acquisto di casa per i giovani o per le famiglie con maggiore disagio sociale. 25. ITALIA – TOTALE UNITÀ IMMOBILIARI(Composizione %)26. ITALIA – TOTALE UNITÀ IMMOBILIARI 5. Gli effetti della manovra proposta da Economia Reale La manovra di politica economica descritta nel paragrafo precedente è qui riprodotta nelle seguenti tabelle sintetiche nelle quali si indica da dove vengono prese le risorse e a cosa si propone di destinarle. Gli effetti che una manovra di questo tipo potrebbe produrre, sulla base delle simulazioni econometriche, sono riprodotti nella tabella e nei grafici che seguono, posti a confronto con gli andamenti tendenziali (vedi grafici 29-44) Dai risultai ottenuti si individua che le riforme strutturali proposte rafforzerebbero in modo consistente la ripresa della produzione e dell'occupazione, introdurrebbero elementi di maggiore equità sociale, accelerando, per di più, il rientro del deficit e del debito pubblico.Il PIL, l'occupazione e il tasso di disoccupazione tornerebbero ai livelli del 2007 due anni prima, tra il 2011 e il 2012, così come l'andamento dei consumi che tornerebbero al livello del 2007 tra il 2010 e il 2011.La pressione fiscale si ridurrebbe consistentemente già nel 2010 come effetto diretto della manovra e continuerebbe a ridursi progressivamente fino a scendere sotto il 41% nel 2013, dato di poco superiore a quello storico del 2006.Il deficit pubblico scenderebbe sotto il 3% del PIL nel 2012 e sotto il livello del 2007 nel 2013, cioè tre anni prima rispetto all'andamento “tendenziale”. Il debito pubblico comincerebbe a ridursi rispetto al PIL già nel 2012 e tornerebbe al 105% del PIL del 2007 nel 2015, cioè 5 anni prima rispetto al tendenzialeVa ancora una volta sottolineato che il nodo “politico” della manovra proposta sta nel taglio della spesa piuttosto che negli sgravi fiscali, perché solo così è possibile reperire risorse al fine di non determinare ex-ante maggiore deficit e debito pubblico, e anzi, al contrario, ottenere ex-post una ben più solida situazione della finanza pubblica italiana.La scelta “politica” sottostante la manovra proposta consiste nello spostamento del confine tra peso dello Stato e risorse disponibili per famiglie e imprese. Confine che oggi supera il 50% del PIL, che rende il settore privato dell'economia “mezzadro” del settore pubblico, e che dovrebbe essere ricondotto strutturalmente almeno di 2-3 punti sotto al 50% del PIL. Nelle condizioni tendenziali infatti, come si illustra nei grafici 13e 14, si tratterebbe di accettare gli attuali elevati livelli di entrate e spese delle Amministrazioni Pubbliche, con un ulteriore loro parallelo incremento in valore assoluto di altri 106 miliardi di euro nei prossimi 4 anni. Al contrario, come illustrato nei grafici 40, 41 (in valore assoluto) e nei grafici 42, 43 (in percentuale del PIL), la manovra proposta da Economia Reale condurrebbe a un forte freno sul fronte dell'espansione della spesa pubblica corrente che consente quindi di ridurre in modo consistente il peso dello Stato nell'economia. Il totale della spesa pubblica verrebbe infatti ridotto al 2013 da circa il 55% del PIL nel dato tendenziale a sotto il 50%. Il totale delle entrate pubbliche scenderebbe dal tendenziale del 50% a sotto il 48% del PIL, con all'interno una pressione fiscale riportata sotto il 41%. Peraltro, il contenimento della spesa, maggiore rispetto alla riduzione delle entrate, produrrebbe un significativo effetto di risanamento della finanza pubblica che sarebbe rafforzato dalla maggiore crescita e dalla maggiore occupazione che migliorerebbero ulteriormente i dati della finanza pubblica espressi in percentuale del PIL.Ulteriori elementi che spingerebbero verso l'attuazione di una manovra del tipo qui proposto possono essere tratti anche alla luce delle condizioni dell'economia mondiale, poiché qualora il ciclo economico internazionale non dovesse percorrere l'ottimistico profilo a “V” qui considerato ma le altre meno ottimistiche prospettive, tale manovra sarebbe ancora più necessaria e si dimostrerebbe ancora più efficace.

Lascia un commento

My Agile Privacy
Questo sito utilizza cookie tecnici e di profilazione. Cliccando su accetta si autorizzano tutti i cookie di profilazione. Cliccando su rifiuta o la X si rifiutano tutti i cookie di profilazione. Cliccando su personalizza è possibile selezionare quali cookie di profilazione attivare.
Attenzione: alcune funzionalità di questa pagina potrebbero essere bloccate a seguito delle tue scelte privacy