Luglio 1944, la retata degli ebrei

Di Luca Pignataro

Il visitatore che si aggiri per la città vecchia di Rodi, quella che un tempo in italiano era chiamata “città murata” perché racchiusa dentro possenti baluardi, troverà una piazza con al centro una fontana, coronata dalle riproduzioni di tre ippocampi. Quella piazza era il centro del quartiere ebraico di Rodi, che nel periodo del dominio ottomano spartiva col limitrofo quartiere turco l’area della città dentro le mura. Difficilmente però il visitatore di oggi troverà ebrei nelle case lungo le stradine circostanti. Troverà invece, in un’aiuola al centro della piazza, un monumento con un’iscrizione in più lingue dedicata ai martiri ebrei, cui la piazza stessa è intitolata.
Tra la fine del Quattrocento e l’inizio del Cinquecento la monarchia spagnola decise l’espulsione dei propri sudditi di religione ebraica, considerati poco affidabili. I profughi, chiamati ebrei “sefarditi” (da Sefarad, che nella loro lingua indicava la Spagna), trovarono asilo in diversi Paesi del Mediterraneo e in particolare nelle città dell’impero ottomano, come Salonicco. Da qui molti di loro si trasferirono a Rodi, conquistata dai turchi nel 1522, e vennero autorizzati ad abitare entro le mura della città, forse anche perché i dominatori musulmani volevano stornare sugli ebrei l’odio dei loro sudditi greco-ortodossi, cui non era consentito di restare nella città murata. Le tre comunità etniche (greco-ortodossi, turco-musulmani e israeliti sefarditi) vissero a fianco a fianco nei secoli seguenti senza mescolarsi
Dopo l’occupazione di Rodi da parte degli italiani nel 1912 e la sanzione del loro definitivo dominio nel 1923, gli israeliti parteciparono allo sviluppo economico e sociale che i nuovi dominatori diedero all’isola grazie al governatore Mario Lago, il quale istituì persino, col beneplacito del re d’Italia e di Mussolini stesso, un collegio per ragazzi aspiranti rabbini provenienti dalle comunità ebraiche dei Paesi balcanici e levantini e diretto per alcuni anni dal rabbino italiano Riccardo Pacifici. Le cose cominciarono a peggiorare nel 1938, quando il nuovo governatore Cesare Maria De Vecchi di Val Cismon, pur non essendo personalmente antisemita e anzi avendo fra le sue amicizie alcuni intellettuali italiani di origine israelita, dovette introdurre nel Dodecaneso le leggi razziali emanate in Italia, con le quali si interdicevano agli ebrei diverse attività professionali, sia statali sia private, il possesso di proprietà oltre un certo limite, la frequenza delle scuole statali e si toglieva la cittadinanza italiana a coloro che l’avessero ottenuta dopo il 1919. Ciò provocò la partenza di molti ebrei rodioti, che si diressero verso quelle terre (come ad esempio il Congo e la Rhodesia) dove già da tempo erano emigrati molti loro connazionali. Con lo scoppio della seconda guerra mondiale l’emigrazione non fu più possibile, ma gli ebrei rimasti godettero di qualche alleggerimento della loro discriminazione grazie ai successivi governatori italiani. Persino con l’occupazione tedesca dopo il settembre 1943 sembrò inizialmente che nulla sarebbe mutato, ma fu una breve illusione. Nel luglio 1944 i tedeschi arrestarono tutti gli ebrei di Rodi (pare circa 1800), rinchiudendoli per qualche giorno senza cibo né acqua, e infine deportandoli (insieme con gli ebrei di Cos) verso il continente europeo: la loro destinazione finale era Auschwitz, da dove ben pochi (solo qualche decina) sarebbero tornati, segnati per sempre nel fisico e nello spirito. Qualcuno era stato salvato dal console di Turchia, Selahattin Ulkumen, il quale ottenne che gli ebrei cittadini turchi (o che riuscì a far passare per tali) non fossero deportati.
I nomi di coloro così barbaramente uccisi sono iscritti sui muri della Sinagoga Grande di Rodi, aperta durante i mesi estivi grazie anche all’interessamento di alcuni superstiti, oggi sparsi nel mondo ma che si preoccupano giustamente di lasciare una testimonianza alle nuove generazioni.
Sorte migliore ebbero invece i circa cinquecento ebrei provenienti da diversi Paesi dell’Europa Centrale e diretti in America, imbarcati sul battello Pentcho che fece naufragio nelle acque del Dodecaneso nel 1940. Soccorsi dagli italiani, vennero internati a Rodi, dove rimasero bloccati data la guerra in corso. Due anni dopo, per carenza di vettovaglie furono inviati in Calabria nel campo d’internamento di Ferramonti. Da qui i profughi «naufraghi di Rodi» chiesero e ottennero soccorso da parte di papa Pio XII, che ringraziarono e a cui fecero gli auguri per il venticinquesimo di episcopato tramite uno di loro, di cognome Ehrlich, «padre d’un bambino nato a Rodi stesso e che porta il nome di Benito». Un ebreo tedesco sopravvissuto al naufragio era già stato ricevuto in udienza pubblica nel 1941 in Vaticano da Pio XII, al quale aveva fatto presente la situazione dei suoi compagni di sventura tenuti ancora in Egeo, chiedendo che potessero emigrare in Palestina o fossero portati in Italia, per evitare epidemie e carestie. Il Papa, già informato del fatto, gli suggerì di consegnare il giorno dopo un rapporto e gli raccomandò – ad alta voce in modo che anche gli altri partecipanti all’udienza, tra cui alcuni militari tedeschi, udissero – di sentirsi orgoglioso di essere un ebreo. Nel settembre 1943 infine il campo di Ferramonti fu raggiunto dalle truppe angloamericane e così i profughi ebrei furono definitivamente salvi.

pignataroluca@virgilio.it

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