I pericoli di un’Europa senza Turchia

La Turchia deve o no entrare nell'UE?
Quali sono i criteri applicabili per valutare i requisiti di un aspirante euro-membro?

La Turchia deve o no entrare nell’Unione Europea? Sono passate due settimane dalla storica visita di Barack Obama a Praga, quando il neo-presidente Usa si è speso senza mezzi termini perché Ankara entri tra i Ventisette. E ieri, nella stessa capitale ceca, si è tenuto l’ennesimo vertice tra l’euroburocrazia e la missione turca, guidata dal ministro per gli Affari Europei, Egemen Bagis.

Quest’ultimo – il vero artefice, nel governo turco, dei negoziati di adesione – ha ribadito che non mollerà la presa. Ma, purtroppo, è già chiaro che anche quest’incontro non sarà determinante: ufficialmente per l’impasse in cui versano questioni specifiche (come la vicenda Cipro e il mancato soddisfacimento dei requisiti su regime fiscale e libertà sindacale), in realtà per la contrarietà politica di alcune cancellerie, prima fra tutte quella francese.

A questo punto, però, mentre perdura l’impasse, è lecito porsi una domanda: quali sono oggi i criteri applicabili per valutare i requisiti di un aspirante euro-membro? E’ ancora concepibile, in particolare, subordinare l’ingresso di un paese a “techicalities” pur importanti, o è invece il caso di superarle pragmaticamente anche alla luce del nuovo paradigma che il terrorismo post-11 settembre e la crisi economica hanno imposto? Io credo sia decisamente fondata questa seconda ipotesi, e penso in particolare a due fattori che sarebbero massimamente di tenere in considerazione, naturalmente dando per scontato le garanzie circa il rispetto della democrazia, dell’“acquis comunitario” e dell’economia di mercato, ovvero i tre paletti ufficiali di Maastricht.

Primo: il paese candidato ha un “size” e un ruolo economico e politico in grado di dare un valore aggiunto all’Unione? Secondo: possiede una leadership politica in grado di offrire una “vision” supplementare alla pericolante casa europea? A entrambi questi requisiti la Turchia del 2009 risponde perfettamente. Sul piano economico, vorrei ricordare qualche dato: dopo aver subito, nel 2000-2001 la peggior crisi degli ultimi due secoli, con una recessione del 9%, un debito pubblico schizzato alle stelle, un’inflazione al 70%, dal 2002 Ankara ha messo il turbo.

Con un pil che da allora è cresciuto del 410%, passando da 181 a 741 miliardi di dollari del 2008, un pil pro-capite passato da 2.600 a 7.800 dollari (+300%), con un’inflazione scesa dal 70% al 10,1%, il tutto realizzato non affossando i conti pubblici, che fanno sfigurare pure un membro fondatore dell’Ue come noi: basti pensare che il rapporto debito-pil, dimezzato negli ultimi cinque anni, è oggi al 44%, mentre il pil 2009 scenderà presumibilmente del 3,6%, meno dunque dell’Italia e della Germania che avranno un rosso tra il 4% e il 5%. Sul fronte della leadership, oggi Ankara ha una classe politica moderna, a suo agio nei grandi consessi internazionali, che non ha paura di confrontarsi su tabù del passato come la questione armena, ma che chiede però ai suoi interlocutori di guardare piuttosto al futuro che non al passato.

E non c’è solo il premier Erdogan: accanto a lui vi sono personalità in ascesa come il ministro per l’economia Mehmet Simsek, ex banchiere responsabile dell’area mediterraneo di Merrill Lynch, ma soprattutto il giovane e brillante Bagis, che anche a Praga è stato il “direttore d’orchestra”. Già interprete ed uomo-ombra del premier, poi capo dei negoziatori per la questione europea, Bagis è oggi il volto nuovo del potere turco.

Egli non solo è il più strenuo sostenitore della direttrice Ankara-Maastricht, ma è anche l’interlocutore laico e moderno su cui puntano le cancellerie occidentali, per non parlare delle aziende – molte delle quali italiane – che guardano con interesse a quel Paese sia perché cresce e si sviluppa sia perché può – io direi deve – diventare l’anello di collegamento tra Europa e Asia, tra Islam moderato e Medioriente instabile. Un ruolo che già svolge, con successo, dal punto di vista geo-economico e strategico, e che la politica dovrebbe semplicemente limitarsi a replicare sui terreni suoi propri. Pensiamo solamente all’energia: qui, Ankara è già oggi paese-chiave per il transito di gas e petrolio, con due progetti della massima importanza quali l’oleodotto Baku-Cehyan e il gasdotto Baku-Erzerum.

Non solo: in caso di miglioramento dei rapporti con l’Iran, la Turchia potrebbe diventare sbocco naturale per enormi quantitativi di gas naturale diretti verso l’Europa. Certo, si dirà, non esiste solo l’economia, ci sono altri valori. Vogliamo parlare ancora una volta della questione armena? Bagis ha annunciato la totale apertura degli archivi di Stato agli storici. La lotta al terrorismo? E’ di ieri la notizia di una delle più grandi operazioni anti al-Qaeda mai realizzate, sempre in Turchia: che differenza, dunque, con altri paesi islamici (vedi il Pakistan) che ufficialmente collaborano ma che in realtà offrono sponde ai terroristi. Si potrebbe andare avanti per pagine: ma ciò che appare chiaro è che la Turchia soddisfa già oggi i requisiti per entrare a pieno titolo nel novero dei Ventisette.

Certo, si tratta di requisiti aggiornati a necessità impellenti che riguardano struttura economica, leadership, valore aggiunto in termini di energia, sicurezza, stabilità. Purtroppo, anche questo vertice non sarà risolutivo, e sulla base di tecnicismi da euro-burocrati si maschererà per l’ennesima volta un concetto ancora metternichiano di un’Europa da Santa Alleanza. Peccato, sarà un’altra occasione sprecata, e continuerà ad esserlo finché non si capirà che un’Europa senza Turchia è oggi più pericolosa e carente che non una Turchia senza Europa. (Terza Repubblica)

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