di Carlo Gubitosa
Meno male che c'è il Cospe, una delle organizzazioni promotrici della campagna “Mettiamo al bando la parola clandestino”, altrimenti non avrei mai scoperto la caccia al rumeno lanciata da “Il Giornale” sul proprio sito web, da cui mi tengo prudentemente alla larga. Il 4 febbraio, alla vigilia del decreto che trasforma i medici in poliziotti/spie, legalizza le ronde di vigilantes e batte cassa sulla pelle dei più poveri con la tassa sul permesso di soggiorno, il sito ilgiornale.it dà lezioni di populismo con l'articolo “Cacciamoli. Bucarest si riprenda le sue canaglie”:
Un articolo che sarebbe ridicolo se non fosse inquietante, dove Paolo Granzotto parla di “rispedire al mittente la feccia romena”, e spera “che non mi si dia del razzista se chiamo col loro nome individui che ammazzano, stuprano, rubano agendo con furore belluino”. Il teorema è semplice:
mandiamoli a casa loro perché da noi la giustizia è troppo buonista.
Granzotto si chiede anche “se desti più furore sapere che il colpevole in qualche modo l'ha fatta franca – magari scarcerato dopo un paio di giorni – o sapere che è fuori dai piedi, in qualche galera o in qualche souk [sic!] romeno”. E che saranno mai questi “souk romeni”?
L'immagine evocata da questo articolo è quella di un carcere duro tipo quello che ospitava Dustin Hoffman e Steve McQueen in “Papillon”, dove carcerieri unti e nerboruti sono pronti a farti fuori al minimo gesto di ribellione. In realtà ci vuol poco a confondere i mercati arabi con un piatto nordafricano, e dall'unione dei “suq” con il “couscous” nasce il “souk” di Granzotto.
La notizia gira su Facebook fino ad incontrare l'ironia dello scrittore pugliese Giuliano Pavone:
“dall'articolo si evince che Granzotto non sa cosa sia un suq, convinto che la Romania – dove notoriamente si parla l'arabo, altrimenti non potrebbero essere così canaglie – sia piena di suq. A quando i kibbutz paraguayani e gli igloo congolesi?”
Il senso di grottesco che nasce da questo esempio eclatante di disinformazione aumenta al pensare che queste cose sono scritte anche con soldi “rumeni”: quelli versati al fisco dai lavoratori immigrati e successivamente dirottati ai quotidiani grazie ai finanziamenti pubblici. Se fossimo un paese civile, il razzismo ce lo pagheremmo almeno di tasca nostra, e oltre alla “feccia rumena”, avremmo il coraggio di perseguire anche quella italiana, perfino quando si nasconde nei banchi del Parlamento e nelle redazioni prestigiose. (La Catena di San Libero)