IL MITO DELLA GLORIA

L’umanesimo e il senso della morte

Gli umanisti sono spinti allo studio delle lettere per l’ambizione di distinguersi ed elevarsi oltre il tempo e lo spazio. Riavvicinandosi al patrimonio dei classici e utilizzando il loro linguaggio, gli umanisti divengono partecipi, di riflesso, del loro lustro e del loro prestigio. Per gli umanisti la sete del bello stile era una dimensione in cui tendeva a realizzarsi ed a completarsi un profondo rinnovamento della società. La distinzione tra letterati ed illetterati, sapienti ed ignoranti, riuscì a venire a patti con i postulati dell’uguale valore di ogni anima e del comune diritto alla salvezza. Gli umanisti operarono certamente una rivoluzione, se si attribuisce a questo termine il senso di rivolgimento, pur non essendo rivoluzionari perché non vollero distruggere quasi nulla. Alla base dell’umanesimo vi è una spinta verso l’alto, che si traduce idealmente nella volontà di ottenere la gloria, ossia la fama presso i posteri. Verso la metà del secolo XIV, in Italia, appaiono i primi monumenti principeschi, che invece di dare pace al defunto, lo innalzano al di sopra di quello che ha lasciato, come se avesse raggiunto una piattaforma ideale e superiore, dove egli vive ancora. La gloria desiderata non era celeste, ma terrena e ben lo sentivano gli umanisti che, suggestionati dall’intatta sopravvivenza di tante opere antiche, proclamarono le lettere uniche vere dispensatrici di gloria, di fama eterna. Erasmo da Rotterdam arriverà a dire, scrivendo al futuro Enrico VIII d’Inghilterra, che i principi possono meritare l’immortalità: se non avranno però dei poeti che li sappiano cantare, non la conseguiranno. Il mito umanistico della gloria eterna presso i posteri rispuntò sotto la cupola di una concezione rigidamente trascendente. Le opere dei classici, una volta introdotte nella vita culturale, produssero un autentico conflitto interiore. Ora il disagio degli spiriti nasce appunto quando non riescono a dominare un conflitto ideale, quando nessuna forza interiore esercita un’attrazione sufficiente per sottrarre gli animi alla zona di incertezza e di angoscia in cui si trovano.
L’Umanesimo non apparve come avversario della visione cristiana. La ragione doveva essere illuminata dalla fede, ma derivavano entrambe da un’unica sorgente. Eppure il conflitto e l’irriducibilità sussistevano e, tranne i conciliatori ostinati, tutti li sentivano. Quello che impedì agli uni e agli altri di scoprire la radice nascosta del disagio, del conflitto, del dissidio interiore lacerante, fu la fede nella sopravvivenza e il desiderio dell’immortalità, tramite le opere letterarie, tramite l’impegno culturale e l’arte del bello, dello stile..
Su questo punto i classici non contraddicevano affatto i cristiani. Anche per loro l’anima soltanto si poteva salvare e vivere in perpetuo in un altro mondo, rendendosi immortale ed eterna. Per Cicerone e per Gesù Cristo la vita era una peregrinazione temporanea, per cui la morte consisteva in una separazione dal corpo e nulla più. L’accordo su questo punto avrebbe dovuto permettere un’armoniosa soluzione di tutti gli altri problemi. In realtà il Cristianesimo si era nutrito e consustanziato di elementi né biblici né evangelici, ma platonici o neoplatonici, ed anche più semplicemente classici. L’antichità risorgeva progressivamente nella sua interezza e consisteva certamente più in una scoperta dello spirito, della propria anima emotiva, piuttosto che un ritrovamento materiale di testi.
L’amicizia, la morte, il valore, la virtù, la gloria e le bellezze della natura non rappresentavano soggetti che attirassero meno dello splendore dello stile in cui si trovavano illustrati. Spesso, prima ancora del valore trascendente della gloria,
l’uomo colto del XIV secolo attribuiva importanza ai suoi risvolti mondani; avrebbe voluto ardentemente gustare la gloria in questa terra e prima di abbandonare la vita. Secondo Petrarca, la gloria non bisognava pretenderla nella vita attuale e terrena, ma indiscutibilmente dopo la morte. La gloria deve essere attribuita solo da giudici imparziali, che non siano spinti all’invidia o all’odio da nessun motivo, affinchè essa sia pura, genuina e sincera.
La vera gloria è quella che partoriscono la purezza dei costumi, la fede vivificata delle opere letterarie, l’amore di Dio e del prossimo. La gloria fasulla è esposta ad ogni sorta di limitazioni di tempo e di luogo ed è tale che non appaga nemmeno chi la brama. Francesco Petrarca e Coluccio Salutati appartengono, come umanisti, alla medesima generazione. I loro diversi atteggiamenti rispetto al culto della gloria costituiscono i due aspetti di una stessa realtà: da un lato la crisi ed il conflitto sinceramente dichiarati, dall’altro la conciliazione e riconciliazione fallite. Ma in ambedue i casi la sofferenza per un dissidio insormontabile risorge incessante, è sempre presente. Il conflitto che sorge dall’essere letterati, dall’amare le lettere e la cultura, sfocia verso l’apertura della mente alla ricerca incessante e al pensiero meditativo e all’arte della contemplazione e, inesorabilmente, ne deriva l’esigenza del ripiegamento intimistico su se stessi e spesso la solitudine: gli umanisti in mezzo ai loro negotia, aspirarono agli otia dello scrivere, del meditare, del pensare, della contemplatio.
Fino alla generazione del Petrarca e del Salutati, gli intellettuali avevano affermato che, se gli uomini in generale, si elevano al di sopra degli animali, grazie dalla mente infusa loro da Dio, quelli che coltivano le lettere emergono su tutti gli altri in maniera analoga. Tale carattere aristocratico dell’Umanesimo, in generale, contrastato da tendenze opposte, prese anche la veste del culto della gloria a cui si sacrificò secondo criteri di conformismo sociale.

Il senso della morte e la speranza nella gloria

Mentre il mito della gloria si impone come rinnovato ideale di sopravvivenza, il senso della morte subisce un’alterazione profonda e decisiva. I problemi della gloria e della morte sono complementari. Anche nel senso della morte si trovò riflesso il nuovo amore alla vita. Mentre la gloria classica era qualcosa di sostanzialmente estraneo alla visione cristiana, si resta colpiti dall’identità di impostazione della morte presso Enrico Suso e Francesco Petrarca. Verso il 1350 erano già quasi due secoli che il motivo della decomposizione fisica era penetrato nella sensibilità religiosa. Il pensiero della propria fine non doveva far meditare l'uomo sulla sua origine e sul proprio destino, rinviandolo da un lato a Dio e dall'altro al cielo? Agostino, nel Secretum del Petrarca, non sa consigliare al suo dotto discepolo migliore rimedio per ritornare sulla strada della salvezza che una meditazione assidua e realistica dell’agonia. E il Petrarca si mostrava oltremodo docile facendo del suo meglio per descrivere le sue sensazioni, il suo dissidio interiore, il conflitto dell’anima, riproducendo nel suo animo l’orrore della morte. In conclusione, si trattava di strappare se stessi da tutto quanto è terreno, di annientare il proprio amore alla vita, sradicandosi spiritualmente dal corpo. Quelle che trasparivano tra le righe del Secretum erano invece attitudini spirituali che stavano prendendo particolare importanza verso la metà del secolo XIV, in cui è subentrato un momento in cui la rappresentazione della sorte fisica è divenuta tanto prepotente da erigersi a centro della vita morale. Nel Secretum, ad Agostino, che insiste perché il pensiero della morte sia sempre dinanzi ai suoi occhi, Petrarca fa dire che la difficoltà di riuscire in una simile impresa risiede nella mobilità dell’animo. Intorno al 1350 il sentimento della morte stava divenendo un cardine della vita spirituale e vi era giunto attraverso l’intensificarsi del senso della distruzione fisica. Perché l’idea che il corpo doveva decomporsi assumeva un peso sempre maggiore, la morte turbava sempre più gli animi che si preparavano alla vita ultraterrena o volevano ancorarsi più solidamente a quella presente. Tutti erano d’accordo che bisognava considerare l’esistenza terrena dal punto di vista della sua imminente conclusione: L’insegnamento cristiano e quello dei classici erano concordi.
Stava lentamente sorgendo l’arte del ben morire che consisteva semplicemente nell’arte di vivere come se da un momento all’altro l’uomo fosse chiamato a comparire dinanzi al giudice divino. Il senso della morte aveva un solo scopo ed un unico mezzo di operare: quello di sconvolgere l’apprezzamento della durata terrena. Il senso dell’imminenza della fine e della dissoluzione del corpo produsse però ben altri risultati negli spiriti di coloro che non lo sentivano meno intensamente, ma in forma del tutto diversa. Fino allora sembrava che tali sentimenti si potessero tradurre esclusivamente nella rappresentazione orale, scritta o iconografica della morte trionfatrice. La morte, che per lungo tempo non era stata che un nome, un fatto o al massimo un simbolo, aveva certamente trovato in queste forme la sua prima espressione concreta. La visione della sorte fisica si fa in questo periodo più interiore: essa si sposta dal futuro al presente e dal corpo allo spirito. Lo scorrere inesorabile del tempo non deve indurre in inganno: malgrado esso scemi di giorno in giorno, la vita, se non pecchiamo per negligenza, acquista in perfezione ed in valore.

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