dott. Salvatore Martinez
Presidente nazionale del Rinnovamento nello Spirito
Nella nota pastorale della CEI, seguente al Convegno Ecclesiale Nazionale di Verona del 2006, si legge: «Occorre creare luoghi in cui i laici possano prendere la parola, comunicare la loro esperienza di vita, le loro domande, le loro scoperte, i loro pensieri sull’essere cristiani nel mondo» (n. 26).
Ebbene, questo è uno di quei luoghi. Intanto, mi piacerebbe rileggere l’acrostico “UDC” – che sta per “Unione di Centro” – come “Unità dei Cristiani”. Qui a Loreto non è a tema l’unità “partitica” dei cattolici italiani; piuttosto la possibilità concreta che si ritrovi un’unità “politica” dei cattolici italiani.
Pertanto, un plauso al titolo “Non c’è laicità senza fede”. La fede, per sua indole, sa generare solo unità. Genera un “corpo”, uno stile di vita comunionale, una comunione di uomini che stanno in comunione con Dio. La fede è comunione!
Sant’Agostino affermava che “se la fede non è pensata allora è nulla” (in De Praedestinatione sanctorum, 2,5). Quindi più che “ripensare” al passato, dobbiamo “pensare” il presente come uomini spirituali, cioè valutando la realtà come uomini – ricorderebbe S. Paolo – che hanno “il pensiero di Cristo” (1 Cor 2, 16).
Il tema, poi, esplicita in modo chiaro il concetto di “realismo cristiano” al quale anche la politica deve obbedire.
Il credente è il realista per eccellenza. Non si rifugia nostalgicamente nel passato, né invoca un futuro depressivo o repressivo. Il cristiano è colui che con S. Paolo ripete: «La realtà è Cristo» (Col 2, 17). La differenza la fa Cristo. Il dilemma è tutto qui. Se Cristo c’è o non c’è. Perché se Lui non c’è, allora anche io sono assente, insignificante, impotente. O la mia fede genera Cristo nella storia, o il mio essere laico nel mondo profumerà di morte e non di vita, non basterà a salvare la mia anima, figurarsi essere di aiuto per gli altri.
La nostra laicità parte dal reale, lo include, lo assume, aspira a trasfigurarlo. È una laicità aperta all’uomo perché già spalancata a Cristo. Se è chiusa la porta della nostra fede in Dio, sarà sigillata la porta della nostra fiducia nell’uomo. La misura della nostra laicità è insieme uno spazio antropologico e teologico inscindibili: l’uomo e Dio; ancor meglio l’uomo in Dio e Dio nell’uomo. Lo illustra la meravigliosa “magna charta” sul laicato cristiano – la “Christifideles Laici” – di cui quest’anno ricorre il ventesimo dalla pubblicazione.
Questa Esortazione apostolica di Giovanni Paolo II ha spalancato un nuovo e magnifico orizzonte ai laici, interpellati con coraggio e fiducia a non disertare la storia, invitati «a guardare in faccia questo nostro mondo» (n. 3).
La realtà si può guardare, giudicare, abbracciare in due modi: obbedendo allo spirito di questo mondo, oppure obbedendo allo Spirito di Dio. Da una parte le tenebre della menzogna, dell’inganno, della falsità; dall’altra la luce della verità, della sincerità, dell’onestà.
La nostra laicità è lo spazio creativo dell’amore, di un amore compassionevole per questo nostro mondo. La nostra laicità è la capacità interiore di vedere il bene che manca tra le pieghe del male evidente, delle strutture di peccato che colpevolmente stanno espatriando Dio dalla storia. Un Dio che, al massimo, si vorrebbe come “un al di là”, un Dio scomodo, troppo esigente per essere parte di questo nostro tempo ondivago. Cristo, invece, si è posto come Signore del “di qua” e a noi – per fede – chiede di governare con Lui questo nostro mondo.
Senza questa passione per Dio e per l’uomo, la politica è più sterile delle donne sterili. Genererà solo delusione e fughe. Essere laici cristiani significa vivere una vita paradossale, essere uomini di sofferenza che seppure segnati dalla condizione umana si sforzano di non deturpare la bellezza e di non attenuare la gioia che provengono dal Vangelo di Cristo, perché l’amore non è mai insignificante ed è sempre crocifiggente.
Il Papa Benedetto XVI è esplicito: la politica, in ogni ordinamento statale giusto, è servizio permanente d’amore. “Non c’è nessun ordinamento statale giusto che possa rendere superfluo il servizio dell’amore. Chi vuole sbarazzarsi dell’amore si dispone a sbarazzarsi dell’uomo in quanto uomo” afferma al n. 28 dell’Enciclica.
È un giudizio lucido, laicissimo al contempo. La politica non è aliena dai valori dello spirito, altrimenti sarà un’osservazione epidermica della realtà, così che pensiero e azione mancheranno di un principio interiore, spirituale che le unifichi.
Proprio in occasione della XXIII Assemblea Plenaria dal Pontificio Consiglio per i Laici, dedicata alla rilettura della Christifideles laici, ricevendoci in Udienza privata (Città del Vaticano, 15 novembre 2008) Benedetto XVI ha affermato con la chiarezza espositiva che lo contraddistingue:
“Ribadisco la necessità e l’urgenza della formazione evangelica e dell’accompagnamento pastorale di una nuova generazione di cattolici impegnati nella politica, che siano coerenti con la fede professata, che abbiano rigore morale, capacità di giudizio culturale, competenza professionale e passione di servizio per il bene comune”.
Con queste parole il Pontefice ritornava sull’appello lanciato a Cagliari il 7 settembre u.s., indicando anche la pedagogia da seguire. Occorre porsi in questa sintonia e assecondare i passi proposti dal Pontefice per dare corso a questa sfida che ci attende.
“Formazione evangelica e accompagnamento pastorale”. Questi i due criteri metodologici e pedagogici con i quali dar corso a questo impellente impegno ecclesiale. Ma sono “cinque”, nel giudizio del Pontefice, le virtù, le caratteristiche da riscontrare o da determinare nei candidati, perché possa realizzarsi “il bene comune”:
• “coerenti con la fede professata”, non con le proprie idee o con quelle – finanche buone e umane – conformi all’opinione pubblica;
• “rigore morale”, perché è in atto una crisi antropologica tale da non poter più rinviare o minimizzare la gravità della “questione morale” anche tra i cattolici:
• “capacità di giudizio culturale”, cioè discernimento, frutto di studio, di meditazione, di capacità di distinguere un bene personale dal bene comune;
• “competenza professionale”, perché la politica è un’arte e non ci si improvvisa, specie quando non si possiede neanche un’attitudine o un’esperienza tecnica specifica;
• “passione di servizio”, non per l’onore personale o la gratificazione di pochi.
Mi soffermerò sulle due prospettive che il Santo Padre riconosce “necessarie e urgenti”.
Intanto la formazione evangelica. Non si legga “formazione politica” di una nuova generazione di cattolici impegnati in politica, ma “formazione evangelica” di una nuova generazione di cattolici impegnati in politica. Quindi occorre ritornare al Vangelo. È il Vangelo, da duemila anni, la fonte di giovinezza del mondo, quindi anche della politica.
È il Vangelo la migliore scuola di laicità possibile per l’umanità, perché nessuno più di Gesù ha insegnato agli uomini l’arte di vivere, partendo dal posto più insignificante della geopolitica del tempo, una stalla di Nazareth, e occupando infine il posto più infame per la politica del tempo, cioè la croce, per dire con i fatti come si ama, come si sta dalla parte della gente fino a dare la vita per i propri nemici.
Utopia? Ma allora lasci perdere chi pensa di dirsi cristiano in politica. Non esiste altra via. Che tu voglia assimilarti al “cristianesimo dell’essere lievito” o al “cristianesimo dell’essere luce” non puoi sfuggire alla prova del Vangelo.
L’indimenticato Papa Giovanni Paolo II, con ferma lungimiranza sentenziava: “Non c’è soluzione alla questione sociale al di fuori del Vangelo” (in “Centesimus Annus”, 3).
Pertanto, è il Vangelo la migliore fonte possibile d’ispirazione politica, di formazione “alla politica”. Se la politica è la “più alta forma di carità”, come ci hanno insegnato i Pontefici dello scorso secolo, il secolo della Dottrina sociale della Chiesa, ebbene proprio dall’alto, dall’alto dei Cieli Dio è venuto nella nostra terra, si è fatto per insegnarci come servire l’uomo, come onorare la sua dignità umana, come rendere il mondo in cui questo uomo abita più giusto, più solidale, più fraterno.
Con S. Paolo dovremmo fare del Vangelo il nostro vanto, perché niente di meglio, di buono, di vero, di divino possiamo trovare in nessuna altra scienza umana, teologica, sociologica, filosofica più del Vangelo di Gesù.
Urge tornare al Vangelo. Senza mezze misure, senza accomodamenti di senso e di prassi, senza vergogna di dirsi cristiani. In fondo, guardando allo scudo crociato e alla croce che vi campeggia, sarebbe una bella provocazione tradurre la sigla UDC, almeno nel silenzio del cuore di chi in questa compagine milita, e con tutto il rispetto per chi ne è alla guida, più che “Uno di Casini” oppure “Uno di Cesa” con “Uno di Cristo” o se volete “Uno del Crocifisso”. Sì, di Cristo! Fieri di avere imparato dal Crocifisso l’arte di amare.
Perché il Vangelo è passione, è sacrificio, è coerenza tra la fede che si professa e la vita che si conduce, “il cui distacco, sempre più evidente – già il Concilio nella Gaudium et Spes – considerava uno dei più gravi errori del nostro tempo” (n. 43).
Quel Crocifisso indica la via, la verità e la vita da abbracciare come la più conveniente modalità di essere politici in questo mondo. Perché il cristianesimo è una via da percorrere, una verità da annunciare, una vita da vivere. È tutto qui il contenuto pratico della nostra laicità, del nostro essere laici in questo mondo. La cifra della nostra laicità è Cristo. Non è un aggettivo, è una persona. Non è un ricordo, è pensiero dominante. Non è un insieme di teorie, ma di buone prassi
Mai dimenticarlo: dal Vangelo nasce la Chiesa, il modello più efficiente di organizzazione, di management, di pianificazione strategica che la storia da duemila anni possa vantare: nessuna diplomazia è mai stata più longeva di quella fondata sul Vangelo. Chi sta dalla parte di Cristo non soccombe, resiste ai secoli. “Con Lui o contro di Lui – diceva il Manzoni – perché essere senza di Lui, come molti pensano di fare in nome della laicità, è già essere “contro di Lui” (in Osservazione sulla morale cattolica).
Urge un rinnovamento. Una seria, profonda stagione di rinnovamento che abbia un segno distintivo di svolta, un’espressione autentica di fede in un gesto alla portata di tutti: riprendere il Vangelo tra le mani. Rimetterlo nel cuore, nella testa, nella volontà. Quanto più si vorrebbe una vita ispirata al Vangelo di Gesù, una politica ispirata al Vangelo, tanto più è urgente riprendere il Vangelo tra le mani.
L’urgenza dice emergenza, come una casa che brucia o una città le cui fortificazioni sono assediate dal nemico. È bene, se qui si vuole immaginare uno scenario nuovo per una politica ispirata, disegnata, armonizzata con i principi fondamentali della nostra tradizione cristiana, occorre dire che il nemico della superbia, dell’egoismo autoreferenziale, dell’immoralità, dell’avidità del potere, dell’avarizia del denaro si sono felicemente accasati nei cuori di molti cristiani che non onorano Cristo con la loro vita.
Il Papa parla anche dell’urgenza dell’accompagnamento pastorale. È quella responsabilità ecclesiale che interpella in primis le Chiese locali, le parrocchie, i movimenti, le nuove comunità, le associazioni. Nel 1998 Giovanni Paolo II e nel 2006 Benedetto XVI hanno indicato nella Chiesa la coessenzialità del profilo gerarchico e di quello carismatico; e hanno chiamato noi leaders di movimenti cattolici ha vivere la corresponsabilità pastorale con il ministero petrino, promuovendo scuole di vita cristiana che formassero alla preghiera, alla comunione, alla libertà, alla missione.
È urgente ridare vita a questo “accompagnamento pastorale”, ad uno stile di vita ecclesiale più fraterno, partecipativo, spirituale, carismatico. È un fatto che con il tramonto della Democrazia Cristiana la formazione non sia più di casa in politica. Si può ripartire? Sì, ma urge ritessere i fili di una fiducia ecclesiale, di un discernimento ecclesiale che riveda più vicine e dialoganti la gerarchia e il laicato, specie quello associato, nella difesa e nella promozione della laicità cristiana del nostro Paese, senza clericalizzazioni del laicato o laicizzazioni del clero.
Insieme, dobbiamo ri-formare e rinnovare la nostra coscienza sociale fondata sulle verità evangeliche. Insieme, e in modo esigente, dobbiamo esplicitare il contenuto morale della nostra fede quando parliamo di bene comune ed essere esigenti con chi si dice “cristiano in politica”.
Occorre ritrovare l’umiltà di ripartire dal basso, di chiedere aiuto, di lavorare insieme alla nostra gente – non alle spalle – di stare sul territorio, di partire dal territorio, di lavorare nel territorio senza “ambizioni romane”, mostrando proprio nelle nostre comunità locali la bellezza e la forza della comunità ecclesiale: Altro che divisi, minoritari e marginali. Abbiamo numeri da fare spavento e piangiamo sempre miseria offendendo la grazia di Dio che ci ha fatto oggetto di ogni dono di grazia, materiale e spirituale.
Nessuno può più tirarsi indietro. Il regno di Dio deve avanzare, non essere lacerato da inutili rancori autoreferenziali che ancora serpeggiano nel mondo cattolico, né arroccarsi su posizioni ideali che la storia ha già superato, retaggi del passato che non interessano le nuove generazioni e che paralizzano l’avanzare del nuovo anche in politica.
Nessuno si faccia illusioni se si vuole che i movimenti, le comunità, siano lo spazio del discernimento, della formazione, della maturazione di nuove vocazioni, di nuovi carismi da offrire all’impegno politico. Se vogliamo fare un tratto di strada insieme saremo vigilanti: non possono esistere deleghe in bianco per nessuno, né compiacimenti o acconsentimenti verso amici e conoscenti che premiano la mediocrità, penalizzano ciò che di buono, di veramente buono c’è in mezzo a noi e che viene relegato ai margini, in particolar modo i giovani.
Siamo alla vigilia di due importanti anniversari.
A Sturzo non dobbiamo solo un debito di memoria, ma il dovere di prestare un ascolto più profondo. La sua lungimiranza profetica ritorna attualissima: non si possono governare gli uomini, se non si è governati dallo Spirito Santo. Non c’è ordine sociale senza ordine spirituale.
Struzo, partendo dal territorio e attraversando in lungo e in largo l’Italia per 14 anni, ovunque postulava questo principio: la coscienza sociale di un popolo può essere risvegliata, può farsi cultura solo a partire dai valori dello Spirito”. Ben lo intese don Luigi Sturzo che esiliato a Londra, nel 1938, scriveva (in The preservation of the faith): “La vera rivoluzione comincia con una negazione spirituale del male e una spirituale affermazione del bene. Ciò procede lentamente, ma è una costruzione sicura, un edificio con profonde fondamenta di carità e di giustizia”.
Proprio lamentando questo “ritardo spirituale” don Sturzo riscontrava un pericolo: che la vita della società, per un credente, potesse rimanere solo sul puro piano “naturale”, come se veramente potesse esistere “una società naturale libera da ogni influsso soprannaturale. Al contrario non esiste che una società che fa reale sintesi con la soprannaturalità. Vita soprannaturale come integrativa, sintetizzante e trascendente la vita naturale, presa sia come iniziativa divina nell’uomo sia come corrispondenza dell’uomo all’iniziativa divina” (in La vera vita. Sociologia del soprannaturale).
Vorrei concludere con un’immagine, come ci viene raccontata dall’evangelista Giovanni: Gesù che incontra Nicodemo (in Gv 3, 1-21). È l’umiltà della natura umana (Nicodemo) che incontra la potenza della natura divina (Gesù). Nicodemo, un anziano rabbino, incontra Gesù, un giovane rabbino, convinto che dietro quella potente parola accreditata da segni e miracoli si nasconda qualcosa di più di un semplice maestro. “Cosa devo fare?”, chiederà Nicodemo a Gesù. Nicodemo è deciso a mandare in crisi le sue certezze. Invoca una nuova vita. E Gesù non lo delude. “Fai la verità e così rinascerai.. Perché ciò che è nato dalla carne è carne, ma ciò che è nato dallo Spirito è Spirito. Opera la verità e verrai alla luce, perché appaia chiaramente che le tue opere sono state fatte in Dio”.
Il miracolo di una vita nuova, di una politica nuova, di un Paese nuovo non risiede nelle nostre forze umane, ma nella forza dello Spirito Santo, perché appaia chiaramente che è opera sua, proprio attraverso le nostre debolezze e infermità. Se questa opera è stata fatta in Dio e obbedirà allo Spirito di verità e allora non solo farà venire alla luce qualcosa di nuovo, ma darà vita a qualcosa che rimarrà.