Procediamo sul tracciato della liberaldemocrazia

di Antonio Suraci

Opportunamente, il Segretario Nazionale del Pri, Francesco Nucara, ha posto di recente una domanda: “Che fare”? Una questione che può sembrare retorica o difensiva o provocatoria, se non, addirittura, inutile. Ebbene, rappresenta invece il punto di partenza per comprendere cosa siamo e cosa aspiriamo ad essere, pur non nascondendo il dato economico interno che può impedirci di rispondere con la serenità richiesta. E' bene, comunque, non confondere la necessità con la virtù e tentare, comunque, una risposta. Cosa siamo? Poco più di una piccola pattuglia in una mischia di area avversaria che non riesce a passarsi la palla nel tentativo individualistico di portarla personalmente in rete. Qual è l'area avversaria? Qui le teorie possono essere diverse: sinistra, centro, centro-destra, centro-sinistra. In realtà ve ne è una sola: la grave situazione determinata dall'incapacità dirigenziale sia della destra che della sinistra. Questo può sembrare un assunto dettato dalla pura presunzione o dalla scarsa conoscenza dei fatti. Restando, appunto, ai fatti non è possibile non rilevare un pericoloso arretramento della società civile, del sistema economico e politico. Depurando questo dato dal contesto internazionale non è difficile constatare come siamo proiettati verso un minimo europeo. Sgombriamo subito il campo dai sospetti: non è colpa di Berlusconi, né di Romano Prodi. La responsabilità d'insieme è da rintracciarsi in un sistema dentro il quale ha potuto germogliare e radicarsi ciò che è nato dall'operazione Mani pulite: la gramigna della prima ed unica Repubblica. La svolta necessaria non potrà mai avvenire senza una ferma opposizione culturale alla semplice trasformazione dell'esistente. In questo quadro i Poli, frutto di alchimie parlamentari, più simili a condomini che a case comuni, non rappresentano quelle novità funzionali alla costruzione di un modello alternativo, bensì rappresentano la continuità di un sistema che ha dimostrato una ‘linearità' fallimentare nell'autoriformarsi. Pur evidente tale assunto, c'è chi ancora aspira ad entrare a far parte delle diversità di destra o di sinistra. Ha un senso? A parer mio, no. Non si è di destra o di sinistra solo identificandosi o, peggio, annullandosi in uno dei due schieramenti. Al contrario di Sciascia che riteneva che la verità non è sempre rivoluzionaria, in questo caso lo è. E la verità è che mischiandosi nell'una o nell'altra parte, dando per scontata la nostra prossima fine, veniamo meno al ruolo che la storia, da oltre un secolo, ha affidato a noi repubblicani. E quale è questo ruolo? Non certamente quello di partecipare alla creazione di barriere politiche elettorali o sociali, bensì quello di favorire lo sviluppo di una democrazia in cui l'individuo possa liberamente partecipare per migliorarsi e per contribuire alla soluzione dei problemi che inevitabilmente l'evolversi della storia pone a tutti. Non è nostro costume, o non dovrebbe esserlo, chiamare a raccolta i cittadini all'interno di gabbie in cui viene offerta l'impressione che solo in queste sia possibile la salvezza. Una visione che poco si discosta dall'ideologismo salvifico che sempre, in quanto repubblicani, abbiamo rifiutato. Cosa sono le leggi elettorali, gli accordi tra gruppi, tra inqualificabili lobby, lo spingere tutti a far parte di questo o quello schieramento, se non gabbie in cui i più deboli dovranno soccombere per poter ancora respirare? E chi ambisce a far parte di queste gabbie è certo di non andare ad ingrossare le fila dei più deboli? Chi può ancora illudersi che, sebbene si rappresenti l'unica e ancora riconoscibile scuola democratica, potremo svolgere il ruolo che generazioni di repubblicani, quasi sempre in minoranza, hanno saputo rappresentare? Il problema non è dove andare: se fosse così semplice noi tutti saremmo già andati dove altri ci hanno anticipato. E' il riscontro della solitudine di questi amici che porta qualche altro amico a sostenere l'importanza di una transumanza collettiva in una di queste gabbie, al fine di evitare la sorte di chi lo ha preceduto. Ovvero di evitare di correre il pericolo di contare poco più del due di coppe quando regna bastoni! La casa non si sposta. I repubblicani non emigrano. I repubblicani devono sapere, come Ulisse, legarsi al palo della nave e non soccombere al richiamo delle moderne, quanto temporanee, sirene. I repubblicani, nell'interesse del popolo a cui la nostra esistenza è sempre stata legata, devono, oggi, rispondere alla semplice domanda: che fare? La premessa a questa risposta potrebbe apparire retorica, ma non lo è: non si è di destra o di sinistra per investitura divina o per appartenenza. Oggi, liberi dai condizionamenti patiti durante il XX secolo, o si è dalla parte della democrazia o non lo si è. E nell'attuale panorama dei Poli mi è difficile distinguere chi abbia a cuore la democrazia a cui noi aspiriamo. Non possiamo, caduto il muro delle ideologie di appartenenza, autodefinirci diversamente da ciò che rappresentiamo. I principi a cui ci ispiriamo, l'interesse verso l'intera collettività che mai smettiamo di provare, la giustizia verso cui vogliamo che l'Italia si involi, il ruolo di una Nazione, stimabile e dignitoso, in cui riconoscersi, il bene delle future generazioni, la saggezza di una classe politica dedita all'interesse comune, il non venir meno, per interesse o compromesso, ai valori di base che qualificano la storia dei repubblicani, ecco tutto ciò, ed altro, un giorno, dopo aver dato con convinzione corso alla nostra idea di politica, altri potranno, se vorranno, considerare l'azione politica repubblicana di destra o di sinistra. In queste ore, in cui ci dedichiamo con passione a questi temi per noi vitali, non mi considero né di destra né di sinistra, ma altro. Un democratico che cerca, insieme ai propri amici, di ridare un senso alla vita di milioni di cittadini, condannati alla rivolta quotidiana, limitata e limitante, non avendo più fiducia nemmeno nella possibilità di una rivoluzione pacifica e moralmente rigeneratrice. Né l'attuale crisi economica deve portarci a semplici conclusioni e sbandamenti. In un Paese senza idee e senza progetti le crisi economiche non avranno mai soluzione, solo temporanei assestamenti che altro non producono se non un sistematico impoverimento dell'insieme. Non credo che gli attuali Poli, nonostante in molti tentino per via parlamentare la loro stabilizzazione, avranno un futuro. Ma se anche lo avessero, non saranno mai gli artefici di un rinnovato pensiero democratico: resteranno i figli di una Repubblica che non ha saputo credere in se stessa, esempi da ‘basso impero' e non figli di una capacità progettuale rinnovatrice e innovatrice. Occorre cambiare modello e non dobbiamo sottrarci a questa sfida. Dobbiamo restare, pur temporaneamente, in alleanze da valutare, liberi di proporre, di progettare, di essere parte di un dibattito che dovrà, federalismo puro o meno, vederci partecipi nell'interesse e per la difesa dei cittadini e di quegli alti valori che abbiamo ereditato ed in cui fermamente dovremmo tornare a credere. In un condominio non si è mai liberi: chi ha più millesimi deciderà sempre anche il colore dei muri. Che fare? Tornare nella società, ritrovare il senso della nostra azione politica e organizzare il consenso su proposte concrete. Lavorare. La politica dei repubblicani è sempre stata caratterizzata da uno spirito volontaristico che con passione è stato esaltato anche nei momenti più crudeli della storia. Occorre tornare a quello che eravamo. Non sono i circoli, i club della pipa, o altro a dare senso all'esistenza di un partito. Il senso è dato dalla capacità di capire i problemi della gente e offrire soluzioni credibili, non temporanee ma progettuali. Organizzarsi e, nell'organizzarsi, scegliere la dirigenza che meglio risponde a queste esigenze. Dividersi sarebbe l'ultimo imperdonabile errore che i repubblicani consegnerebbero alla storia politica del Paese. Un Paese che da sempre contribuiscono a far sopravvivere e che oggi, più di ieri, ha bisogno di una forza politica di eccellenza e non di mediocrità déja vu. Dall'esempio americano dobbiamo trarre insegnamento per smascherare quanti ritengono che solo rifugiandosi in strette gabbie sia possibile far sopravvivere il partito. Obama, i democratici, non avrebbero mai vinto, pur forti di un sostegno lobbistico di cui noi siamo orfani, se non avessero per quasi due anni percorso e ripercorso le strade dall'Atlantico al Pacifico, se non avessero, paese dopo paese, ripreso in mano il filo della speranza direttamente in mezzo alla gente. Coinvolgere la società significa avere idee, trasmettere sicurezza, avere passione: significa avere uomini che sappiano andare oltre il fascino che suscitano i media, soprattutto quando la stessa Europa invita i Governi, e non solo, ad insegnare ai propri cittadini la lettura dei messaggi mediatici per realizzare una democrazia più attenta e compiuta. Che fare? Innanzitutto chiamare tutti i dirigenti a semplificare le proprie ambizioni per dedicarsi alla rinascita di un partito che non intende abdicare e passare l'Edera in mani che nulla hanno a che spartire con la nostra storia e la nostra cultura. Se necessario scommettere su un rinnovamento generazionale, con la maturità di saperne creare le condizioni e non condannandolo, preventivamente, alla solitudine. Tralascio volutamente l'argomento della fondazione, non avendo in questo momento altra idea che far vivere il partito a cui appartengo, ma anche perché se dovessi partecipare ad una fondazione parteciperei a quella in grado di infondermi un sentimento di vita e non di morte. Abbiamo dato vita ad una riflessione seria sulla liberal-democrazia. Cerchiamo, dunque, di continuare su questa strada andando a recuperare tra quel 22/30% di elettori che evita accuratamente la politica (a cui vanno aggiunti i tanti cittadini che, pur avendo votato, si sono già candidati all'astensionismo futuro), quella minima percentuale utile per continuare a sperare di cambiare questo sistema basato esclusivamente su interessi particolari e dedito al totale disinteresse di chi soffre. Se il futuro è delle nuove generazioni è nostro dovere consegnare loro uno strumento politico attraverso il quale dar vita a quell'opposizione culturale oggi ineludibile per far rivivere, nelle coscienze di tutti, quei valori democratici per i quali con tanta passione i ‘nostri giovani’ di allora si sono sacrificati. (Laici.it)

(articolo tratto dal quotidiano 'La voce repubblicana' del 22 novembre 2008)

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