Accadeva quarant'anni fa, nella celebre “rivolta delle arance”. E' la nota vicenda di Fondi, ora rievocata in un libro. Dai fatti di allora si comprende l'appannarsi della moralità pubblica di oggi. L'analisi di Alfonso Pascale
di Alfonso Pascale
L’Associazione culturale ”Forum delle Idee”, presieduta da Domenico Di Resta, ha curato la pubblicazione del volume La rivolta delle arance. Fondi 3 Febbraio 1969 dedicato ad una vicenda di quarant'anni fa, quando migliaia di contadini, provati dalle conseguenze di una grave crisi di mercato di questo agrume, occuparono la linea ferroviaria Roma-Napoli e si scontrarono violentemente con le forze dell’ordine. Il libro è il primo di una collana dedicata alle “Pagine di storia della nostra comunità” con l’obiettivo di ricostruire eventi che hanno segnato la vita politica e sociale delle popolazioni della provincia di Latina.
Il volume si compone di uno studio di Antonio Di Fazio sul contesto economico e sociale nel quale maturò ed esplose la rivolta, alle caratteristiche e contraddizioni del movimento e ai suoi esiti. Ad esso seguono gli articoli comparsi sulle cronache locali del “Messaggero” e del “Tempo” e sulle pagine nazionali de “l’Unità” e il resoconto del dibattito alla Camera dei deputati a seguito delle risposte del Ministro dell’agricoltura Valsecchi e del Sottosegretario all’interno Salizzoni alle interrogazioni che sulla vicenda erano state presentate da diversi Gruppi parlamentari. La pubblicazione si chiude con un report redatto subito dopo i fatti dalla Sezione comunista di Fondi, dalla Federazione di Latina e dal Gruppo parlamentare del Pci.
La vicenda di Fondi si collocava in una fase decisiva dello sviluppo di una città e di un territorio profondamente segnati da trasformazioni epocali che influenzavano la vita dei cittadini, le loro attività economiche, l’uso degli spazi e delle risorse agricole e ambientali. Il disagio tra la popolazione era enorme ed esplose in forme rivoltose per l’incapacità delle classi dirigenti dell’epoca di governare la modernizzazione, che da pochissimi anni si era prodotta, ma che incontrava una serie di difficoltà in assenza di una cultura imprenditoriale tra i ceti produttivi e di una cultura di governo nelle forze politiche e sociali. Era dunque la spia di un processo ancor più ampio che avrebbe travolto di lì a poco il sistema politico in una crisi che si è trascinata fino ai giorni nostri.
Oggi la comunità di Fondi è molto provata a causa di fatti che non si addicono alla storia di una città dalle grandi tradizioni culturali e politiche: il governo potrebbe, infatti, sciogliere il consiglio comunale per infiltrazione mafiosa a seguito della richiesta in tal senso avanzata da una commissione d’indagine insediata dal Prefetto di Latina. Anche il presidente della Regione Lazio, Marrazzo, ha chiesto al premier Berlusconi di affrettare i tempi dello scioglimento.
Riflettere sulle vicende di quarant'anni anni fa è, pertanto, utile per comprendere come si siano prodotti quello sfilacciarsi del tessuto sociale, quell’allentarsi del senso civico e quell’appannarsi della moralità pubblica da cui derivano i fatti di oggi.
Per questo motivo, è utile collocare la rivolta di Fondi nella più ampia sequenza di moti sociali che nel biennio 1968-69 interessarono l’insieme delle campagne italiane: dalla contestazione degli aderenti alla Coldiretti nei confronti del loro presidente Bonomi, in occasione della Fiera agricola di Verona, alla manifestazione dei 60 mila a Roma, indetta dall’Alleanza dei contadini; dalle cinque giornate di lotta dei viticoltori del Monferrato e delle Langhe agli scioperi bracciantili della Sicilia, del Lazio e della Sardegna contro le zone salariali; dalla rivolta di Fondi a quella di Battipaglia in conseguenza della crisi dell’industria di trasformazione dei prodotti agricoli; dalle manifestazioni per la riforma dei patti agrari nelle Marche e in Toscana agli scioperi zonali in Basilicata per l’irrigazione e la riforma del collocamento.
La mobilitazione delle campagne assume caratteri ribellistici ed evidenzia una difficoltà dei partiti e delle organizzazioni di rappresentanza ad incanalare la protesta in strategie di cambiamento credibili. Le forze di governo e gli organi dello Stato rispondono, infatti, con il pugno di ferro. I contadini che occupano ferrovie, nodi stradali, comuni vengono caricati brutalmente dalle forze dell’ordine. Ad Avola, in Sicilia, due braccianti sono uccisi e 50 feriti dalla polizia. A questo proposito, lo storico Giuseppe Giarrizzo sostiene che lo scontro sia stato voluto per anticipare scelte maturate in settori decisivi dell’apparato statale e della politica italiana, incapaci di fronteggiare il conflitto sociale con politiche di riforme. Si è trattato, in sostanza, di prove generali della strategia della tensione.
Cos’era successo di così eclatante, a metà degli anni Sessanta, da spiegare un conflitto sociale così acuto, che non interessava solo le università e le fabbriche, come erroneamente riportano i libri di storia e recenti rievocazioni cinematografiche e letterarie del ’68, ma in modo così ramificato e significativo anche le campagne?
L’Italia usciva da una grande trasformazione avvenuta in modo repentino. Solo dieci anni prima, nel 1958, gli occupati in agricoltura avevano ceduto il primato nelle statistiche ai lavoratori dell’industria e si era avviato quel boom economico, che aveva indotto un mutamento antropologico della società italiana. Solo diciotto anni prima, nel 1950, era stata varata la riforma agraria che aveva dato il colpo d’ariete a due processi economico-sociali fortemente intrecciati: l’industrializzazione del paese e la formazione di una proprietà diffusa della terra, su cui si è progressivamente innestata un’agricoltura moderna.
Stava mutando il volto dei territori rurali. Tra il 1951 e il 1971 il mondo rurale perdeva 4,4 milioni di agricoltori, ma guadagnava 1,9 milioni di operai, impiegati e artigiani che non si trasferirono nelle città e restarono nelle campagne.
Ma alla rottura sociale si accompagnava quella territoriale, coi processi di specializzazione e intensificazione produttiva, il consumo sconsiderato di aree agricole e l’incuria del paesaggio.
Mutava il volto del Centro-Nord. La meccanizzazione agricola espelleva manodopera ed accresceva la produttività del settore. Ma lo spopolamento delle zone montane e collinari dell’Italia settentrionale e centrale creava, nelle stesse regioni dove si era verificato, nuove attività e nuova ricchezza in settori produttivi diversi dall’agricoltura.
Mutava il volto del Sud. Tra il 1955 e il 1970, tre milioni di persone, per lo più uomini e giovani, tutti o quasi provenienti dall’agricoltura, spostarono la residenza dal Mezzogiorno in un comune settentrionale, senza lasciare in cambio nulla dietro di sé nelle regioni d’origine. Tuttavia, l’esodo rurale costituiva nel Sud il motore per introdurre le innovazioni della moderna tecnologia agricola. Inoltre, con il completamento della bonifica e l’irrigazione di oltre 500 mila ettari, tra il 1950 e il 1970, la produzione agricola meridionale si raddoppiava e cresceva ad un ritmo superiore a quello del Centro-Nord.
Una trasformazione di così ampie proporzioni e ad un ritmo così accelerato avrebbe richiesto classi dirigenti capaci di leggere i mutamenti, superare le divisioni ingiustificate e che avevano a pretesto la “guerra fredda” e adeguare le forme di partecipazione alla voglia di protagonismo di nuovi soggetti sociali.
I partiti e le organizzazioni sociali si erano dimostrati senz’altro all’altezza della propria funzione nazionale, nel dopoguerra, quando avevano provveduto a educare le masse alla democrazia e ad avviare la costruzione dello stato sociale. Ma si rivelano ora del tutto inadeguati a governare la modernizzazione.
Non percepiscono, ad esempio, il valore politico e culturale del ruolo avuto dalla riforma agraria e dalla edificazione delle grandi opere infrastrutturali e irrigue. Pochi sanno leggere il significato delle migrazioni interne come presupposto e conseguenza della nascita di un’agricoltura moderna su culture e valori che non sono affatto scomparse.
Eppure l’assegnazione delle terre a seguito della riforma agraria e le agevolazioni per l’acquisto di aziende agricole avevano coinvolto oltre due milioni di ettari. Ma l’accesso alla terra da parte dei coltivatori non era stato un fattore di identificazione nazionale. La sua distribuzione era, infatti, avvenuta sotto il controllo di una parte politica contro un’altra, nella logica ferrea della guerra fredda, e non aveva creato vincoli di appartenenza alla nazione che aveva mobilitato le risorse per le operazioni di riforma e gli acquisti agevolati di terra.
Altrove l’accesso alla terra è storicamente alla base delle democrazie occidentali: proprietà coltivatrice e ordinamento repubblicano sono state le due facce della stessa identità nazionale.
Nel caso italiano, l’aver impedito agli agricoltori di svolgere un ruolo autonomo nella società non ha permesso una crescita dell’identità nazionale; il fatto di non aver accompagnato la nascita dell’agricoltura moderna mediante una comune visione politica e culturale ha ostacolato la sua percezione come coagulo identitario.
E’ mancato in Italia un romanzo che fosse l’equivalente di Furore di John Steinbeck, ispirato al dramma dei contadini rovinati dalla crisi del ’29 ed al New Deal rooseveltiano da cui rinacque l’agricoltura americana moderna. E manca un film simile all’omonimo che ne trasse John Ford nel 1940. Romanzi e film di ambientazione agricola, in Italia, hanno riguardato e riguardano tuttora esclusivamente periodi storici precedenti alla riforma agraria degli anni ’50.
Il ’68 ha espresso anche questo disagio, che derivava da un uso strumentale della vicenda agricola, a fini di lotta politica. Da una banalizzazione delle risorse umane spese per edificare l’agricoltura che oggi ci ritroviamo. Da un senso di spaesamento che ha impedito agli italiani di inorgoglirsi per i progressi che si registravano nel settore agricolo.
I partiti e le organizzazioni sociali non hanno saputo leggere gli esiti della modernizzazione agricola che si sintetizzavano in due dati risultanti difformi rispetto alla media europea: una percentuale più consistente di agricoltori rispetto all’insieme degli occupati e una quota più elevata di aziende di dimensioni molto ridotte. Per anni quei dati saranno interpretati come l’esito di una modernizzazione incompiuta e saranno, di conseguenza, prescritte politiche di rafforzamento aziendale indiscriminanate che avranno come modello l’agricoltura del Nord Europa. Quei pochi che hanno visto negli esiti della modernizzazione la riconferma della molteplicità dei sistemi agricoli territoriali come elemento fondante dell’organizzazione socio-economica delle campagne italiane sono stati, invece, bollati come inguaribili ruralisti.
Bisognerà aspettare il presidente della Commissione europea, Jacques Delors, quando a metà degli anni ’80 denuncerà l’insufficienza di una politica settoriale per l’agricoltura priva di una contestuale politica territoriale, per avere una politica di sviluppo rurale.
In Italia, per le sue caratteristiche strutturali, il problema dell’insufficienza della politica dei mercati agricoli si era già ampiamente palesato negli anni ’60. Ma, ad eccezione di Manlio Rossi-Doria, nessuno pose l’obiettivo di governare per tempo i cento sistemi agricoli territoriali con politiche differenziate.
I partiti e le organizzazioni sociali di allora non si sono, inoltre, accorti che le modificazioni principali sul piano del costume e dei valori si registrano proprio nelle aree rurali, dove l’impatto della società dei consumi, della televisione e della motorizzazione di massa è enorme.
E’ proprio in un comune agricolo, ad Alcamo, che Franca Viola rifiuta per la prima volta il matrimonio riparatore. E in occasione del referendum sul divorzio, nel 1974, la Dc vuole ad ogni costo la prova di forza e il Pci tenta fino all’ultimo di trattare per scongiurare la consultazione perché entrambi i partiti, benché fossero così ramificati nel Paese, non avvertivano le profonde trasformazioni ideali e culturali avvenute negli anni ’60 proprio nelle campagne e nel Mezzogiorno.
Va sottolineato, infine, che i ritardi non hanno riguardato solo i partiti e i sindacati ma le stesse organizzazioni di rappresentanza del mondo agricolo.
Paolo Bonomi aveva avuto il grande merito di riconoscere già nel 1944 l’errore di organizzare i coltivatori nel sindacato dei lavoratori dipendenti e, fondando la Coldiretti, aveva conferito alla categoria pari dignità rispetto alle altre. Ed è a seguito di questa felice intuizione che la “bonomiana” si radica nelle campagne.
Ma quando, negli anni ’60, deve guidare la modernizzazione, si trova ad essere braccio operativo della Dc in contrapposizione con la sinistra e incapace di far valere le esigenze reali della categoria, che mal sopporta la struttura gerarchica interna e la mancanza di autonomia nei confronti dei governi.
L’Alleanza dei contadini era, invece, nata in ritardo, solo nel 1955, per impulso di partiti che si erano attardati nella falsa convinzione che la categoria dei coltivatori avrebbe dovuto muoversi obbligatoriamente in un’alleanza con la classe operaia e diretta da quest’ultima.
E quando, dinanzi alle novità della modernizzazione, viene posta l’esigenza di fare un ulteriore salto di qualità, cioè fondare una nuova e autonoma organizzazione, dotata di strumenti per accrescere la professionalità, le conoscenze e il potere economico dei coltivatori, emergono forti resistenze politiche, dovute alle fratture tra i partiti di sinistra, alla rigidità degli schemi ideologici dei comunisti in materia di mezzadria e alle preoccupazioni organizzativistiche della Cgil.
Nonostante vi fossero già nel 1967 le condizioni per unire, in un’unica grande organizzazione, l’Alleanza, la Federmezzadri e l’Uci, si dà vita solo al Cenfac (Centro delle forme associative e cooperative) e ci vorranno altri 10 anni per fondare la Confcoltivatori.
La ribellione delle campagne, al pari di quella delle università e delle fabbriche, esprimeva, dunque, in modo profondo ansia di cambiamento, richiesta di governo, ricerca di nuove forme della politica e dell’organizzazione della società. Ed era alimentata da una forte carica liberatoria: la soggettività, che non metteva in discussione solo il legame tra consumi e bisogni essenziali ma anche il rapporto tra politica e società.
Ma questo elemento individualistico non era affatto nuovo perché non derivava dalla società industriale, bensì da quei valori della coscienza individuale e dell’autonomia della persona che erano insiti nei caratteri del mondo rurale dell’Occidente, come retaggio della fusione di culture rurali antichissime e Cristianesimo. Dinanzi a processi di sviluppo in cui l’innovazione tecnologica aveva assunto un finalismo totalizzante, gli spazi agricoli venivano cementificati senza unire l’urbano e il rurale in un unico disegno di governo del territorio e l’organizzazione sociale assumeva forme dirigistiche e di massificazione indistinta e anonima, i nuovi soggetti sociali che provenivano tutti, compresi gli studenti e gli operai, dalla cultura individualistica del mondo contadino hanno reagito per ottenere che il modello di sviluppo fosse ricondotto al fondamento individuale della democrazia occidentale, riproponendo in sostanza la centralità della persona.
Sarebbe, tuttavia, un errore pensare che l’apporto delle campagne ai moti sociali degli anni ’60 si esaurisse solo nell’aver posto il tema dell’individualismo,
Le lotte di quel periodo non avrebbero avuto i forti contenuti di egualitarismo e di giustizia sociale che si possono rinvenire facilmente scorrendo le piattaforme rivendicative, se non vi fosse stata anche su questi temi la matrice agricola.
Le forme di solidarietà e i valori di reciprocità, gratuità e mutuo aiuto caratterizzano, infatti, da sempre le aree rurali italiane. E’ sufficiente rammentare lo scambio di mano d’opera tra le famiglie agricole nei momenti di punta dei lavori aziendali, le esperienze consortili per la bonifica e la difesa idraulica, gli usi civici delle popolazioni locali sui terreni di proprietà collettiva, le origini agricole del movimento cooperativo nostrano – unico in Europa ad averle – per farsi un’idea di quanto profondo ed esteso sia nel nostro paese questo radicamento.
In quel passaggio cruciale della vita nazionale, il protagonismo di un mondo rurale in profonda evoluzione verso nuove soggettività si è caratterizzato nel contribuire a trasfondere nella modernità, vivificandola e arricchendola, quella coscienza individuale, quell’agire responsabile del singolo nel contesto sociale e quelle esperienze derivanti da pratiche secolari di mutuo aiuto e gratuità, che in parte lo avevano da sempre identificato.
In questi quarant’anni, quei valori e principi non si sono mai tradotti in riforme concrete, a partire dalla costruzione di nuovi partiti e nuove organizzazioni sociali.
Anzi, negli anni ’70, alla luce di risultati elettorali lusinghieri, la Dc e il Pci negheranno la propria crisi e non comprenderanno che il successo sarà solo il canto del cigno. E la linea della fermezza, sacrosanta, opposta al terrorismo sarà usata da essi anche come tentativo per rilegittimarsi e accantonare la domanda di cambiamento del sistema politico che il ’68 aveva espresso.
Come ha sostenuto recentemente Biagio De Giovanni, bisogna dire con chiarezza che il ’68 diede inizio alla dissoluzione dei partiti. Quella dissoluzione che sul finire degli anni ’80, con la caduta del Muro di Berlino, risulterà inevitabile.
Oggi quei problemi, ingigantiti dai nuovi che nel frattempo sono intervenuti, a partire dalla globalizzazione, sono in parte ancora sul tappeto e attendono una soluzione.
Il “68 delle campagne”, che potrebbe apparire un bizzarro ossimoro, è lì, invece, in attesa di essere letto in tutta la sua complessità. E noi potremmo attingere da questa storia valori, esperienze e significati in cui finalmente identificarci al fine di guardare al futuro con maggiore speranza. (Tatronaturale.it)
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