A novant’anni dalla nascita di Primo Levi

Wstawac!

Wstawac! Alzarsi! Il secco comando impartito in polacco ai deportati ebrei, per contrapposizione fu convertito dalle vittime nella cosciente volontà di vivere malgrado tutto. Un incitamento a restare in piedi, a resistere alle privazioni e a conservare lucido il pensiero per descrivere gli aspetti disumani dei campi di concentramento nazisti.

di Giuseppe Muscardini

Se dovessimo partire dalle argute riflessioni di Primo Levi a proposito di Se questo è un uomo, non ci sarebbe ragione di pensare ad un franamento psichico dello scrittore torinese avvenuto a molti anni di distanza dai tragici eventi di cui fu partecipe. Troppo occupato a ricercare fuori e dentro di sé, per cedere a insane tentazioni di autoannientamento. La documentazione attenta e puntigliosa, concepita nell’ottica di un obbligo civile, lo portò a preferire la parola scritta come strumento per lo studio antropologico delle grandezze e delle meschinità dell’uomo. Dichiarava testualmente all’uscita del libro: Questo mio libro, in fatto di particolari atroci, non aggiunge nulla a quanto è ormai noto ai lettori di tutto il mondo. Esso non è stato scritto allo scopo di formulare nuovi capi di accusa; potrà piuttosto fornire documenti per uno studio pacato di alcuni aspetti dell'animo umano. Eppure quando Primo Levi perse la vita in una domenica di aprile del 1987, si pensò quasi con naturalezza ad una deliberata rinuncia, dovuta all’incapacità di scordare le inaudite efferatezze cui dovette assistere nel lager dove fu internato. Volontaria o accidentale, la caduta dalla tromba delle scale del suo appartamento evocò nell’immaginario collettivo l’inaccettabilità di dover fare i conti con ricordi impossibili da rimuovere, radicati a tal punto da affiorare come mostri, tanto nelle ore della veglia come del sonno, per impossessarsi di una mente ormai vulnerabile e minata dagli orrori del passato. Per la verità a sessantotto anni di età, con una consolidata carriera alle spalle di scrittore militante, Primo Levi aveva in animo di contribuire ancora attivamente a mantenere viva la memoria dell’Olocausto. Un progetto che mal si conciliava con l’inclinazione al suicidio. Se fosse sopravvissuto, se fosse scampato ad altre disgrazie (fatta eccezione per quella biologica del corpo che tramonta), oggi Primo Levi avrebbe la veneranda età di novant’anni. Nato il 31 luglio 1919, seguì con disinteresse l’evoluzione politica del Fascismo degli anni Trenta, aderendo passivamente alle scenografiche manifestazioni dei saggi ginnici e delle adunate oceaniche. Ma come appartenente alla cosiddetta “razza ebraica”, non poté tollerare le iniquità sancite dalle Leggi razziali del Trentotto, e vi si oppose fino a maturare la decisione di aderire alle formazioni antifasciste del Partito d’Azione. Il suo arresto fu quasi immediato e la milizia fascista valdostana ne dispose il trasferimento al campo di Fossoli. Da qui si compì il viaggio infernale verso Auschwitz e Buna-Monowitz, luoghi di patimenti e vessazioni dove Primo Levi restò fino a quando i blindati della LX Armata del Primo Fronte Ucraino non abbatterono i cancelli e i reticolati liberando i superstiti.

Scegliendo di raccontare le terribili violenze e i soprusi a cui la follia hitleriana sottopose milioni di uomini, donne e bambini, Levi intraprese quella che divenne carriera e missione insieme. E i buoni riscontri letterari si susseguirono: prima il citato Se questo è un uomo, rifiutato nel 1947 da Einaudi e pubblicato dallo stesso editore nel 1956; poi La tregua del 1962, con cui si aggiudicò il Premio Campiello. Ancora sull’Olocausto ritornò nel 1986 con l’opera saggistica I sommersi e i salvati, ma su altri temi aveva dato alle stampe nel 1978 La chiave a stella, ottenendo il Premio Strega.

Per i novant’anni della nascita di Primo Levi non è sbagliato riconoscere che l’impegno profuso dallo scrittore torinese è servito a formare nella coscienza delle ultime generazioni (risparmiate dalla guerra per uno scarto anagrafico tutto sommato corto) la persuasione della validità educativa e civile della letteratura quando si fa testimonianza storica. La ricorrenza richiama per suggestione quelle pagine memorabili e cariche di pathos che a scuola o altrove hanno investito la nostra coscienza, provocandoci un comprensibile senso di raccapriccio per le azioni malvagie di cui la nostra specie si è dimostrata capace istituendo campi di lavoro e mattatoi. La figura e l’opera dello scrittore torinese incarnano oggi, e ci auguriamo ancora per molto, la cifra della gravità di fatti occorsi neppure troppi anni fa in cui l’uomo ha dato vergognosamente prova di saper gestire con disinvoltura stragi di massa e genocidi.

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*) Giuseppe Muscardini vive a Ferrara dove lavora presso la Biblioteca dei Musei Civici d'Arte Antica. Narratore e saggista, collabora con “Nuova Antologia”, “Belfagor” e molte altre testate italiane e internazionali. È membro attivo della “Associazione Svizzera dei giornalisti specializzati” (Verband Schweizer Fachjournalisten – SFJ). Per le Edizioni dell'ADL ha pubblicato L'Empietà di Marte – Elogio dei giovani che ripudiano la guerra (Zurigo, 2007).

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