Anicca, dukkha, anatta: tutto muore, tutto è dolore, noi non siamo niente. Jitish Kallat e The Celebrity Big Brother

di Fernanda Moneta

Ora se ne può parlare, il lutto è finito. Un lutto breve, come brevi sono i tempi televisivi. Il 21 marzo 2009 si è spenta di un tumore annunciato in diretta Tv, Jade Goody, una cantante, con l’immagine di una qualsiasi ragazza dei sobborghi londinesi, giunta alla ribalta internazionale per aver partecipato alla versione del 2007 di The Celebrity Big Brother (edizione inglese del Grande Fratello per personaggi già famosi), ed aver espresso opinioni politicamente scorrette nei confronti dei cittadini inglesi di origine indiana.

Nel 2007, l’India festeggia i sessant’anni dalla proclamazione di indipendenza. Per l’occasione, l’artista Jitish Kallat[1] ricostruisce lo storico discorso di Gandhi contro il Salt Act (1930), pronunciato alla vigilia della sua marcia verso Dandi, con un’installazione di cinquemila ossa in fibra di vetro, assemblate in modo da comporre lettere dell’alfabeto, poste in sequenza, su una pagina di mensole.

Esposta a Milano, nell’ambito della mostra Urban Manners (Maniere Urbane), Public Notice-II (Notizia Pubblica – II) porta al pubblico occidentale il senso del sacrificio per un’ideale, della morte del singolo vissuta come atto eroico, perchè votata al bene sociale.

Anicca, dukkha, anatta: tutto muore, tutto è dolore, noi non siamo niente. Sempre nel 2007, Shilpa Shetty, star di Bollywood, partecipa al Grande Fratello per personaggi già famosi, in onda su Channel 4. Gli ospiti della casa mettono in scena un vero e proprio linciaggio verbale, rifiutandosi di imparare il nome della Shetty, parlando di lei come dog (cane), the Indian (l’indiana) e con altri termini offensivi.

Riviste a freddo, le sequenze in cui la Goody offende a corpo morto la Shetty, raccontano molto oltre il razzismo. È la voce della working class britannica che abbaia contro l’alta borghesia indiana. Il popolo del fish and chips, con i suoi limiti e e le sue rozzezze, contro il ventre molle di un Paese còlto, l’India di The Millionaire, il film, in cui la ricchezza non è energia, ma una protezione dalla povertà. Il dinamismo della lotta di classe contro la cultura paralizzante delle caste.

Per quanto se ne sa, nel 2007 nessuno in tutto il mondo della comunicazione, ha letto la cosa in questo modo: la mente globale annebbiata dai fumi del politicamente corretto, ha letto solo il razzismo insito nelle affermazioni della Goody e non la rabbia per aver scoperto che qualcuno, che si immagina povero e ignorante a causa di uno stereotipo, è di gran lunga più ricco e còlto di noi. In Gran Bretagna, giustificare il proprio razzismo con il pretesto che gli Indiani sono meno intelligenti e/o non sono culturalmente all’altezza, è un luogo tanto comune che Little Britain, il programma comico politicamente non corretto che mette alla berlina vizi e pregiudizi di certa borghesia inglese, l’ha adottato come tormentone.

Non a caso, intervistata in un secondo momento, la modella Danielle Lloyd, una delle persecutrici di Shilpa Shetty, ha giustificato il proprio atteggiamento con il fatto che quest’ultima “non sa nemmeno parlare inglese”.

Tendiamo ad avere una visione popolare e folcloristica dell’India, esattamente com’è quella dei libri di viaggio e dei documentari, e una visione etnologica dell’arte indiana. Ma questa visione non tiene conto della globalizzazione. Quest’ultima ha coinvolto, mondializzandola, anche la produzione artistica e quella culturale. In ambito materiale, la modernizzazione è il modo con cui l’India si sta inserendo attivamente in questo processo planetario; in ambito spirituale, essa è il cavallo di Troia, con cui lo sta mutando di segno dall’interno, un po’ alla volta, come un virus.

Colori forti, dal fucsia al turchese, decorazioni floreali, ricami in oro, orecchini e pendagli, stoffe pregiate: sugli espositori del mercatino dell’aeroporto di Heathrow, una buona metà della merce è made in India. Visto da Londra, il subcontinente indiano è il cinema di Mira Nair[2], il Kamasutra, la meditazione trascendentale dei Beatles, i wiz kids di Bangalore, il design di Thukral & Tagra o le fotografie di Tejal Shah. La comunità indo-pakistana che vive a Londra è numerosa e incide attivamente sulla cultura della città. Nella moda, nella comunicazione pubblicitaria, nel cinema, il gusto e i simboli della cultura indiana, sono ormai parte del London style. Anche l’appartenenza al Commonwealth facilita i rapporti tra i due paesi. Storicamente, con la Compagnia delle Indie prima e con l’Impero poi, la Gran Bretagna si è posta come canale preferenziale e assieme filtro tra la cultura indiana e quella occidentale.

L’India è una terra che da sempre ha ispirato l’avidità di altri popoli tesi, scrive il filosofo tedesco Hegel, “a ottenere l’accesso ai tesori inestimabili che questa terra delle meraviglie produce: tesori della natura – perle, diamanti, profumi, essenze di rose, leoni, elefanti ecc. – e tesori di saggezza”.[3] Ma ogni conquista implica un’interazione e questa, a sua volta, una mutazione reciproca. Il modo in cui l’Occidente è riuscito a impadronirsi delle ricchezze del subcontinente è sempre stato un fatto di importanza mondiale, strettamente legato al destino delle nazioni.

Storicamente, l’India ha pagato cara la sua tendenza all’individualismo, alla disunità, alla divisione tra stati, gruppi religiosi e caste. Ancora oggi, l’India è divisa in 28 stati, in cui ufficialmente sono parlate 22 lingue e praticate 7 religioni, ma già dal 232 a.c., subito dopo la morte del re Ashoka[4] (che aveva contributo alla diffusione del buddismo nel subcontinente e da qui in tutta l’Asia centrale e nel sud-est asiatico), quello che era stato il primo regno unificato dell’India, si divide in piccoli domìni. A causa di questa parcellizzazione, in pochi decenni l’India diventa facile preda dei popoli confinanti, soprattutto quelli greci.[5]

Più recentemente a proposito dei motivi che portarono la Gran Bretagna a colonizzare l’India, Wiston Churchill scrive che:

Il governo inglese non fu mai coinvolto come protagonista nel conflitto indiano. La Compagnia delle Indie Orientali era un’organizzazione mercantile. (…)Ma la bufera nel grande subcontinente li costrinse, contro la loro volontà e le loro idee, ad assumere il controllo di territori sempre più vasti, finché come per caso, stabilirono un impero non meno solido e certo più pacifico, di quello dei predecessori mongoli. Dell’impero britannico in India è stato ben detto che fu conquistato in un attacco di incoscienza.[6]

Ciò che è andato in onda su Channel 4 ha causato uno scandalo internazionale. In un solo giorno, gli insulti razzisti pronunciati dalla cantante Jade Goody contro Shilpa Shetty hanno fatto salire gli indici d’ascolto da 3,5 fino a 4,5 milioni di spettatori.[7] Ventimila sono state le telefonate e i messaggi di protesta a Channel 4. A Bombay e a New Delhi, manifestanti hanno dato fuoco a cartelli e pupazzi in segno di protesta. Da parte sua, il governo indiano è intervenuto per sollecitare un intervento di Tony Blair affinché fermasse il bullismo razzista a cui il reality stava sottoponendo l’attrice. In seguito alle polemiche, la Carphone Warehouse, il più importante rivenditore europeo di telefonini, sponsor della trasmissione con un apporto di 3 milioni di sterline, si è tirata indietro. La Goody, travolta dallo scandalo, è stata costretta ad abbandonare la trasmissione, ma oramai è diventata una star televisiva. Anche Shilpa Shetty avrebbe potuto ritirarsi dal gioco, ma non l’ha fatto.

Nel sistema mediatico, farsi mettere pubblicamente alla berlina (a maggior ragione se si è già famosi), ha il senso dell’immolazione e ci fa amare. Lo ha compreso la stessa Goody, che ha accettato di vendere alla televisione e ai media in generale, i suoi ultimi giorni di vita, tra matrimonio, figli e chemioterapia. Oggi che è morta in questo modo, la sua dimora è oggetto di pellegrinaggio.

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Note

1. Nato nel 1974 a Bombay, dove vive e lavora. ↩

2. In particolare, i film Salaam Bombay (1988) e Mississipi Masala (1992). ↩

3. .Cit. in Kalavam Pannikkar, Storia della dominazione europea in Asia, Einaudi, Torino, 1958 ↩

4. 268-232 a.c. ↩

5. Dei 40 re greci dominatori, la letteratura indiana menziona solo il re Menandro (Milinda), per il suo interesse sincero per la cultura autoctona e perché si convertì al buddismo. ↩

6. Churchill Winston, Storia dei popoli di lingua inglese, vol. 3, Mondadori, Milano, 1958. ↩

7. Per un 18% di share. ↩

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