Autore Pancho Pardi Pubblico una considerazione “semiseria” sullo sciopero virtuale.
La tradizione del movimento operaio aveva inventato molto tempo fa lo sciopero bianco. Quando il padrone era insensibile alle rivendicazioni, in certi momenti gli operai non avevano altro mezzo per attirare l’attenzione dell’opinione pubblica se non proclamare una forma di agitazione speciale: andare a lavorare, far funzionare la fabbrica, mettere in moto le macchine, produrre le merci, tutto questo senza percepire il salario giornaliero. Perché facevano così? Per mettere in evidenza il loro insostituibile ruolo di produttori, mostrare in un certo senso l’inutilità del padrone.
Era una posizione non priva di ingenuità, ma non doveva essere tanto apprezzata dal padronato se questo spesso richiedeva che la polizia impedisse agli operai l’accesso alla fabbrica. Non pagare il lavoro della giornata veniva quindi considerato meno importante dell’impedire agli operai la strana libertà di lavorare gratis.
Lo sciopero bianco fa dunque parte delle forme non cruente della lotta di classe. Il suo equivalente nel mondo contadino fu, nell’immediato dopoguerra e fino alla riforma agraria, l’occupazione e la lavorazione delle terre incolte e mal coltivate. I paesi contadini del Sud riversavano il loro popolo con arnesi e bestiame sulle terre del latifondo: zappare e seminare era il più delle volte il primo atto di un dramma in cui mancava poi la raccolta. Ma aveva un forte valore simbolico e ha dato forte impulso alla necessità della riforma.
Lo sciopero virtuale di oggi vorrebbe, nelle intenzioni di chi lo propone, rinnovare quel certo non so che di nobiltà delle lotte del passato. Ferrovieri, tranvieri, operatori dei trasporti pubblici proclamano l’agitazione ma assicurano la regolarità del servizio: sono in sciopero ma lavorano. Potrebbero fermare il paese e invece lo fanno muovere come un orologio. L’unica differenza con una condizione normale è che lavorano gratis.
Nessuno degli utenti si accorgerà della mobilitazione: treni, tram, navi, aerei saranno tutti in movimento. Pagheranno il biglietto ma la (minima) quota che dovrebbe andare a chi li trasporta rimarrà nelle casse delle aziende oppure, facendo un giro macchinoso, finirà in improbabili opere di beneficenza o in fondazioni o in chissà cos’altro. L’importante è che non finisca nelle tasche degli scioperanti. Questo è il punto essenziale: che lavorino senza essere pagati. Di questa rinuncia gli utenti sapranno solo se la stampa vorrà dare rilievo alla cosa, altrimenti la vicenda resterà circondata dall’ignoranza dei più.
E’ emozionante vedere con quale partecipazione morale aziende che hanno lasciato scadere per interi bienni o trienni contratti da rinnovare, che hanno asciugato le buste paga dei propri dipendenti fino alla loro rarefazione, trovino le parole più convinte per lodare questa nuova forma di lotta che garantisce loro l’esecuzione quotidiana del lavoro e al tempo stesso il risparmio sulle paghe. La crescente massa dei lavoratori, che tra poco sarà la maggioranza, sommerà quindi alla precarietà sempre maggiore della propria condizione contrattuale una sola certezza: che non solo sarà pagata poco e male quando lavora in modo normale, ma che quando adotterà lo sciopero virtuale l’unica sicurezza sarà di lavorare senza essere pagata affatto.
Gli apologeti della funzionalità, per essere onesti, dovrebbero almeno impegnarsi a stabilire, con la stessa legge, che il giorno prima dello sciopero virtuale e il giorno stesso della mobilitazione invisibile, tutti i mezzi di comunicazione pubblici e privati dovrebbero essere obbligati a trasmettere ogni ora notizie aggiornate, inchieste dirette e a garantire il commento della giornata ai suoi protagonisti. Vi immaginate un telegiornale RaiSet che invece di intervistare Cicchitto e Giovanardi fa parlare il tranviere di Quarto Oggiaro per farsi spiegare quanto salario ha perso in giornata e l’impiegata trasportata per farsi raccontare quant’è meraviglioso arrivare in orario per merito del tranviere non pagato?