Ora tocca agli Agnelli dire cosa fare

Sarà bene mettere qualche puntino sulle i

Che cosa ci guadagnano gli Agnelli dall’indebolimento di Marchionne?

Adesso, con tutto il rispetto di Marchionne, è venuto il momento degli azionisti. Così come ha parlato chiaro la famiglia Peugeot – “sì a qualsiasi operazione che non ci metta in minoranza” – ora tocca agli Agnelli dire cosa intendono fare.

E già, perché al di là delle generiche espressioni di coesione intorno al suo progetto di alleanze industriali, tra il capo della Fiat e il socio di riferimento storico, dopo il no del governo tedesco su Opel l’uniformità di vedute potrebbe essere andata a farsi benedire.

E che le cose siano più articolate di come si è voluto far credere fin qui, lo dimostra un’intervista di Lupo Rattazzi al Corriere della Sera – della quale è difficile immaginare non fosse a preventiva conoscenza Montezemolo –in cui si ricorda a Marchionne che fu Susanna Agnelli (madre dell’intervistato) a volerlo come amministratore delegato – come dire: sappi che chi ti ha nominato…. – per poi sottolineare che la famiglia non ha intenzione di tirarsi indietro, nonostante la partita Chrysler sia da “far tremare le vene ai polsi”.

Anche perché sarà bene cominciare a mettere qualche puntino sulle i, che finora non si è messo per non indebolire il tentativo di Marchionne in quel di Berlino. Andiamo con ordine.
Gli Agnelli nel 2005, quando lo chiamarono al capezzale della Fiat, diedero a Marchionne un mandato tanto largo quanto netto: “sistema la Fiat come vuoi, ma senza mettere in discussione il nostro 30% di controllo”. Il risultato furono le “mini-alleanze” in giro per il mondo, su singoli segmenti di produzione e di mercato. Utili sì, decisive no. Così il manager abruzzese, dopo aver probabilmente rappresentato un livello di risanamento maggiore del reale (Fiat ha recuperato quote di mercato, perdendone meno dei concorrenti ma pur sempre perdendone, nel momento in cui le vendite sono crollate ovunque), ha dovuto rivedere le sue strategie.

E, approfittando della crisi mondiale, ha messo gli Agnelli di fronte ad un out-out: “o mi lasciate fare una operazione come voglio io, oppure accetto l’offerta dell’Ubs e lascio la Fiat al suo destino (segnato)”.

Considerato che “l’uomo col maglione” metteva sul piatto la sponsorizzazione niente meno che del neo-presidente americano Obama, e visto che il governo italiano non era tra quelli che avrebbe messo mano al portafoglio per sostenere l’industria nazionale, agli Agnelli non rimaneva che accettare, mettendo in conto di perdere sì Fiat Auto, ma anche una montagna di problemi.

Però, quando Marchionne ha tirato fuori dal cassetto il trio Fiat-Chrysler-Opel, si è capito subito che anche lui si era dato un vincolo: mettere insieme solo aziende in difficoltà, perché questo escludeva la presenza di azionisti ingombranti. Una sorta di public company – con Stati e sindacati soci quantitativamente rilevanti ma “dormienti” dal punto di vista della governance – era quello che voleva (e vuole) Marchionne, in modo che il comando fosse tutto e solo suo.

Ma nel momento in cui il governo Merkel gli si è messo di traverso, lo scenario è cambiato. E non solo sul terreno industriale, dove già l’assemblaggio delle tre realtà pareva un’impresa titanica e ora senza Opel appare egualmente complicata (l’integrazione tra le due case europee era enormemente meno difficile che il “ponte con gli Usa”).

Ma anche e soprattutto sul piano delle leve di comando. Perché, da un lato, le eventuali scelte sostitutive di Opel, a meno che non siano di scarso significato come gli altri pezzi europei della General Motors (Saab e Vauxhall), hanno tutte la controindicazione proprietaria: di Peugeot abbiamo detto, ma la stessa cosa varrebbe per Bmw (che è piccola ma va bene) e per Renault-Nissan, che pure a mio giudizio sarebbe l’abbinata più interessante perché porterebbe in dote un patrimonio tecnologico sull’auto elettrica (che produrrà a partire dal 2010 in Giappone e che in Europa arriverà nel 2011), in grado di soddisfare le aspettative di Obama.

Mentre, dall’altro lato, gli Agnelli (o almeno una parte di loro) potrebbero averci ripensato, ed essere oggi meno disposti a scorporare Fiat Auto per metterla al servizio di un’operazione altrui. Perché? Beh, intanto per l’indebolimento di Marchionne, misurabile con le sguaiate dichiarazioni verso il governo tedesco, cui ha dovuto mettere rimedio Montezemolo, segno di eccessivo nervosismo.

E poi perché l’intesa con la sola Chrysler o non regge – e allora sarebbe il manager a mollare Torino – o altrimenti consente a Fiat (e ai suoi azionisti) per alcuni anni di avere una quota rilevante (prima 20%, poi 35%) senza doversi diluire. Ed è proprio quello che Rattazzi ha voluto farci sapere nel celebrare il ricordo di sua madre Susanna. (Terza Repubblica)

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