LA CLINICA DEL VUOTO

I nuovi sintomi dall’anoressia alle psicosi.

Incontro presso la CASA DELLA CULTURA maggio 2004. Relatori: Eugenio Gaburri, Pamela Pace, Marco Sarno, Umberto Zaccardi Merli, Massimo Recalcati. Presentazione del libro La clinica del vuoto di Massimo Recalcati

La ricchezza del libro La clinica del vuoto consta nel fatto che non si confonde l’anoressia come una nuova struttura patologica, ma come un funzionamento psichico compensativo, supplente e difensivo. Questo fatto consente di costruire un discorso che si allarga a cogliere alcuni aspetti, non solo della sindrome anoressica, tossicomane e psicotica, ma dell’attuale stato di disagio della civiltà o meglio, dell’umanità. Il primo aspetto di tale allargamento di senso si intuisce proprio nella distinzione fra “mancanza” e “vuoto”, dove per mancanza si intende esperienza, ossia un luogo mentale simbolizzato e significato nella relazione con l’altro, pertanto, in quanto tale, animato dal desiderio. Mentre si descrive il vuoto come un solido ipostatizzato, dissociato dal desiderio dell’altro, il vuoto non porta ad una frattura del soggetto, ma ad una dispersione. Il testo conduce ai confini di ciò che è rappresentabile dalla mente, verso quelle dimensioni interne che hanno difficoltà a trattare un reale che non è mai integralmente simbolizzabile, difficoltà che per Jacques Lacan è il cuore della psicosi. L’antiamore dell’anoressia e delle altre forme ad essa associate quali bulimia, tossicodipendenze e psicosi, è assenza radicale di competenza transferale e dunque di capacità di associare e fare connessioni, di tollerare lo scarto, elementi che sono gli attrezzi della conoscenza e lo sfondo metodologico della terapia psicanalitica.
Al centro di tali meccanismi e funzionamenti psichici sussiste il narcisismo ferito, uno stato di depressione e melanconia dovuto all’azione dell’altro sul soggetto che è rifiutato, respinto, lasciato cadere. La difficoltà fondamentale nella costituzione narcisistica dell’immagine corporea del soggetto e del sé mentale, rende questi pazienti particolarmente esposti al rapimento del desiderio, un rapimento che è un larvale ritorno alla fusione e, in quanto tale, si intreccia con l’aspirazione alla morte. Questi funzionamenti psichici sono un tentativo di far fronte alla mancanza di funzioni separanti. Come se anoressia e bulimia siano un modo di sbarrare l’altro, ridurne l’invadente presenza e la domanda asfissiante.
L’esigenza di separatezza di cui ognuno di noi ha bisogno per esercitare il sentimento dell’esistere passa attraverso la negazione: il “non mangio”. Il soggetto anoressico è soverchiato dall’altro, invitato in un assorbimento reciproco, vischioso e incollante dal quale il sintomo cerca di distrarlo, ad un’identificazione non edipizzata o non ancora edipizzata o impossibile da edipizzare. In questi moti primitivi di identificazione sono fondamentali le qualità emotive e le risposte dell’oggetto al bambino, ossia la capacità di tollerare che il bambini dica “no”, forse è anche naturale, ma le stratificazioni culturali sono tali che ostacolano. Il soggetto che ha bisogno di creare una separatezza artificiale attraverso il “no”, “non mangio” dell’anoressia o attraverso l’impossibilità paradossale di dire no sostenuta dalla pressione cannibalica della pulsione ferita dei bulimici, viene in terapia apparentemente per non guarire. Si introduce la necessità di svuotare l’identificazione, l’enfasi del medesimo, di creare e costituire la sostanza dell’altro con la soggettività inclusa nell’altro. Occorre estrarre il soggetto dalla falsa omogeneità universale, dall’amalgama del gruppo, e reinserirlo nella temporalità che porta differenza e lo riporta alla propria particolare storia interiore e in questo modo fondare la singolarità, uscendo dall’anonimato. Un nesso forte collega questa operazione con la realtà psichica, ossia con una dimensione preconscia che si pone fra il mondo inferiore, oggetto di esplorazione nel lavoro psicanalitico, e che è la propria soggettività ed il mondo esterno, cioè la realtà condivisa. La dimensione psichica che mantiene lo scarto tra inconscio e coscienza, impone a ciascuno un lavoro psichico. Vi è un nesso tra questa istanza di pulsazione tra individuo e sociale che si ritrova specificamente in questo tipo di paziente. Per curare la nostra frenesia anoressico/efficientistica che connota il mondo moderno in questo momento avremmo bisogno di compiere qualche elaborazione del lutto, inteso non tanto come lavoro della colpa, ma che ci riporti al sentimento di quella mancanza che in definitiva permette di dare spazio all’altro, all’interlocutore in qualsiasi fase libidica, psichica della vita dall’infanzia alla vecchiaia. Questa elaborazione del lutto può restituire il piacere di vivere che, a partire da una particolare sessualità non degradata, arriva allo sviluppo del piacere di curare i nostri figli, di amare i nostri compagni di viaggio, di cercare di conoscere aprendo uno spazio tra noi e l’altro, non intasato da pseudo verità, né omologato al vuoto che è il suo contraltare, lo spazio della mancanza, senza cui si innesca la deriva dell’abisso, del baratro, del vuoto, che si giustifica persecutoriamente con l’esperienza del rapimento di un’estasi senza Dio e cerca di realizzarsi attraverso una strana e orrenda equazione tra la bocca e le ossa, come sostegno metaforico del discorso, che però si sfaldano, diventando l’unico contenitore, l’ultima pelle di una realtà che rinnega le proprie basi consensuali per trasformarsi in una verità/bugia assolutizzata. Quante volte saturando il discorso introducendoci nell’altro ci esponiamo al rischio di produrre nel troppo pieno quella solidificazione di un determinato vuoto psicotico. Il filo rosso che annoda tali patologie è un difetto narcisistico del soggetto, una debolezza d’essere che si rivela nel giudizio che l’individuo attribuisce alla propria esperienza dell’esistere: una vacuità, una difficoltà a reperire il proprio desiderio, un sentimento di fragilità ontologica.
Ci si interroga sul perché la forma del sintomo ha preso la via del vuoto, al posto del sintomo della mancanza. La risposta conferma l’idea che anche Freud ha della mente., ossia il mentale è determinato dal sociale: tra il sintomo classico e il male della modernità avanzata sussiste una differenza netta nell’enunciazione del comando fondamentale che guida il sociale.
Ai tempi di Freud il sintomo vedeva una particolarità soggettiva alle prese con la forza della pulsione, una energia definita da Freud forza costante non regolata con le leggi della civiltà. Il sintomo che Freud aveva presente era una tensione tra l’elemento irriducibile della pulsione e la regola della civiltà che le imponeva un sacrificio. Per essere cittadini del mondo, per appartenere alla civiltà, il soggetto doveva sacrificare qualcosa del suo godimento, ricevendo dall’altro un’insegna che lo collocasse nel discorso sociale. L’isteria era il classico caso di Freud. La forma del sintomo classico è il particolare soggettivo che si oppone all’universale della regola. I nuovi sintomi presentano nuove forme nelle psicosi, nelle anoressie, in depressioni e dipendenze, con caratteristiche epidemiche che si configurano come insiemi in cui il soggetto si riconosce come appartenente all’insegna del sintomo. L’insegna sociale del sintomo è ciò in cui oltre a questa identificazione comunitaria, un modo di godere. Qual è la forma del godimento nei nuovi sintomi? Non è la forma dell’opposizione sovversiva alla regola paterna, ossia non è una dialettica del desiderio, di opposizione con l’altro, ma profondamente annodata all’altro. Non è la dialettica del rifiuto isterico della legge paterna e del recupero isterico del godimento, della somatizzazzione, ma è un’adesione ad una forma di godimento che esclude l’altro. I nuovi sintomi presentano una prospettiva antivitale contraria al desiderio dove non c'è il gioco del soggetto con l'altro, ma un'opposizione radicale all’altro. Questa scissione radicale produce il fenomeno della vuotezza come stato fondamentale della percezione di sé. La debolezza d’essere può risultare accordata al viraggio dei sintomi che emerge da un sentimento oceanico rispettoso delle differenze. Questo perché nella società contemporanea al posto dell’ideale dell’IO, che ai tempi di Freud era quella funzione determinata dal meccanismo edipico che permetteva al soggetto di recuperare qualcosa del suo godimento, l’ideale paterno, gli ideali, permettevano al soggetto di iscriversi nel mondo ed avere una causa conduttrice del desiderio.
Attualmente si assiste ad uno smontaggio ed un matema, una formula stigmatizzate dalla postmodernità che prevede, al posto dell’ideale, l’oggetto del godimento: è la vittoria finale del meccanismo capitalista, in cui l’oggetto colma e chiede la mancanza. Il capitalismo avanzato è la vittoria sulla mancanza. L’oggetto di consumo, nella sua diffusione endemica ed epidemica, ha prodotto questa disarticolazione del vuoto dalla mancanza.
Il vuoto è una mancanza, ma è simbolizzata. Gli esiti ultimi del discorso sociale fanno del vuoto un puro vuoto, per raggiungere un ideale di indipendenza assoluta dalla carne, dal desiderio, dall’amore. Questo va a coincidere con il narcisismo originario che vede l’odio prevalere sull’amore e ama e odia il soggetto in un flusso unitario per la riduzione dell’altro all’uno. L’individuo, non diviso, è tipico della patologia contemporanea.

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