Le tesi di laurea sull’emigrazione sul sito dei Lombardi nel Mondo Storia delle Acli in Germania

Il lavoro di Simonetta Del Favero analizza l'opera delle ACLI e altri Enti nei decenni della grande emigrazione italiana in Germania, nell'epoca in cui i Gastarbeiter erano essenziali per la dinamica economica e sociale della Germania e dell'Italia. Con il reclutamento del 1955 giunsero in Germania delle “persone”, non solo braccia. Con le loro storie, problemi e capacità, risorse e sogni

Le ACLI e l'emigrazione italiana in Germania (seconda puntata)

L’emigrazione italiana nel secondo dopoguerra

… Avevamo bisogno di braccia, e sono arrivati uomini (1) …,

Quanti significati e verità dietro ad una semplice frase. La storia dell’emigrazione, nel nostro paese, è una questione molto complessa che affonda le sue radici in un passato che troppo spesso ridiventa per noi presente. Il compito della storia è principalmente quello di insegnare, di far capire, di far conoscere, con la speranza che errori, spesso tragici, e scelte sbagliate del passato non abbiano più a ripetersi. Ma questo non sempre avviene.

La storia della nostra emigrazione è un continuo ripetersi di situazioni già vissute in tempi passati, di condizioni interne al nostro paese già conosciute ma mai risolte, di cause e conseguenze che nemmeno il trascorrere del tempo ha potuto cambiare.

E’ molto difficile iniziare un discorso su questo argomento, dati, statistiche, vicende politiche, sentimenti, tutto si affolla e si confonde.

1.1 Ragioni economiche e sociali

Cosa o chi ha spinto un tal numero di persone ad abbandonare la propria terra, la propria famiglia per avventurarsi in luoghi a molti sconosciuti e per tutti lontani? Cause e responsabilità.

Sovrappopolazione, povertà di risorse, limiti del territorio, sono tra le principali cause che vengono adotte per cercare di spiegare il fenomeno emigrazione in Italia. Ma le analisi negli anni hanno dimostrato come queste siano giustificazioni determinate da una politica dei governi succedutisi nel tempo, incapace di affrontare una realtà complessa e problematica quale quella del Mezzogiorno. Non è proprio corretto parlare solo di incapacità, in quanto spesso sembra invece trattarsi di vera e propria volontà di mantenere la situazione in determinate condizioni, rivelatesi negli anni di “utilità” alla politica economica ed estera italiana.

Quante volte ci troviamo a discutere di emigrazione e clandestinità con i nostri colleghi e amici, dando le nostre soluzioni, senza considerare quello che essa significa realmente per noi. Anni di sfruttamento e nient’altro, braccia e non uomini, questa e nessun’altra è la considerazione che ancor oggi sentiamo fare di migliaia di persone che chiedono soltanto di riavere quanto il nostro “moderno” modo di vita toglie loro quotidianamente.

La storia della nostra emigrazione in Germania può essere, oggi, la dimostrazione che ancora sussiste nelle mentalità di politici, economisti, imprenditori, e gente comune la distinzione degli esseri umani in due categorie. Quelli che appartengono alla prima devono godere di tutti i diritti e sopratutto del diritto di vivere una vita degna di questo nome, quelli che appartengono alla seconda devono invece essere il mezzo affinché questo possa avvenire. Un’opportuna diffidenza viene poi diffusa nell’opinione pubblica così da evitare che eventualmente qualcuno possa porsi qualche perché di una tale situazione. L’obiettivo è sempre quello di mantenere ben divise e in contrasto le due realtà, evitare quanto più possibile che esse vengano in contatto, che esse acquisiscano una coscienza di classe. Non si spiegherebbe altrimenti l’insuccesso delle politiche a favore del mezzogiorno e in particolar modo la difficoltà di giungere, nel momento in cui si scelse questa come via migliore, ad una seria politica dell’emigrazione.

Tra il 1949 ed il 1950 la Riforma Agraria aveva due obiettivi, uno politico che si prefiggeva di conquistare al sistema democratico la popolazione agricola sopratutto meridionale, ed uno economico che vedeva nella valorizzazione del latifondo la possibilità di aumentare la produzione agricola e da questo giungere a redditi più elevati e ad una maggiore occupazione. Entrambi però fallirono, non mutò l’atteggiamento politico dei contadini e l’eccessivo frazionamento dei terreni espropriati non consentì il raggruppamento delle piccole unità produttive in aziende di proporzione grande e media; continuava, inoltre, a mancare un’adeguata educazione tecnica e civica e gli enti di riforma e le loro dirigenze cominciavano a trasformarsi in centri d’influenza politica, alterando le finalità e l’operato degli enti stessi. Anche l’azione della Cassa per il Mezzogiorno non riuscì a mutare la situazione. Uno dei maggiori errori di questa politica fu quello di aver puntato sopratutto sulla creazione delle infrastrutture tralasciando il sostegno all’iniziativa privata. Si manteneva e si ponevano così le basi di un ulteriore sottosviluppo umano, sociale ed economico delle regioni meridionali che sarebbe andato ad alimentare un fenomeno migratorio dequalificato professionalmente e pertanto sottoposto alla concorrenza di altre correnti migratorie.

Il fallimento delle iniziative a favore del Mezzogiorno, secondo molti studiosi, è insito negli stessi squilibri endemici che caratterizzano la situazione italiana, per cui:

– la sovrappopolazione associata ai limiti del territorio che «per oltre metà è improduttivo o inabitabile per le caratteristiche orografiche» (2),

– la sovrappopolazione associata ad un sottosviluppo come quello del Mezzogiorno che ha in sé tutte le caratteristiche storiche, politiche, sociali ed economiche per essere inserito nelle aree geografiche della fame e che grazie all’analfabetismo, alla disoccupazione, alla permanenza del latifondo, ad una concezione mafiosa della vita, lo rendono un serbatoio permanente di manodopera disoccupata e con scarse prospettive di recupero (3),

– la sovrappopolazione associata alla caratterizzazione prevalentemente agricola dell’Italia che non le ha consentito il superamento delle dicotomie tradizionali settoriali e territoriali tra agricoltura-industria e Mezzogiorno-Nord, aggravando la sproporzione tra pressione demografica e disponibilità delle risorse, determinando condizioni di vita insostenibili ed alti tassi di disoccupazione e sottoccupazione, fino a portare gli individui all’emigrazione (4).

Certamente tutti questi fattori hanno un’influenza notevole sullo sviluppo che si avrà dell’emigrazione, ma non si può non tenere in considerazione il fatto che «l’espansione della popolazione in un’economia dinamica, agile e moderna, è un fattore indispensabile di progresso» (5), l’errore fondamentale è stato, e continua ad essere, il non aver puntato su questa fonte di ricchezza e di progresso rappresentata dalla forza lavoro, su uno sviluppo economico non arretrato rispetto a quello demografico, in grado di consentire il progredire dei suoi rapporti di produzione parallelo a quello della popolazione. D’altronde gli esempi che il nostro stesso paese ci offre sono sufficientemente esaustivi se pensiamo che regioni densamente popolate e a parità di superficie non sono paesi esportatori di manodopera, e invece regioni come la Sardegna che ha una densità bassissima di popolazione rispetto alla superficie è invece una delle regioni ad alta esportazione di forza-lavoro.

La teoria della sovrappopolazione come fattore principale dei problemi del Meridione sembra più che altro una giustificazione di un’inadeguata politica migratoria che ha mirato principalmente non solo all’esportazione dei capitali, ma anche all’esportazione di manodopera, non cercando invece un maggiore e migliore investimento di entrambi sul proprio territorio. Per dirla con Sergio Greco: « … non esistono paesi poveri … esistono invece paesi poveri di idee, incapaci di modificare sovrastrutture parassitarie, di modificare politiche stolide… in favore di interventi massicci di risanamento economico, civile e quindi sociale» (6). Una precisa determinazione a mantenere una massa di persone in perenne attesa di un intervento dello Stato, di lavori di miglioramento a favore della collettività, in uno stallo che non porta ad alcuna promozione sociale, culturale ed economica dell’iniziativa privata. Sembra molto più corretto parlare di mancanza di risorse culturali piuttosto che naturali, sia da parte della classe politica che di quegli strati della società che un ruolo importante hanno avuto nel sottosviluppo del Sud; n’è un esempio la borghesia, che, mentre in Europa e nel nord Italia si faceva promotrice del nuovo sviluppo economico, nel Sud Italia ereditava il parassitismo e la mancanza generale di volontà di elevare le popolazioni, caratteri che per anni avevano caratterizzato la vecchia nobiltà. Parassitismo, fatalità e provvidenzialismo sono le linee guida per il vivere quotidiano che vengono instaurate, per una cultura emarginata e repressa alla quale viene presentato come unico sbocco l’alternativa tra rassegnazione, fuga o violenza. In effetti, la scelta che fu fatta per riequilibrare lo squilibrio tra l’aumento della popolazione e l’arretratezza della struttura produttiva si risolse nell’emigrazione, vista come unica possibilità per eliminare buona parte delle richieste che allo Stato giungevano dal Sud. Una decisione che però non teneva conto del fatto che in questo modo ci si stava avviando verso una piena dipendenza dalle congiunture del mercato internazionale, dai suoi momenti di sviluppo e dalle sue recessioni, e che non comportava una partecipazione popolare all’applicazione di questo modello alle varie realtà regionali. Si preferì una dipendenza dall’economia, dalle leggi dell’accumulazione e dello sviluppo per poli, che col tempo si manifestarono come ulteriori cause dello squilibrio nel rapporto popolazione- risorse, con una « egemonizzazione dello scarno tessuto economico delle zone di spopolamento da parte d’ imprese agricole o industriali esterne e capital- intensive che hanno politiche di investimento di segno negativo per l’ambiente in cui operano» (7).

Non si tendeva all’organizzazione di una crescita coordinata del paese, allo sviluppo ed alla diffusione capillare sia dell’istruzione, con provvedimenti continuativi e legati tra loro, sia della formazione professionale; mancanze che andranno poi ad incidere pesantemente sulla vita dei nostri connazionali all’estero, la cui scarsa preparazione professionale comporterà l’impossibilità, per molti, di raggiungere l’obiettivo ultimo dell’emigrare: l’effettivo miglioramento delle proprie condizioni di vita.

1.2 La valvola di sicurezza dell’emigrazione

Da un rapporto della Direzione Generale dell’Emigrazione (Direzione dipendente dal Ministero degli Esteri, istituita nel 1947 e ristrutturata nel 1967 che si occupava dei vari problemi inerenti all’emigrazione), fine Marzo 1949, emerge che l’unica soluzione ai 4 milioni di unità lavorative in eccesso e quindi alle sicure tensioni sociali dovute al basso tenore di vita e alla disoccupazione, e a 400 miliardi di lire annui per oneri sociali era, per il Ministero degli Esteri, un’“adeguata emigrazione”, possibile fonte di riequilibrio per la bilancia dei pagamenti grazie alle rimesse (nel ’39 la percentuale del deficit della bilancia dei pagamenti coperto con le rimesse era stata del 50.9%). Questa sarà una costante nella politica migratoria italiana.

L’emigrazione viene così considerata come valvola di sicurezza, sotto il profilo economico, per alleviare gli oneri sociali e per riequilibrare la bilancia dei pagamenti, e sotto l’aspetto sociale, per garantire un tenore di vita ed un reddito più alti e di conseguenza meno disordini e agitazioni. Un antidoto alle tensioni sociali causate dallo stato di disoccupazione, miseria e assoluta indigenza delle masse popolari. Presentata come via naturale e spontanea di soluzione della questione meridionale, in quanto destinata ad eliminare o ridurre la sovrappopolazione delle campagne e quindi a favorire il miglioramento dei rapporti contrattuali tra proprietari e contadini; un’ottima forma di lotta di classe, adottata nel momento in cui prevalgono rapporti di forza particolarmente sfavorevoli, come accadde nell’800 e come pure a metà degli anni ’50 dopo la sconfitta contadina sull’imponibile di manodopera. Veniva così non solo incoraggiata, ma addirittura programmata dai governi, la valvola di sicurezza più efficace per il mantenimento della pace sociale, basata su intese bilaterali tra l’Italia ed i paesi direttamente interessati per regolamentare il movimento migratorio, guardando agli interessi economici della prima, e cercando di avere in cambio un corrispettivo in natura, importante per l’attività economica interna.

Una scelta ben diversa da quella che fu invece presa dalla Rft dalla seconda metà degli anni ’40. La seconda guerra mondiale lasciò l’Italia e la Germania in condizioni disastrose, sopratutto quest’ultima che si trovò ad affrontare, oltre alla situazione generale di disoccupazione comune ad entrambe, 12 milioni di «rifugiati politici» provenienti dalle regioni non più tedesche con una conseguente ulteriore riduzione del tenore di vita e dei salari dei pochi che avevano un lavoro.La popolazione attiva della Rft crebbe dai 19.327.00 unità del 1946, alle 22.074.00 del 1950, fino alle 25.202.00 unità del 1957, anno in cui iniziò l’immigrazione straniera, per un incremento sul 1946 del 30.4% che fu uno dei fattori principali della rinascita e del «miracolo economico tedesco». La scelta, infatti, non fu di disperdere questa eccedenza di popolazione con l’emigrazione, ma di impiegarla nei settori più disparati e in tutte le zone dove più serviva la loro presenza. Infatti, gli indirizzi economici della Rft erano diretti a salvaguardare ed incrementare tutti i fattori della produzione, a cominciare dalla manodopera; obiettivi ben diversi da quelli seguiti dall’Italia dove invece fu perseguita la «ricostruzione del potere di comando delle vecchie classi dirigenti e si «preferì riequilibrare il rapporto tra le strutture produttive arretrate del paese e la sua popolazione relativamente eccedente con l’emigrazione “ forzata”, perseguendo tale scelta con ogni mezzo ed impegno. » (8).

Arrivando così, a livello europeo, ad un risultato non proprio roseo, giacché aumentò ulteriormente il dislivello tra l’Italia, paese di forte emigrazione, e la Germania, paese invece a forte immigrazione; quest’ultima si trovava a dover affrontare un’accumulazione di capitale ben superiore a quella che le forze di lavoro autoctone riuscivano a valorizzare pienamente, di conseguenza aveva bisogno di forze-lavoro aggiuntive dall’esterno, riuscendo così a produrre e ad accumulare un plus-valore supplementare, proporzionalmente più elevato. Questo, trasformandosi a sua volta in capitale, richiedeva per il proprio impiego e valorizzazione il reclutamento di altra manovalanza, in un processo a catena che portò ad un’accelerazione costante della riproduzione del capitale e del suo bisogno di impiego, col risultato di accentuare ulteriormente lo squilibrio esistente tra paesi importatori e paesi esportatori di manodopera (9).

Da Crispi sino a De Gasperi e Rumor, era stato promosso il carattere “forzato” della nostra emigrazione; la DC con in mano il Governo ed il Ministero degli Esteri portò avanti gli indirizzi indicati dal Presidente del Consiglio De Gasperi, la ripresa dell’emigrazione di massa e l’adattamento a questo fine delle scuole e della formazione professionale, fino ad ammettere, parole del Presidente del Consiglio, di essere, : «…arrivato a dire ai rappresentanti dell’America che avremmo rinunciato al piano Marshall purché ci dessero il modo di finanziare una parte almeno della nostra emigrazione…» (10). Questa era la risposta che il governo dava al grande movimento contadino che dal meridione premeva per avere la terra, perché ci fossero le riforme, perché finalmente le rendite parassitarie ed i privilegi dei baroni fossero eliminati. Una situazione di forte tensione generale sfruttata dal Governo per far accettare l’emigrazione quale fattore di vantaggi sociali, in quanto essa avrebbe consentito di elevare il tenore di vita ed il reddito medio eliminando così i disordini e le agitazioni già presenti e che sarebbero andati sicuramente ad aumentare. Gli accordi internazionali con i paesi di immigrazione, intanto, venivano conclusi tralasciando la definizione delle tutele che avrebbero dovuto essere assicurate ai nostri emigranti all’estero. L’Italia si avviava così ad essere il grande serbatoio di manodopera che dal 1958 al 1970 consentì ai maggiori paesi d’immigrazione europei il rilancio della propria economia, a discapito della nostra che vedeva diminuire di circa 2 milioni d’unità la propria forza lavoro.

In Italia serviva ridimensionare lo schieramento popolare e per indebolirlo, si preferì allora una scelta di conservazione e, per tale fine, l’emigrazione di massa era l’arma migliore.

Un esodo che non può trovare giustificazioni nel livello assoluto della popolazione, riconosciuto, in condizioni normali, come «sorgente fondamentale di ricchezza» (11), e neanche nell’emigrazione come risolutrice del problema disoccupazione infatti, se questo fosse stato effettivamente così, oggi non dovrebbe più esistere una questione meridionale, ma non sembra proprio che questa sia la realtà.

Come sarebbe d’altronde potuto esserlo dal momento che con l’emigrazione è andata persa quella fascia di popolazione fondamentale per lo sviluppo futuro di un paese, la più giovane, la più intraprendente; si è cercato di superare lo squilibrio tra mezzi produttivi e popolazione creando un nuovo squilibrio: quello tra popolazione attiva e popolazione passiva. Il disavanzo emigratorio, costituito per lo più da persone per la massima parte in età lavorativa, ha comportato una diminuzione della popolazione attiva in modo molto differenziato all’interno del paese. La perdita demografica dal 1951 al 1975 è stata di 4 milioni e mezzo di persone; il peso demografico è passato dal 37% nel

1951 al 34% nel 1975, con un tasso di sviluppo demografico medio annuo molto inferiore a quello medio dell’Italia nord-occidentale.

DISTRIBUZIONE PER GRUPPI DI ETA’ DEL MOVIMENTO MIGRATORIO ITALIANO 1958- 1969

(insieme dei due sessi)

Gruppi di età Espatriati Rimpatriati Saldi

1958-63 1964-69 1958-69 1958-63 1964-69 1958-69 1958-63 1964-69 1958-69

(Migliaia di unità)

Paesi Europei

0-13 anni 37,0 72,4 109,4 10,7 58,8 69,5 26,3 13,6 39,9

14-29 anni 936,1 548,3 1.484,4 586,7 443,6 1.030,3 349,4 104,7 454,1

30- 49 anni 527,0 433,0 960,0 367,4 415,2 782,6 159,6 17,8 177,4

50 anni e oltre 40,9 78,9 119,8 31,6 80,9 112,5 9,3 – 2,0 7,3

TOTALE 1.541 1.132,6 2.673,6 996,6 998,5 1.994,9 544,6 134,1 678,7

Movimento complessivo

0-13 anni 120,5 148,7 269,2 34,8 70,5 105,3 85,7 78,2 163,9

14-29 anni 1.118,5 681,7 1.800,2 630,3 458,0 1.088,3 488,2 223,7 711,9

30- 49 anni 616,8 513,2 1.130,0 421,9 437,6 859,5 194,9 75,6 270,5

50 anni e oltre 82,4 121,2 203,6 60,8 99,6 160,4 21,6 21,6 43,2

TOTALE 1.938,2 1.464,8 3.403,0 1.147,8 1.065,7 2.213,5 790,4 399,1 1.189,5

Fonte: Monticelli L., Favero L., Un quarto di secolo di emigrazione italiana,Studi Emigrazione N. 25- 26, 1972.

La struttura per età e per sesso è uno degli aspetti che distinguono la popolazione attiva (nei gruppi di età fra i 15 anni ed i 65 anni) da quella passiva (nei gruppi di età sino ai 15 anni ed oltre i 65 anni); la maggior parte degli emigrati italiani, oltre 5 milioni al 1971, sono di sesso maschile e di età compresa tra i 16 ed i 50 anni, per cui nella popolazione che rimane in Italia prevalgono le donne, i vecchi ed i bambini, dei quali solo le prime avrebbero potuto avviare qualche iniziativa produttiva se però non avessero avuto la responsabilità della famiglia tutta sulle loro spalle e se avessero avuto più assistenza, anche a questo riguardo, da parte dello Stato.

Se consideriamo anche il rapporto tra uomini e donne, si noterà che esso è passato dal 103.6 maschi per ogni 100 femmine del 1861, al 100.5 maschi per ogni 100 femmine del 1881, al 95.4 maschi per ogni 100 femmine del 1971, con una diminuzione quindi dell’8.2% sul rapporto esistente al momento dell’unificazione nazionale. I maschi prevalgono, al 1971, sino al 15° anno di età, mentre le femmine prevalgono dell’1.9 % nel gruppo d’età 15-64 anni e dell' 1.3% oltre i 65 anni. Dati che, comunque, una più accurata programmazione economico- politica poteva, almeno in parte, prevedere, e allora quale possibilità di sviluppo si sapeva di andare a creare? L’abbandono?

Le regioni del meridione hanno perso, negli anni, una ricchezza fondamentale rappresentata dalla forza lavoro, ma non solo, ad essa va anche aggiunta la perdita delle spese sostenute per la sua formazione, quando questa c’è stata, e quella produttività che essa è andata a fornire alle altre nazioni europee. Non c’è stato il tanto promesso progresso delle regioni meridionali, ma una decadenza delle vecchie forme produttive, l’abbandono dei mestieri tradizionali, nuova disoccupazione, nuova emigrazione in un processo a catena.

«Lo sviluppo italiano è tendenzialmente uno sviluppo suicida, contraddittorio che svuota il sud, lascia morire l’agricoltura, soffoca il nord trasformandolo in una polveriera di tensioni sociali e dimentica per strada il centro» (12).

1.3 Motivazioni antropologiche e psicologiche

«… la logica che ha consentito (talvolta”stimolato”) l’emigrazione all’estero… è la stessa con la quale si piangono amare lacrime dopo alluvioni e catastrofi … che periodicamente affliggono il nostro paese. Si fa poco o nulla per risalire alle cause» (13).

Il sud è passato attraverso lo sfruttamento, l’immobilismo, l’abbandono da parte dello stato di uomini e di cose. Povertà economica, isolamento culturale, sottosviluppo e marginalizzazione sono elementi caratterizzanti una società che si è trovata suo malgrado gettata nel consumismo più sfrenato senza esserne stata preparata. Sviluppo e produzione da un lato, sottosviluppo e rassegnazione e accettazione di uno stato di fatto ormai «storico» dall’altra, determinano anche diversi modi di raffrontarsi ai nuovi modelli di comportamento europei. Nella politica dell’intervento è mancata la creazione di posti di lavoro produttivi ed economicamente validi, sulla base dell’utilizzo, al pieno delle loro capacità, delle risorse umane disponibili. Utilizzo che richiedeva la creazione di condizioni sociali e culturali tali da consentire che le risorse umane potessero inserirsi nel meccanismo economico dello sviluppo. Per far questo, non si doveva parlare solo d’industria e di braccia, ma sopratutto di formazione e di creazione di condizioni sociali e culturali che consentissero al lavoratore di esplicare le proprie capacità innate ed acquisite, in maniera tale che, anche attraverso il lavoro, egli stesso potesse essere artefice della propria ascesa umana e sociale. L’istruzione ed il collocamento assumevano così un ruolo fondamentale. Il lavoratore doveva essere posto in grado di conoscere quali prospettive gli erano fornite dal territorio nel quale viveva e da quello dove sarebbe potuto arrivare. Ma nel nostro paese, ad un’istruzione basata sulla rigidità, sulla mancanza di personale insegnante adeguato, su una selettività che favoriva chi era già avvantaggiato che portò «al congelamento di un sottosviluppo nato e cresciuto con l’indigenza» (14), doveva essere aggiunta anche l’inadeguatezza e, talvolta addirittura la mancanza della formazione extra-scolastica, di un’educazione permanente. Oltretutto, essendo la scuola e la formazione non predisposte per l’accoglienza degli adulti, questi continuavano a permanere in una condizione di totale decadenza professionale, in quanto per età si trovavano ad essere ormai impossibilitati a frequentare sia l’una che l’altra; entrambe quindi avevano solo una funzione limitata e scoordinata.

Prendiamo in considerazione il caso della Sardegna. L’isola vive un’emigrazione che inizia sin dal 1895, che si sviluppa in una regione che sicuramente non si è mai caratterizzata per l’eccesso di popolazione, con povertà e miseria come sue cause principali. Anche in questo caso, come d’altronde nel resto del meridione, «ricomprende generalmente soggetti giovani, in età lavorativa, con “potenzialità intellettive e produttive più spiccate rispetto al gruppo omogeneo di partenza» (15), caratteristiche che non si ritrovano più nella popolazione che rientra. Infatti, partono giovani con spiccate potenzialità produttive e rientrano, invece, persone più vecchie e “logorate dall’esperienza emigratoria”, situazione che va ulteriormente ad aggravare la già negativa condizione economico- sociale sarda. Ora, se effettivamente l’emigrazione doveva rappresentare secondo le politiche dei governi italiani una riscossa ed un futuro progresso per il meridione, la Sardegna dimostra perfettamente quali errori di programmazione siano stati fatti nel secondo dopoguerra. Assottigliamento della popolazione in età produttiva, depauperamento e invecchiamento di quella agricola, massiccia deruralizzazione, perdita dell’elemento femminile (in quanto questa emigrazione si caratterizza per l’alta percentuale di donne che emigrano sia come appartenenti al nucleo familiare, sia in autonomia), desertificazione del contesto rurale, cristallizzazione di situazioni patologiche, esasperazione dell’isolamento, sconvolgimento del disegno demografico ed ulteriore deterioramento del rapporto città-campagna. Un’emigrazione, quindi, particolarmente negativa, in quanto si inserisce in una struttura e dinamiche insediative di per sé carenti e alterate e, conseguenzialmente, inidonee al risanamento economico e sociale dell’isola (16). Situazioni patologiche della Sardegna sono così bloccate all’interno dei circoli viziosi che l’emigrazione ha contribuito a creare, soffocando ancora di più l’economia dell’Isola e alterando il tessuto demografico, socio-economico e culturale. Oltretutto era vana anche la speranza che gli emigrati al rientro potessero mettere a frutto l’esperienza acquisita all’estero, innanzitutto perché il livello d’istruzione degli emigrati sardi è sempre stato inferiore (nonostante dal sud e dalle isole emigrino individui mediamente più istruiti e più preparati rispetto ai gruppi omogenei di provenienza) a quello della popolazione di accoglimento, da cui derivava una riduzione dello spazio sociale e produttivo con una conseguente marginalizzazione; in secondo luogo perché il livello di professionalità era molto basso, infatti, il 60% degli emigrati sardi era in condizione di non professionalità, pertanto si trovavano maggiormente esposti alle fluttuazioni del mercato di lavoro, con guadagni modesti.

La scolarità degli emigrati sardi nel periodo 1958- 1976 era così strutturata:

– 50.99% licenza elementare, 19% licenza media inferiore, 9.79% laureati e diplomati,

e la struttura occupazionale:

– 4 % dal settore agricolo, 15% dal settore industriale, 22% da altre attività, 60 % in condizione non professionale; il 67% di lavoratori dipendenti e coadiuvanti ed il 25% di imprenditori, dirigenti e impiegati ed una piccola parte di lavoratori autonomi (17).

Di conseguenza con tali condizioni di partenza le posizioni che potevano andare a coprire non erano sicuramente tali da garantire loro l’acquisizione all’estero di alte professionalità o di grandi quantità di risparmi da poter poi investire al momento del rientro. In ogni caso però, raramente l’emigrato rientrato poteva utilizzare in patria la qualifica professionale, seppur bassa, raggiunta in emigrazione; troppo spesso l’esperienza emigratoria rimaneva solo una parentesi ed al rientro la scelta era quasi sempre tra l’inserirsi nell’attività abbandonata alla partenza, per lo più a bassa produttività, o un nuovo periodo migratorio. Il fenomeno di mobilità discendente dei rimpatriati è uno dei problemi più gravi della nostra emigrazione, in quanto conferma della stagnazione produttiva delle zone d’esodo, e del continuo depauperamento di energie subito da queste regioni, avendo ormai esaurito, quelli che tornano, il proprio ciclo produttivo. Tutto, o quasi, torna come era prima (18).

Se poi si prova a fare un calcolo del valore monetario del capitale umano uscito ad es. dalla Sardegna, utilizzando il metodo retrospettivo, calcolando le spese ed i redditi passati, e quello prospettivo, calcolando le spese e i redditi futuri, si rileva che tra il 1951 e il 1961 è stato esportato un capitale umano pari a 157 miliardi, 15.7 miliardi all’anno, e tra il 1961 e il 1971 a circa 2.368 miliardi all’anno, pertanto «dal 1951 al 1971 il capitale umano esportato è superiore di oltre 7 volte a quello che lo stato italiano ha messo a disposizione dell’Isola dal 1962 al 1971 per finanziare il cosiddetto Piano di rinascita economica e sociale della Sardegna» (19). Questo dato da solo potrebbe rappresentare, di fatto, quanto detto in precedenza riguardo all’utilità economica dell’emigrazione per regioni come la Sardegna.

Deve essere, inoltre, costantemente tenuto in considerazione che non si parla di mobilità del lavoro, che si potrà avere solo in una situazione di piena occupazione, ma di emigrazione determinata dallo stato di necessità, dal bisogno di risolvere il problema della sussistenza. Ne consegue che chi espatria lo fa per un lavoro che consenta il maggior guadagno nel minor tempo possibile anche a discapito di qualsiasi possibilità di promozione professionale che lo potrebbe costringere a fermarsi più a lungo. Questa mobilità esasperata e lo svilimento della professione portarono anche alla diffidenza dei datori di lavoro nei confronti del lavoratore italiano: mancanza di competitività e basso livello culturale e professionale non aiutarono di certo i nostri emigrati.

L’obiettivo doveva essere quello di riguadagnare la massa degli emigrati «…alla società, prima ancora che all’economia…», ma «…non essendoci mai stata in Italia una organica politica dell’istruzione, né una razionale gestione delle risorse umane, le occasioni di promozione cadono, poiché chi dovrebbe e vorrebbe usufruirne non possiede le basi culturali sufficienti» (20).

Un obiettivo quindi non certamente facile da raggiungere se si pensa che anche quelle forze nate per il sostegno e la promozione della classe operaia e della società in genere, come i sindacati, si sono caratterizzati per tutto il primo ventennio del XX sec., per lo scarso impegno, e per il non aver denunciato la piaga dell’emigrazione, arrivando persino a vederla per il sud come fonte di eliminazione del latifondo, di diffusione della piccola proprietà e dell’aumento dei salari; mentre solo nel secondo dopoguerra sono passati ad una posizione di denuncia delle cause dell’emigrazione, però molto limitata e con scarsa chiarezza sui provvedimenti da adottare, almeno, per limitare il fenomeno.

1.4 La nuova-vecchia risorsa delle rimesse degli emigranti

Dalla scuola economica e finanziaria facente capo al Nitti, derivarono due capisaldi che sarebbero poi divenuti fondamenti della direzione dello Stato: il primo era che l’Italia non sarebbe mai potuta essere una nazione agricola (le conseguenze le paghiamo ancora oggi), ed il secondo, l’utilizzo dell’emigrazione per livellare la bilancia economica e commerciale, anche e sopratutto attraverso le rimesse. Quindi i redditi percepiti o prodotti dai lavoratori emigrati e da questi non consumati o investiti nei paesi di accoglienza, ma inviati ai paesi di origine, rappresentavano una valida contropartita all’esportazione di forza-lavoro. Un contributo non trascurabile all’equilibrio della bilancia dei pagamenti con cui si riusciva a compensare, almeno in parte, al disavanzo della bilancia commerciale con l’estero; motivo in più per cui l’Italia aveva continuato ed incoraggiato la propria politica di esportazione della manodopera (21).

L’ invio di rimesse comportava nel breve periodo un miglioramento del tenore di vita per i membri della famiglia rimasta in patria, ma allo stesso tempo favoriva un processo inflativo (ad es. aumento del costo della proprietà, del materiale edilizio), e sopratutto incrementava il volume dei consumi, creando così nuova emigrazione per coloro che non avendo parenti emigrati non potevano sostenere nuovi aumenti o nuovi consumi. Beneficio o mistificazione? Qual’e il ruolo che si può effettivamente attribuire alle rimesse?

E’ importante precisare che le rimesse non derivano da un surplus che l’emigrato riceve all’estero rispetto agli operai locali, ma sono essenzialmente il frutto delle rinunce, dei sacrifici, e delle ore di straordinario che egli affronta giorno per giorno. Un quarto circa dello stipendio percepito viene pertanto inviato al paese di origine, dove riesce a soddisfare le necessità immediate della famiglia, utile per permettere il mantenimento e la riproduzione di ampi strati della popolazione rimasta in Italia, ma di piccolo apporto nei confronti del reddito nazionale (22). Il problema è che questa somma non è creatrice in patria di sviluppo dell’economia locale, non potendosi trasformare in capitale d’investimento, ed oltretutto, non trovando sul mercato locale i beni cui è destinata, ne promuove l’importazione, comportando un maggiore aumento dei prezzi nelle zone d’esodo rispetto al Nord Italia, con un aggravamento del processo inflazionistico che si ripercuote sopratutto sulle regioni del meridione.

Oltretutto non deve essere dimenticato che nei paesi dove arrivano le rimesse manca la forza lavoro, in quanto emigrata all’estero, ed inoltre la parte di popolazione rimasta non ha mai ricevuto una qualsiasi forma di preparazione e/o di assistenza tecnico- professionale in vista di un possibile investimento di quanto giungeva dall’estero verso forme diverse dal matrimonio o dalla casa. Difatti la metà delle rimesse è investita sopratutto in consumi correnti e nella casa (il 60 % degli impieghi), simbolo di quello che l’emigrato ha saputo costruire con il suo lavoro e di quello che lo lega al paese d’origine; ma le case restano vuote. Non si verifica una modificazione dell’ambiente socio-economico delle zone di emigrazione e neppure si innesca alcun processo di sviluppo locale in grado di ribaltare lo stato di stagnazione produttiva che ha spinto continuamente ad emigrare (23). In queste zone, solo il 10% dell’ammontare del totale delle rimesse viene investito in agricoltura, mentre gli investimenti in attività extra-agricole tendono sopratutto alla creazione di attività artigianali, commerciali e dei servizi, in una moltiplicazione di prestazioni poco remunerative e di frantumazione dei risparmi. Inoltre non solo gli investimenti produttivi in agricoltura si sono verificati per quelle famiglie ancora legate a questo settore, ma si riscontra anche un’accentuata polverizzazione della proprietà fondiaria: per cui il 60% di queste famiglie coltiva appezzamenti inferiori ad un ettaro (24).

Le rimesse hanno rappresentato una voce importante per l’economia italiana, rappresentavano nel 1974 circa il 6% delle entrate per partite correnti nella bilancia dei pagamenti e nel 1962 raggiunsero l’8%, in media poi negli anni ’60 hanno coperto circa la metà del disavanzo mercantile ed hanno rappresentato la seconda voce attiva delle « partite invisibili» che contribuiscono ad eliminare questo disavanzo (25). Per quanto riguarda la Sardegna, i dati dell’Ufficio Italiano dei Cambi ci dicono che nel 1972 vi giunsero il 2.2 % (percentuale che applicata ai dati della Banca d’Italia che riportano anche le rimesse effettuate tramite vaglia postale, è valutabile in 16 miliardi) del 40% del totale delle rimesse (oltre 311 milioni di lire), pervenuto in Italia. Una somma non indifferente di valuta, utilissima allo stato italiano, che però è frutto di un’emigrazione di necessità, del sacrificio degli emigrati, i quali avrebbero meritato, innanzitutto, un’efficace politica dell’occupazione all’interno del loro paese e, in secondo luogo, indicazioni ed incentivi per impiegare nella maniera più efficace questo denaro. Le rimesse non sarebbero state così importanti se fosse stata data l’opportunità a tutte queste braccia di restare in Italia, sottoponendo a coltura le tante terre abbandonate e rendendole produttive (linea sulla quale la Sardegna avrebbe potuto aumentare la propria superficie coltivabile e garantire al bracciantato agricolo una possibilità di sviluppo e ricchezza); si preferì invece ad un possibile aumento di produzione interna, un maggior arrivo di risparmi e la perdita di una consistente parte di giovane forza lavoro. Considerato trallaltro che solo in certe annate l’ammontare delle rimesse, o risparmi, degli emigrati ha coperto lo sbilancio dell’importazione di cereali e loro prodotti, e di animali e loro spoglie, principali e fondamentali risorse della terra, diventa ancora più incomprensibile il perché di tali scelte di politica economica (26).

Indubbio pareggio della bilancia dei pagamenti con l’estero, ma allo stesso tempo essa è aggravata nella sua parte passiva, dalle merci importate a causa dell’emigrazione e per il mancato contributo produttivo della nostra manodopera espatriata (27); le rimesse infatti non rappresentano neppure un quarto del disavanzo alimentare, basti pensare che mentre negli anni ’50 quest’ultimo era solo di qualche decina di miliardi, nel 1974 arrivava ai 2.500 miliardi. In sostanza si otteneva una sempre maggiore dipendenza dalle «risorse economiche esterne» e dagli interventi di natura governativa o statale.

E’ mancata una politica economica accompagnata da misure di assistenza per recuperare le risorse lavorative e le qualifiche degli emigrati, unitamente alla canalizzazione delle loro risorse finanziarie. L’emigrazione inoltre ha rappresentato il primo e più importante momento di rottura dell’isolamento e di apertura verso l’estero, ha dimostrato la volontà di smuoversi da una determinata condizione, ed ha anche generalizzato il meccanismo della modernizzazione, con l’attivazione di nuove e più differenziate aspirazioni, sia economiche che socio- culturali. Spinte propulsive e di modernizzazione che la società d’origine doveva coltivare e sviluppare, e non invece, com’è accaduto, consentire che la mancanza di trasformazioni strutturali nell’ambiente d’origine, tali da garantire prospettive adeguate ai nuovi modelli di convivenza, portasse ad un invecchiamento demografico, ad una diminuzione della forza lavoro attiva e ad una progressiva emarginazione degli emigrati (28).

Note:

(1) Max Frisch

(2) Del Mare A., cit. in La Redazione, Le cause del perdurante fenomeno dell’emigrazione, Studi Emigrazione N. 30, 1973, p. 194.

(3) Ufficio Studi del Centro di Orientamento Immigrati (COI) di Milano, cit. in La Redazione, op. cit.

(4) Marselli G. A., in La redazione, Le cause del perdurante fenomeno dell’emigrazione, op. cit.

(5) Prof. Otto d’Asburgo, cit. in Cinanni P., «Il Globo», 29.3.1967, in La Redazione, Le cause del perdurante fenomeno dell’emigrazione op. cit., p. 198.

(6) cit. in La Redazione, op. cit., p. 200.

(7) Martelletti M., cit. in La Redazione, op. cit., p. 204.

(8) Cinanni P., La scelta del governo italiano nel secondo dopoguerra, in IL PONTE numero speciale per il 1974, Nuova Italia editrice, Firenze,1975, p. 1348.

(9) Cinanni P., op. cit., p. 1352.

(10) De Gasperi, cit. in Cinanni P., op. cit., p. 1348.

(11) cfr. K. Marx, Lineamenti II, Firenze, La Nuova Italia, 1970, p. 271, cit. in Cinanni P., op. cit., p. 1354.

(12) cit. in La Redazione, op. cit., p. 209.

(13) Cassinis U., cit. in La Redazione, op. cit., p. 207.

(14) Ferrucci A., La via d’uscita è una politica interna della manodopera, Studi Emigrazione N. 27, 1972.

(15) Rudas N., L’emigrazione sarda-Caratteristiche strutturali e dinamiche, Studi Emigrazione N. 34, 1974, pag. 191.

(16)Rudas N., op. cit.

(17) Busonera E.,L’emigrazione sarda con particolare riferimento al trasferimento di capitale umano, Estratto dagli «Annali della Facoltà di Scienze Politiche» vol. 4 (prima serie), Cagliari, 1979.

(18) Ascoli U., Movimenti migratori in Italia, Il Mulino, Bologna, 1979.

(19) Busonera E., op. cit., p. 46.

(20) Ferrucci A., op. cit., p. 273/74.

(21)Rosoli G., Presentazione Inchiesta Formez sulle aree d’esodo del Mezzogiorno interno, Dossier Europa Emigrazione, n. 7-8, Luglio-Agosto 1977.

(22) Ascoli U., op. cit.

(23) Ascoli U., op. cit.

(24) Dossier Europa emigrazione, op. cit.

(25) Monticelli L. in, UCEI, Gli Esclusi, oltre 5 milioni di italiani all’estero, UCEI, Roma,1974, p.109.

(26) Del Piano L., Antologia storica della questione sarda, CEDAM, Padova, 1959.

(27) Cinanni P., op. cit, p. 1357.

(28) Dossier Europa emigrazione, op. cit.

Paolo Caccianiga, un artista innovatore

Nato in Italia sul finire del secolo XVIII, Paolo Caccianiga frequentò nei suoi anni giovanili i migliori maestri d’arte della città eterna. Formatosi artisticamente, condusse poi per cinque anni la cattedra di belle arti dell’università di Palermo. Intorno al 1826, oramai apprezzato sia in Italia che in Francia (dove probabilmente aveva vissuto), arrivò in Argentina, dove per un periodo di circa due anni insegnò disegno e pittura nel collegio dell’ateneo e in quello di San Miguel.

Nel 1828 le dimissioni di Joseph Guth per motivi di salute, costrinsero l'università di Buenos Aires a bandire un concorso per l’attribuzione della cattedra di disegno. A questo concorso parteciparono molti maestri che risiedevano in quel momento in città, tra i quali Juan Felipe Goulou, Juan Miguel Brunet, e l’italiano, che alla fine risultò vincitore.

Il 18 giugno del 1828 Paolo Caccianiga, che si titolava maestro di “arquitectura y dibujo”, veniva designato professore del corso di disegno dell’università. Dopo pochi mesi dall’assegnazione dell’incarico, l'italiano propose all’autorità dell’ateneo una modifica al piano di studi universitario riguardante l’insegnamento del disegno e della pittura. Al centro del nuovo piano di studi non vi era più lo studio del chiaroscuro o del disegno geometrico, ma vi era la rappresentazione della figura umana. Per lo studente era quindi necessaria una preparazione vincolata allo studio dell’opera dei grandi pittori del passato, che già avevano riprodotto il segreto delle proporzioni.

Caccianiga fece richiesta all’università per l’acquisto di disegni ed incisioni di Michelangelo, di Tiziano, di Carracci, di Raffaello, e di molti altri celebri pittori, “desde 1300 hasta la fecha, grabados en simples contornos” imprescindibili per “el estudio de la invenciòn: por lo preceptos del contraste de lìneas, por la expresiòn y movimiento de las pasiones, y finalmente, por cuanto es necesario para formar la encantadora ilusiòn de la pintura.”

La conoscenza della pittura dei grandi del passato non poteva però bastare per una completa formazione artistica dell'alunno, all’allievo serviva anche lo studio di nuove materie, quali l’anatomia, l’osteologia o la miologia. Lo studio di testi anatomici quali quello del Santomarchi e la riproduzione dal vero sui cadaveri, avrebbero permesso allo studente di: “llegar al conocimiento de todas las partes que componen el cuerpo humano y que puedan volverlas con facilidad, a fin de empezar a componer algùn cuadro o dibujo historiado.” A questo percorso formativo, che permetteva all’allievo di sperimentare finalmente “l’invenzione pittorica”, mancava soltanto la riproduzione dal vero e il nudo, corsi, che sarebbero stati impartiti per ultimi.

Per rendere il progetto più accettabile alle autorità accademiche, attratte più dallo studio geometrico che non dall'arte pittorica fine a se stessa, Caccianiga introdusse nel nuovo corso di studi anche la topografia e la geodesia.

Del suo piano di studio vaticinava: “De este modo podràn los alumnos formar un estilo que pueda algùn dìa llamarse estilo de la Academia de Buenos Aires, y entonces el Gobierno podrà cada año presentar temas alusivos a los hechos patriòticos, tan abundantes como heroicos, poniendo premios a las obras màs perfectas.”

Il rettore dell’università Valentìn Gòmez, a cui l’insegnante italiano sottopose il piano di studi, ridusse a solo tre articoli l’ambizioso progetto. Due di questi si occupavano proprio delle materie che il Caccianiga aveva inserito per compiacere gli amministratori. Il primo articolo obbligava il cattedratico a insegnare disegno topografico agli alunni che lo richiedevano, mentre il secondo obbligava gli studenti del primo anno di matematica, a partecipare alle lezioni di geometria descrittiva tenute dal docente di disegno.

La rivincita del Caccianiga avvenne però alcuni anni più tardi, quando passato il periodo rosista le accademie di disegno e pittura di tutta l’Argentina, utilizzarono molto spesso il piano di studi proposto dall’italiano, ritenendolo il più formativo e completo per l’insegnamento artistico.

Nei suoi corsi universitari Caccianiga introdusse anche altri generi pittorici come l’acquerello, la pittura ad olio e la miniatura .

Nel 1829 il corso di disegno dell’università fu sospeso. Riprese all’inizio dell’anno seguente.

La causa dell’interruzione fu alquanto bizzarra, e indica lo stato economico in cui versavano le casse dell’università porteña. La sospensione del corso fu determinata dall’aumento del costo delle candele da illuminazione. Il corso di disegno si teneva nel pomeriggio; dalle 17 alle 19 in estate e dalle 18 alle 20 in inverno. Ovviamente nel periodo invernale si doveva fare largo uso delle candele per illuminare l’aula, fu quindi in ragione del: “….el extraordinario valor que han tomado las velas que es necesario prender cada noche en nùmero de màs de setenta…….” , che fu presa la decisione.

Fino al 1835 l’insegnamento del Caccianiga continuò normalmente. In un inventario del materiale artistico della scuola, compiuto nel 1835, si trovano elencati: modelli in gesso, di busti, di mani, di teste, di piedi, disegni anatomici ed altro. Dalla lettura di questo elenco sembra che Caccianiga avesse comunque cercato di portare a compimento il progetto precedentemente bocciato.

Ma con il 1835 e l’ascesa al potere di Manuel Rosas, per l'università di Buenos Aires i tempi si fecero difficili. Il periodo rosista non rappresentò per l’arte Argentina un buon momento. Il corso di disegno fu chiuso e riprese i suoi corsi solo dopo la caduta del dittatore. Del periodo successivo alla chiusura dell’università sappiamo pochissimo del Caccianiga, la sua figura esce dalle cronache del tempo e il suo nome scompare da ogni fonte consultata. Della sua opera pittorica si conserva oggi un solo lavoro; si tratta di una litografia esposta nel museo Brigadier General Juan Martìn de Pueyrredon di San Isidro nella provincia di Buenos Aires, che ha come soggetto l’assassinio del generale Quiroga, ucciso dai sicari di Rosas nel 1835.

Probabilmente Paolo Caccianiga rimase a Buenos Aires almeno fino all’anno successivo all’evento . Un’ultima notizia, riportata nel dizionario degli italo-argentini ci informa che Paolo Caccianiga inventò, durante la sua residenza nella capitale argentina, una macchina per il pompaggio e per la distribuzione nei vari quartieri della città, dell’acqua prelevata dal Rìo della Plata . Non sappiamo se l’invenzione fu poi realizzata, ma anche questa notizia non fa che confermare l’estrema poliedricità degli uomini del tempo, capaci di dipingere, insegnare e anche inventare.

L’importanza della figura di Paolo Caccianiga è ricordata in Argentina più per il suo l’insegnamento artistico che per la sua carriera artistica o per le sue invenzioni. Sotto la sua direzione si formarono infatti quattro tra i primi pittori della repubblica Argentina: Garcìa del Molino, Carlos Morel, Ignacio Baz e Antonio Somellera.

Da “L’emigrazione di artisti e artigiani italiani nelle Repubbliche del Plata”

di Gabriele Cappelli

www.lombardinelmondo.org

La Cultura Italiana in Brasile di Sergio Garcia

Gli Stati brasiliani del Paraná, Santa Catrina, San Paolo, Espirito Santo, Minas Gerais, e principalmente Rio Grande do Sul, promuovono tutti gli anni le loro attrattive turistiche, toccando nei tours tutte le località che hanno avuto una notevole influenza italiana

A Rio Grande do Sul, si trovano Caxias do Sul, Garibaldi, Carlos Barbosa, Farroupilha, Antonio Prado, Sao Marcos, Vacaria, Flores de Cunha, Nova Prata, Veranópolis e Sao Leopoldo. Sono tutte cittá dove è predominate la colonizzazione italiana e costituiscono il fulcro dei programmi turistici della regione “La rotta del vino e dell´uva”. l discendenti di italiani hanno saputo sonservare vive le loro tradizioni e sanno ricevere i visitatori a braccia aperte come ospiti graditi, redendo piú incantevole la regione che possiede paesaggi paradisiaci!

Gli italiani iniziarono la loro emigrazione in Brasile in quantitá considerevole nel 1875. Arrivarono a Rio Grande do Sul e dopo qualche anno anche San Paolo cominció a ricevere gruppi di emigranti che si occuparono elle aziende di caffé, consolidando colonie di impiegati salariati. Altri si fermarono nella capitale e contribuirono decisamente con la culturizzazione e l'industrializzazione del paese.

Ancora prima che San Paolo iniziase i programmi di reclutamento di mano d´opera, gli immigranti colonizzarono diverse regioni del Brasile. In quegli anni a San Paolo ci si preoccupó di assumere operai italiani al fine di sostituire gli schiavi che ormai liberi lasciavano le aziende. È cosí che l'emigrazione aumenta velocemente e nel 1888 il livello dei coloni italiani raggiunge la cifra di 104,353.000. Dal 1889 al 1890, la cifra aumentò fino a 132,325.000 segnando il culmine. Negli anni seguenti a partire dal 1894, il flusso diminuisce a 34.972.000 e compie un nuovo incremento nel 1897 con 104,510.000 unità.

Un'ordinanza del governo italiano del 1902, limita l'emigrazione di nuovi coloni verso il Brasile, passando a 20000 persone all'anno, il flusso di emigrati riprende consistenza negli anni 1911 (22914), 1912 (31785) e 1913 (30,886).

La piú rappresentativa cittá di origine italiana in Brasile, é senza dubbio Caxia do Sul, dove i primi coloni italiani, uomini e donne, trasformarono con sangue e sudore la terra inospitale e vergine di quel tempi, quella che oggi é una prospera metropoli ricca e produttiva, al punto di farla diventare la cittá con maggior indice di sviluppo economico.

In questa cittá italiani e discendenti hanno saputo preservare le tradizioni culturali della patria lontana, senza mai ammainare l´amore ed il rispetto per la Bandiera tricolore.

A Caxias esiste la Chiesa di San Pellegrino dove fa bella mostra di sé una replica della famosa “Pietá” di Michelangelo, donata da Papa Paolo VI nell´anno in si è commemorato il primo centenario dell´immigrazione.

La casa di Pietra, la Festa dell´uva, il Monumento al Immigrati, i paesaggi, la buona cucina e l´ottimo vino, sono solo alcune delle attrazioni che le agenzie di Turismo di Rio Grande do Sul, promuove a favore di Caxia do Sul.

A Curitiba, la piú ordinata e pulita citta del Brasile, si trova il quartiere di Santa Felicidade dove la cultura italiana fa parte della vita cuotidiana della popolazione. Questo quartiere costruito con architettura italiana è abitado dagli italiani e conserva ottimi valori artistici. Chi visita il Paraná, e la sua Capitale Curitiba, non puó tralascire di visitare anche Santa Felicidade, dove si possono incontrare molte gradite sorpresa. In questa cittá la Associazione Dante Alighieri realizza una proficua attivitá culturale, sotto la brillante direzione di Gianfranco Bertoni, del quale possiamo dire che é un ottimo Ambasciatore di italianitá in quell´immenso Paese sudamericano.

Fonte:www.peruan-ita.org/2004/brasile.htm

Carlos Gardel, ogni giorno canta meglioA lungo il testo racconta come Gardel, francese di Toulouse ed argentino per adozione, all’inizio della sua carriera s’ispirò alle canzonette napoletane di Piedrigotta, portate nel Rio de la Plata dagli emigrati italiani che si installarono nel Quartiere di La Boca.

Anche il suo primo maestro di canto e musica fu un napoletano, Moschetti e le sue canzoni più famose (Volver, Mi Buenos Aires Querido, ecc.) sono canzoni fatte più da un emigrato che da un residente argentino. Anzi, pare che il Moretto dell’Abasto si sentiva meg

Lascia un commento

My Agile Privacy
Questo sito utilizza cookie tecnici e di profilazione. Cliccando su accetta si autorizzano tutti i cookie di profilazione. Cliccando su rifiuta o la X si rifiutano tutti i cookie di profilazione. Cliccando su personalizza è possibile selezionare quali cookie di profilazione attivare.
Attenzione: alcune funzionalità di questa pagina potrebbero essere bloccate a seguito delle tue scelte privacy